Il 2011 della politica americana

Le cose fondamentali da sapere, in dieci FAQ di Politico

di Francesco Costa

A staff fixes the presidential seal before US President Barack Obama gives a press conference in the Eisenhower Executive Office Building at the White House in Washington, DC, on December 22, 2010. Obama celebrated the Senate ratification of a nuclear arms reduction treaty with Russia, saying it "sends a powerful signal to the world." AFP PHOTO/Jewel Samad (Photo credit should read JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images)
A staff fixes the presidential seal before US President Barack Obama gives a press conference in the Eisenhower Executive Office Building at the White House in Washington, DC, on December 22, 2010. Obama celebrated the Senate ratification of a nuclear arms reduction treaty with Russia, saying it "sends a powerful signal to the world." AFP PHOTO/Jewel Samad (Photo credit should read JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images)

La politica americana è strutturata per cicli regolari e praticamente immutabili: una volta l’anno si fa il discorso sullo stato dell’unione, ogni due anni si votano tutta la Camera e un terzo del Senato, ogni quattro anni si vota per la presidenza, un anno prima si comincia con le primarie di partito. Tutti lo sanno: gli elettori, i giornalisti e soprattutto i politici, che quindi si regolano di conseguenza. Una delle ragioni per cui la politica americana è interessante e divertente da seguire è l’esistenza di questa serie di paletti e pilastri: poi ci sono un miliardo di cose e fattori imprevedibili, molti di più che in paesi dall’assetto istituzionale più instabile, ma le regole del gioco sono note e chiare e quindi le cose si leggono meglio. Non bisogna decifrare discorsi in politichese, non bisogna appendersi ai virgolettati dei retroscena pubblicati sui quotidiani (che infatti ne pubblicano ben pochi), non è necessario vedere dappertutto complotti, manovre machiavelliche e alleanze sotterranee.

E quindi, scorrendo il calendario dell’anno che appena cominciato, non è complicato individuare quali saranno i fatti fondamentali da tenere d’occhio nella politica statunitense. Anche perché di cose imprevedibili e incerte, come abbiamo detto, ce ne sono tantissime. Nessuna, però, che non si possa tentare di indagare e capire già adesso. Uno dei migliori commentatori in grado di fare questo lavoro è Nate Silver, che da qualche mese ha trasferito il suo apprezzato blog, FiveThirtyEight, sul sito del New York Times. Poi c’è Politico, probabilmente il miglior sito in circolazione tra quelli che si occupano di politica americana, che si è fatto carico di affrontare le dieci questioni più importanti riguardo l’anno che verrà per la politica americana. Delle FAQ, in pratica: le riprendiamo, mettendoci del nostro.

Cosa dirà Obama nel discorso sullo stato dell’unione?
Come da tradizione, il presidente si rivolgerà alla seduta plenaria del congresso tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio. Per la prima volta da quando è presidente, dietro di lui non troverà Nancy Pelosi ma il nuovo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner. E quindi bisognerà leggere bene il tono di Obama, dal momento che avrà di fronte un nuovo congresso: uno speaker repubblicano, una Camera a maggioranza repubblicana, un Senato a maggioranza democratica. Probabilmente ne approfitterà per stagliarsi nuovamente sopra le due parti ed elogierà i risultati ottenuti in questi ultimi due mesi come frutto di un clima di sana cooperazione tra democratici e repubblicani. D’altra parte questo rischia di essere l’ultimo stato dell’unione in cui può farlo: il prossimo cadrà in pieno electoral year. Alla Casa Bianca, lo staff del presidente lavora al discorso sullo stato dell’unione da diversi mesi, probabilmente addirittura da prima delle elezioni di metà mandato. Se ne sa molto poco ma dovrebbe essere certo un impegno per la riduzione del deficit, volto a prendere in contropiede i repubblicani e mostrare all’elettorato indipendente che può ancora essere un punto di riferimento affidabile.

