Una secessione necessaria
Secondo l'Economist la nascita del nuovo stato del Sudan del sud è una buona cosa
È praticamente certo che nel referendum che si terrà tra poco più di un giorno il sud del Sudan voterà in blocco per la secessione dal resto del paese. Nascerà un nuovo stato, con capitale Juba e un’estensione pari a quella della Francia. Abbiamo già raccontato del complicato intreccio di questioni economiche, etniche e religiose legate a questo voto. E dei rischi che la secessione porterà inevitabilmente con sé. Ora è arrivato il momento di raccontare perché questo voto è così importante, e perché secondo alcuni la secessione è davvero l’unica soluzione auspicabile. Lo spiega l’Economist di questa settimana.
Il lungo matrimonio tra il nord a maggioranza araba e musulmana e il sud a maggioranza cristiana e animista è sempre stato infelice e pieno di diseguaglianze. Un accordo politico di tipo federalista avrebbe funzionato se entrambi i lati avessero mostrato maggiore flessibilità e magnanimità, ma nessuno si è dimostrato in grado di farlo. Almeno due milioni di persone, la maggior parte provenienti dal sud, sono morte nel corso dei conflitti degli ultimi cinquant’anni. La secessione oggi è l’unica opzione possibile.
Gli accordi di pace firmati nel 2005 tra il governo di Karthoum e l’esercito di liberazione (Sudan People’s Liberation Army) garantivano tre cose fondamentali al sud: partecipazione al governo centrale, spartizione al 50 per cento delle risorse petrolifere del paese (le risorse maggiori si trovano al sud) e possibilità di votare per la secessione con un referendum nel 2011. Da quando il Sudan ottenne l’indipendenza dal Regno Unito, nel 1956, gli abitanti del sud sono stati marginalizzati, terrorizzati e sottoposti a continue vessazioni e violazioni di diritti civili e umanitari da parte dei vari regimi di Karthoum.
L’Unione Africana ha osteggiato a lungo l’eventualità di una secessione in Sudan, per paura che potesse innescare nuove guerre d’indipendenza anche negli altri stati africani in cui i conflitti etnici e religiosi sono particolarmente accesi. Il ricordo delle guerre combattute in Congo e in Nigeria per impedire l’indipendenza del Katanga e del Biafra è infatti ancora molto vivo in Africa. Ma le proporzioni del conflitto e delle diseguaglianze in Sudan sono ormai tali che nessun’altra soluzione è praticabile, scrive l’Economist.
Del resto quella del Sudan non sarà il primo caso di secessione per un paese africano. Nel 1993 l’Eritrea ottenne l’indipendenza dall’Etiopia dopo una lunga guerra civile. Allo stesso tempo, sembra improbabile che il voto del 9 gennaio possa davvero innescare un effetto secessione a catena: in Somaliland, l’unica piccola parte della Somalia che è davvero governata, un lungo periodo di autonomia potrebbe portare al suo prossimo riconoscimento come paese indipendente. E in altri casi, come nell’isola di Zanzibar – parte della Tanzania – e nella ricca regione petrolifera di Cabinda – parte dell’Angola – una generosa dose di autonomia è l’unica strada percorribile.