Ormai mancano solo sei giorni al referendum che deciderà della secessione tra nord e sud del Sudan, il più vasto paese africano. E l’attesa per l’esito di un voto in cui si intrecciano questioni economiche, etniche e religiose si sta facendo sempre più preoccupante, per paura che il paese possa di nuovo precipitare nella guerra civile.
La guerra civile 1983-2005
La guerra tra nord e sud del Sudan era durata oltre vent’anni – dal 1983 al 2005 – causando più di due milioni di morti e quattro milioni di dispersi. Gli accordi di pace firmati nel 2005 tra il governo di Karthoum e l’esercito di liberazione (Sudan People’s Liberation Army) garantivano tre cose fondamentali al sud: partecipazione al governo centrale, spartizione al 50 per cento delle risorse petrolifere del paese (le risorse maggiori si trovano al sud) e possibilità di votare per la secessione con un referendum nel 2011. Da quando il Sudan ottenne l’indipendenza dal Regno Unito, nel 1956, gli abitanti del sud sono stati marginalizzati, terrorizzati e sottoposti a continue vessazioni e violazioni di diritti civili e umanitari da parte dei vari regimi di Karthoum. Per questo considerano l’indipendenza un diritto sacro: se le elezioni si svolgeranno regolarmente, è praticamente certo che il sud voterà in blocco per la secessione.
Il presidente Omar Hassan al-Bashir
Il presidente del Sudan Omar Hassan al-Bashir – condannato dalla Corte Penale Internazionale con l’accusa di genocidio nel Darfur – ha detto che non si opporrà ai risultati delle elezioni, ma nessuno si aspetta che l’esito possa essere davvero pacifico. Barack Obama ha fatto sapere ad al Bashir che se Karthoum dovesse permettere il pacifico svolgimento del referendum, gli Stati Uniti potrebbero valutare l’eliminazione delle sanzioni economiche e alleviare il pesante debito estero accumulato dal paese.
Il sud del Sudan
Il sud del Sudan è ricchissimo di petrolio e difficilmente il governo di Karthoum accetterà di perderne il controllo. A questo si aggiunge poi una complicata questione etnica e religiosa. Il sud è a maggioranza animista e cristiana, mentre il nord è a maggioranza musulmana. Il presidente al-Bashir ha già annunciato che, se ci sarà la secessione, il nord del Sudan adotterà una costituzione basata sulla legge islamica che non lascerà spazio a nessuna forma di tolleranza.
Nonostante la sua ricchezza petrolifera il sud del Sudan è comunque una regione estremamente povera, stremata dalla guerra civile e dalla totale assenza di investimenti da parte del governo centrale. I suoi oltre dieci milioni di abitanti vivono di agricoltura su territori prevalentemente desertici e la nuova nazione – che avrebbe un’estensione pari a quella della Francia – avrebbe come capitale Juba, una città che ha solo cinque strade asfaltate.
Il sud è anche la regione con la percentuale più alta di mortalità legata a gravidanza e parto e con il più alto tasso di analfabetismo (nove donne su dieci sono analfabete). E ha solo un malridotto ospedale per oltre cinque milioni di abitanti, costretti a vivere in media con meno di un dollaro al giorno. Nonostante questo, nel centro di Juba c’è un orologio che fa il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mancano al giorno del referendum, il 9 gennaio. Sul cartello accanto c’è scritto: «Ultima fermata per la libertà».