Quando comincerà la campagna per la rielezione di Obama?
Chi vorrà sfidare Obama alle prossime presidenziali comincerà le sue operazioni quest’anno: su questo non ci sono dubbi, visto che le prime tornate di primarie si terranno fra gennaio e febbraio dell’anno prossimo. Quello che sappiamo è che alcuni alti funzionari dell’amministrazione – su tutti David Axelrod e Jim Messina – lasceranno Washington nei primi mesi dell’anno per trasferirsi a Chicago e iniziare a pianificare la campagna elettorale per la rielezione di Obama. Però non è chiaro quando questa campagna comincerà ufficialmente: quando Obama annuncerà in un discorso la sua volontà di ricandidarsi. Anche perché quello sarà un via per tutta la politica americana, e i repubblicani sono ancora in grande incertezza: quattro anni fa a questo punto avevano già cinque candidati in campo, oggi non ne hanno nemmeno uno. Obama potrebbe decidere di annunciare presto la sua ricandidatura, così da mettere fretta agli avversari e mostrarne le incertezze. Oppure potrebbe aspettare, dato che col congresso diviso non ha motivo di accelerare l’inizio della campagna elettorale.

Sarah Palin si candiderà?
Questa è destinata a essere la domanda della politica americana nei prossimi mesi. Probabilmente in questo momento non lo sa nemmeno lei, nonostante negli ultimi mesi si stia muovendo come una possibile candidata: endorsement ai candidati delle elezioni di metà mandato, viaggi all’estero, commenti quotidiani sui fatti all’ordine del giorno. Motivi per cui potrebbe candidarsi: è molto popolare nella base del partito repubblicano, potrebbe spaventare molti potenziali avversari inducendoli a non candidarsi nemmeno. Motivi per cui potrebbe non candidarsi: è molto impopolare fuori dal recinto dai tea party, che alle elezioni di metà mandato non hanno fatto benissimo; i moderati non si fidano di lei e i sondaggi sul piano nazionale la danno perdente contro qualsiasi altro candidato, democratico o repubblicano. E poi sta facendo un sacco di soldi con la tv e i libri: perché smettere?

La Casa Bianca come pensa di gestire Darrell Issa?
E chi è Darrell Issa, direte voi. Appunto. Andiamo con ordine. Malgrado i proclami fanfaroni, nei prossimi due anni i repubblicani non hanno alcuna possibilità né di abolire le riforme di Obama – su tutte quella sanitaria e quella finanziaria – né di far approvare delle leggi apertamente conservatrici: questo perché i democratici conservano la maggioranza al Senato e perché comunque non esistono i numeri al Congresso per superare un eventuale veto presidenziale. C’è un repubblicano, però, che da solo può creare qualche problema ai democratici. Si chiama appunto Darrell Issa, fa il deputato ed è presidente della Commissione di supervisione e riforma del governo. Ha il potere di aprire delle inchieste e interrogare qualsiasi membro dell’esecutivo, e ha intenzione di usarlo. Non importa se le inchieste hanno o no fondamento: trascinare un giorno la settimana un ministro o un funzionario al congresso può diventare una gran rottura di scatole. Non è chiaro quale sarà l’approccio dell’amministrazione: se sarà dialogante o combattiva.

La scadenza di luglio per la guerra in Afghanistan sarà rispettata?
Obama ha promesso da tempo che nel luglio del 2011 sarebbe iniziato il ritiro delle forze statunitensi dall’Afghanistan. Da quel momento ha più volte affermato che il piano procede bene, che la strada è quella giusta, mentre qualcuno dal Pentagono faceva sapere invece che le operazioni potevano richiedere più tempo del previsto. Due settimane fa Obama ha rinnovato il suo impegno, dicendo che da luglio comincerà il processo di transizione delle responsabilità dall’esercito americano a quello afghano. Ovviamente dietro la formula “inizio del ritiro” può esserci qualunque cosa: un movimento significativo oppure una decisione simbolica. Sarebbero entrambe importanti ma avrebbero valore diverso.

Che fine faranno Hillary Clinton e Robert Gates?
L’attuale squadra di Obama in politica estera è fortissima, ma perderà dei pezzi. Uno è già andato via, e inaspettatamente: Richard Holbrooke, gran diplomatico, morto appena due settimane fa. Non è chiaro cosa faranno il segretario di stato Hillary Clinton e il ministro della difesa Robert Gates. Soprattutto il secondo, che gode di un vasto e bipartisan apprezzamento e aveva promesso di andare in pensione dopo le elezioni di metà mandato. È ancora lì, ma dovrebbe andar via presto. Hillary Clinton potrebbe prendere il suo posto, anche se pare improbabile: perché ha detto più volte che quello di segretario di stato è il suo “ultimo incarico pubblico” e perché, dovesse cambiare idea, sarebbe meglio cambiare posizione dopo le presidenziali, in caso di rielezione di Obama.

