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  • Giovedì 4 novembre 2010

Sei cose da sapere sulle elezioni di metà mandato

Le sfide ancora in bilico, il futuro di Obama, i disaccordi tra i repubblicani sulla linea da tenere

di Francesco Costa

President Barack Obama walks past a portrait of Jimmy Carter in the Cross Hall towards the East Room of the White House for a news conference the day after the midterm elections, Wednesday, Nov. 3, 2010. (AP Photo/Charles Dharapak)
President Barack Obama walks past a portrait of Jimmy Carter in the Cross Hall towards the East Room of the White House for a news conference the day after the midterm elections, Wednesday, Nov. 3, 2010. (AP Photo/Charles Dharapak)

Due giorni fa negli Stati Uniti si sono tenute le elezioni di metà mandato: ne avete letto praticamente dappertutto e ovviamente anche sul Post. Eppure ci sono alcune cose che la stampa italiana ha tralasciato, alcune perché più laterali, altre perché apparentemente di minore attraenza per chi osserva gli Stati Uniti dall’estero. Si tratta però di cose interessanti e sono utili per capire meglio cos’è successo e cosa potrà accadere da qui in poi. Sono sei.

Obama non ha chiesto scusa
I giornali di oggi hanno molto enfatizzato l’assunzione di responsabilità da parte di Obama. Il presidente americano ha detto che “deve fare di meglio” e insomma, ha accettato la sconfitta e ammesso gli errori. In realtà no. Chi ha visto per intero la conferenza stampa tenuta ieri dal presidente americano sa bene che Obama non ha mai nemmeno per un momento sostenuto che le politiche della sua amministrazione siano state la causa della sconfitta dei democratici: mai, manco per un secondo. Obama ha detto che i cittadini sono arrabbiati e frustrati perché non vedono ancora i risultati dell’attività dell’amministrazione, non perché quei risultati non gli piacciono. È una tesi ovviamente criticabile, ma non è un’ammissione di un bel niente. Le frasi riportate dai giornali le ha dette, certo, ma posizionarle nel loro contesto le indebolisce: Obama ha detto che tutti devono farsi un esame di coscienza e cercare di fare di meglio da adesso in poi, lui compreso. John Dickerson su Slate commenta bene quanto ha detto ieri il presidente statunitense, e cosa vuol dire.

Come si costruisce una vittoria
Questo bell’articolo del New York Times comincia raccontando di una riunione avvenuta dieci giorni prima l’insediamento di Obama alla presidenza, nel gennaio del 2009. Nella sala era presente lo stato maggiore del partito repubblicano. Qualcuno ha mostrato una presentazione in PowerPoint, si è cominciato a discutere di come riprendersi il Congresso: la campagna elettorale, di fatto, è cominciata lì. Il New York Times spiega che i repubblicani hanno imparato moltissimo da quanto fatto nel 2006 e nel 2008 da Rahm Emanuel – allora deputato e poi capo dello staff della Casa Bianca – che ideò e guidò la strategia con cui i democratici recuperarono il controllo della Camera e del Senato guadagnando vittorie anche in collegi storicamente repubblicani. Un’operazione di scelta dei candidati così intelligente e accorta da portare all’elezione di candidati democratici anche in collegi che nel frattempo preferivano mandare alla Casa Bianca John McCain a Barack Obama.

I soldi contano poco
Chi ha seguito con qualche attenzione le ultime campagne elettorali negli Stati Uniti sa già che quella cosa che si ripete spesso sulla politica americana – cioè che vince chi ha più soldi, e basta avere i soldi per vincere – è una balla. Di dimostrazioni ce ne sono a decine. Di recente c’è stato il fallimentare tentativo di ottenere la nomination presidenziale repubblicana da parte del ricchissimo Mitt Romney, e dall’altra parte il successo di John McCain, alla guida di una campagna su cui inizialmente non puntava quasi nessuno. Queste elezioni di metà mandato sono state l’ennesima conferma, come spiega il Washington Post. In California due candidate ricchissime – Meg Whitman e Carly Fiorina – hanno attinto a piene mani dal loro patrimonio personale oltre cento milioni di dollari, cifre gigantesche per campagne elettorali locali. E hanno perso. La stessa cosa è accaduta a Linda McMahon, milionaria imprenditrice del mondo del wrestling le cui vicissitudini il Post aveva raccontato qui. E d’altra parte gli stessi democratici sconfitti hanno speso su scala nazionale più soldi di quanto abbiano fatto i repubblicani. E hanno perso. I soldi aiutano molto, ovviamente, ma non fanno vincere nessuno.

