Oggi ricominciano i colloqui fra Israele e Palestina per arrivare alla pace. Ci saranno prima degli incontri con i mediatori – principalmente gli Stati Uniti, ma anche con gli altri membri del quartetto – ed entrambi i leader terranno un discorso in cui parleranno dei propri auspici per la trattativa che sta per cominciare. Gli americani hanno sostenuto, più volte, che la pace si può raggiungere a breve, anche in un anno. Tutti sanno che non è vero, e lo scetticismo è l’atteggiamento più diffuso nell’opinione pubblica israeliana, palestinese, e fra la maggior parte degli esperti stranieri.
Qualche giorno fa avevamo spiegato più approfonditamente quello che dovrebbero fare israeliani e palestinesi per arrivare alla pace, qui – più in breve – passiamo al setaccio quello che è invece probabile che facciano.
Le posizioni di partenza
I palestinesi hanno sempre detto che l’inizio delle trattative era vincolato alla promessa israeliana di estendere il congelamento delle colonie che scadrà il prossimo 20 settembre: Netanyahu, premier israeliano, ha risposto picche. Anche se i palestinesi hanno accettato ugualmente di trattare, è molto probabile che senza una nuova interruzione della costruzione delle colonie – che i palestinesi interpretano, con buone ragioni, come una dichiarazione di guerra – il trattato di pace non potrà andare avanti. D’altra parte Mahmoud Abbas, presidente palestinese chiamato anche Abu Mazen, deve fronteggiare una larga parte del proprio partito – nonché l’interezza della propria opinione pubblica – che richiede il diritto al ritorno (anche in Israele) per i quattro milioni e mezzo di persone che hanno lo status di profugo, di cui meno del cinque percento ha mai vissuto in nessuna area delle vecchia Palestina mandataria: un’anomalia legale che non ha equivalenti nel mondo, e una condizione che Israele non potrà mai accettare.
L’incontro segreto fra Barak e Abu Mazen
Quelle elencate sopra sono le ragioni legittime con cui le due parti potrebbero far saltare il banco delle trattative. Ce ne sono altre, molto meno legittime, che saranno probabilmente messe in campo. C’è però stato un timido segnale positivo: Netanyahu aveva rifiutato di far incontrare Isaac Molcho and Saeb Erekat, capi negoziatori delle due delegazioni, prima dell’inizio dei colloqui negli Stati Uniti, perché gli israeliani hanno sempre detto di rifiutare qualunque precondizione all’inizio delle trattative; tuttavia – racconta la stampa israeliana – sarebbe avvenuto un incontro segreto fra Ehud Barak, ministro degli esteri israeliano, e Abu Mazen in Giordania in cui Barak avrebbe rassicurato il premier palestinese della serietà dell’impegno israeliano.

(La Palestina attuale: arancione -> zona A, verde -> zona B, bianco -> zona C – Gaza è tutta zona A)
La situazione attuale
Il conflitto arabo israeliano è un conflitto, prima di ogni altra cosa, sulla terra. Quindi è fondamentale capire quali siano, da questo punto di vista, le posizioni iniziali. Oggi in Cisgiordania ci sono tre diverse aree di amministrazione, ereditate dagli Accordi di Oslo – che dovevano essere il primo passo per un accordo che sarebbe venuto negli anni successivi – e cristallizzatesi. Ci sono alcune aree, intorno alle città principali, che sono controllate civilmente e militarmente – con le forze di sicurezza dell’ANM, non un vero e proprio esercito – dai Palestinesi (in arancione sulla mappa, zona A), alcune che sono civilmente gestite dai palestinesi ma militarmente dagli israeliani (in verde sulla mappa, zona B), e alcune sono sia civilmente che militarmente gestite dagli israeliani (in bianco sulla mappa, zona C). A Gaza non c’era, concretamente, alcuna zona B: colonie israeliane, e territorio palestinese si spartivano la Striscia. Dal ritiro del 2005, Gaza è diventata interamente – almeno a livello sostanziale – equivalente alla zona A, tutta palestinese.
Israele: gli spazi di trattativa
Il governo attualmente al potere in Israele è quello meno propenso a concessioni nei confronti dei palestinesi degli ultimi vent’anni. Il premier Netanyahu ha sempre contestato anche le timide concessioni – nonché il ritiro unilaterale da Gaza – che aveva fatto Ariel Sharon durante la cosiddetta Road Map. In più continua a dirsi contrario agli accordi di Oslo del ’93, l’unico parziale riconoscimento dell’autonomia palestinese attualmente in vigore. Non c’è dubbio che questi non siano i migliori presupposti per sperare in un accordo.
Netanyahu è notoriamente sulle posizioni del Think Tank israeliano Jerusalem Center for Public Affairs, che rivendica la pericolosità per Israele di qualunque concessione territoriale che possa essere accettata dai palestinesi come un proprio Stato. È probabile che si discuta dei territori da cedere, e che Netanyahu sia disposto anche a qualche concessione: ma la questione principale sarà quella di Gerusalemme, e il premier israeliano sembra molto poco propenso a una trattativa concreta.
Palestina: gli spazi di trattativa
I mediatori palestinesi hanno un vantaggio: non hanno nulla da perdere. Attualmente controllano una piccola porzione dei territori che neanche i più accaniti oltranzisti della destra israeliana pensano ragionevolmente di poter annettere. Tutti sanno che qualche punto percentuale dei territori del ’67 rimarrà a Israele, i palestinesi sperano di mantenere questo numero a una cifra.
Necessariamente dovranno rinunciare al diritto di ritorno per tutti gli eredi dei profughi in Israele, puntando su un numero di persone che corrisponda – almeno simbolicamente – a quelle ancora in vita, fra coloro a cui è stato impedito di tornare in territori che sono attualmente israeliani: intorno alle 200 mila. Abu Mazen tenterà di strappare il maggior controllo possibile sul confine con la Giordania, per permettere a tutti gli altri di immigrare nella ventura Palestina.