I repubblicani cercheranno davvero di tagliare i fondi alla riforma sanitaria e a quella finanziaria?
Abbiamo detto che i repubblicani non hanno speranze di abolire le due leggi, nonostante le promesse molti di loro durante la campagna elettorale. Quello che possono fare è tagliare i fondi perché le nuove norme possano essere messe in funzione. Diversi fra i repubblicani più estremisti lo hanno minacciato più volte. Possono farlo, almeno alla Camera. Non è chiaro se si tratta di un gioco a cui vale la pena giocare: una pratica del genere rischierebbe di alienare loro il consenso dei moderati, di dare ragione a chi li considera degli irresponsabili e portare a un congelamento di tutte le attività del governo, come accadde nel 1995. E quella volta fu un disastro per loro, non per Bill Clinton.

Cosa succederà alla causa legale Cuccinelli contro Sebelius?
Parliamo dei ricorsi presentati contro la riforma sanitaria, in particolare contro la norma che prevede l’obbligo per ogni cittadino di acquistare un’assicurazione sanitaria (con sussidi e tagli fiscali per chi non potrebbe permettersela). Molti repubblicani pensano che un tale obbligo sia incostituzionale, violando la libertà dell’individuo. La questione è già stata sollevata in diversi tribunali locali: decine hanno dato ragione al governo ma ha fatto molto rumore la decisione di un giudice in Virginia, che ha considerato la norma incostituzionale. Con ogni probabilità la cosa si concluderà davanti alla Corte Suprema, ma non è chiaro se questo accadrà già quest’anno: conviene ai democratici, anche per allontanare un eventuale risultato negativo dalle presidenziali; non conviene ai repubblicani, che sperano di inanellare altri effimeri ma rumorosi successi.

Cosa cambia con la ristrutturazione dei collegi?
Probabilmente sapete che gli Stati Uniti sono divisi in collegi elettorali – districts – basati sulla popolazione, e quindi ogni censimento comporta una ristrutturazione e un ridisegno dei collegi: ci sono stati che perdono parlamentari e altri che ne guadagnano, stati che perdono grandi elettori in vista delle presidenziali e altri che ne guadagnano. E quindi partiti che perdono e altri che guadagnano, anche se storicamente mai in termini davvero determinanti. Stavolta sembra che il lavoro avvantaggerà leggermente i repubblicani, specialmente in stati delicati come il Michigan e l’Ohio. Ma anche i democratici hanno qualche freccia, per esempio in Illinois. In generale, non si tratta di una partita facile: allargare un collegio spesso vuol dire anche rendere più incerto l’esito del suo voto.

Cosa c’è nel libro di Dick Cheney?
Nel mondo anglosassone le memorie dei politici fanno genere a sé, sono una specie di passaggio obbligato: servono dopo la fine della carriera politica, per tirar su dei soldi e fare un bilancio di quanto ottenuto (vedi Bush); servono durante la carriera politica, per tirar su dei soldi e riposizionarsi (vedi Palin); servono all’inizio della carriera politica, per tirar su dei soldi e farsi conoscere (vedi Obama). Nel 2011 uscirà quello dell’ex vicepresidente Dick Cheney, uno dei personaggi più controversi della politica statunitense degli ultimi vent’anni, dipinto da molti come l’anima oscura dell’amministrazione Bush, il vero regista delle guerre in Afghanistan e in Iraq. Di certo Cheney è stato uno dei vicepresidenti più attivi, influenti e potenti di tutti i tempi, tanto che l’attuale vicepresidente Biden, una volta assunto l’incarico, ha subito affermato di voler ridimensionare compiti e competenze del suo ufficio. Il libro è molto atteso anche perché Cheney è noto per il suo linguaggio diretto e poco diplomatico, perché è un idolo dei conservatori e in questi mesi ha riempito di critiche l’amministrazione Obama, rinunciando al tradizionale discreto silenzio a cui solitamente si attiene chi lascia la Casa Bianca. A un certo punto qualcuno aveva persino ipotizzato una sua corsa alle presidenziali del 2012. È molto improbabile, per non dire impossibile, ma le vicende attorno al suo libro andranno seguite comunque.

foto JEWEL SAMAD/AFP/Getty Images