Cosa faranno i repubblicani
La quasi totalità degli osservatori in queste ore ha dedicato la sua attenzione alla Casa Bianca, cercando di capire se e come l’amministrazione Obama cambierà tono e approccio nel tentativo di recuperare consensi e ottenere successi legislativi a fronte di un Congresso nel quale i repubblicani sono molto più influenti di quanto fossero prima. Questo ha distratto molti da un altro tema fondamentale, cioè proprio cosa succederà nei repubblicani. I candidati dei tea party hanno discusso a lungo della possibilità di creare un gruppo autonomo alla Camera. Non è chiaro se alla fine prevarrà la linea del futuro speaker della Camera, John Boehner, che ha dichiarato di voler trovare delle intese con l’amministrazione Obama, o quella del leader dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell, che ha dichiarato che il primo obiettivo dei repubblicani non dovrebbe essere lavorare con Obama ma sconfiggerlo nel 2012. “Se i nostri principali obiettivi sono l’abolizione della riforma sanitaria, la fine dei bailout, il taglio della spesa pubblica, la riduzione delle dimensioni del governo, l’unico modo per fare queste cose è mettere alla Casa Bianca qualcuno che non metta un veto su tutte queste cose”, ha detto McConnell. Il presidente statunitense ha già convocato i vertici del Congresso, repubblicani e democratici, per un incontro sull’agenda legislativa dei prossimi mesi.

Fare come Clinton, non fare come Clinton
Siccome la storia si ripete, specie in una democrazia dall’assetto solido e collaudato come quella statunitense, in questo momento tutti fanno grandi paralleli e associazioni tra quanto successo a Obama a queste elezioni e quanto capitò a Bill Clinton nel 1994. Entrambi presidenti giovani e di belle speranze, entrambi colpiti da una batosta alle elezioni di metà mandato. A Clinton andò anche peggio di Obama, visto che perse sia la Camera che il Senato. Nonostante questo, Clinton è stato rieletto nel 1996 e, prima del cosiddetto sexgate, è riuscito anche a tenere la sua popolarità su livelli più che accettabili. La strategia adottata da Clinton dopo le elezioni del 1994 viene chiamata “triangolazione”: una manovra di spostamento al centro che lo portò a fare da mediatore e quasi da figura superpartes tra i democratici e i repubblicani del congresso. Fu un percorso complicato, e Clinton era avvantaggiato dall’essere stato eletto fin dall’inizio su una piattaforma centrista e moderata. Un percorso del genere per Obama sarebbe ben più doloroso, considerato il suo messaggio progressista e rivoluzionario. D’altra parte appare pericolosa anche la strada del muro contro muro con i repubblicani e della ricerca del consolidamento del proprio elettorato: come hanno dimostrato queste elezioni, senza un robusto sostegno dell’elettorato indipendente la rielezione diventa un’impresa proibitiva. Va da sé che qualsiasi strada sceglierà Obama, questa potrà essere messa in salita o in discesa dalle condizioni generali del paese dal punto di vista economico. Oggi il tema è affrontato bene da questi due articoli di Politico e Slate.

Cose rimaste in sospeso
I liveblogging e le dirette finiscono la mattina, quando si va a dormire e il risultato è acquisito, noncuranti del fatto che alcune sfide rimangono aperte, a volte per giorni o addirittura per settimane o mesi. Dopo le elezioni del 2008 servirono quasi nove mesi per capire chi avesse vinto le elezioni per un seggio senatoriale del Minnesota. Anche a questo giro ci sono molte elezioni ancora in gioco, a causa della minuscola distanza tra i candidati. Il risultato nel collegio della Camera 6 per il Kentucky, che avevamo molto tenuto d’occhio durante la nottata proprio perché in bilico, è ancora aperto: il candidato democratico ha 600 voti di vantaggio su quello repubblicano ma la vittoria non è ancora stata assegnata. La stessa cosa succede in due collegi in Arizona, in un collegio in Texas, eccetera. Al Senato è ancora in bilico il seggio di Washington, col candidato democratico in vantaggio, e soprattutto quello dell’Alaska, la cui storia vi abbiamo raccontato pochi giorni prima delle elezioni: le schede con la preferenza scritta – e non punzonata, come per i candidati di partito – sono la maggioranza, e quindi l’indipendente ex repubblicana Lisa Murkowski potrebbe davvero aver fatto il miracolo. Tra i governatori, è ancora in bilico l’Illinois: è lo stato di casa di Obama, porta 21 grandi elettori alle presidenziali, ha appena eletto un senatore repubblicano, conta parecchio.

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