Un’estate sprecata

L'Italia ha passato le ultime settimane a discutere di scemenze, eppure di cose serie ce ne sarebbero

di Filippomaria Pontani

Per chi al tempo dell’Heysel era poco più di un bambinetto, è difficile valutare se sia fondata la recente affermazione di Walter Veltroni secondo cui questa sarebbe l’estate “più brutta” degli ultimi decenni; a voler pescare nelle poco fonde memorie, almeno il verano del 1980 e quello del 1992 (non a caso esplicitamente evocato da Veltroni come termine di confronto) non passarono in letizia. Certo però la bruttezza (o la bruttura) ha assunto quest’anno una forma peculiare, e consona al clima: la putrefazione – nel senso a più riprese descritto da Nichi Vendola – fa sì che ormai il sistema “pute fieramente”, come direbbe il Boccaccio.

In questo panorama, i simboli hanno un loro peso, come ben sa la Lega Nord, che sotto San Lorenzo sforna un roboante statuto del popolo veneto (prodromo al peggior Haider), e sotto Ferragosto perpetua la tradizione di Ponte di Legno, caricandola, come ogni anno, di un ingrediente nuovo: altra volta furono le miss, il celoduro, la minaccia dei fucili, quest’estate è toccato allo spavaldo saluto col pugno nel palmo aperto, gesto cameratesco che i cortigiani dell’egro leader accolgono e ricambiano con sconcertante entusiasmo.

I simboli, dunque. Una delle lacune del principale partito di opposizione, pur variamente attivo nella prassi parlamentare, è l’assenza (o – il che è lo stesso – l’eccesso) di simboli identitari in grado di colpire e mobilitare fasce significative della popolazione: se si fatica a brillare di luce propria, a imporre un’agenda politica, si finisce inesorabilmente a contestare e a indignarsi ogni giorno per le malefatte o le simbologie altrui, ovvero in buona sostanza a giocare di rimessa. Così, purtroppo, sta avvenendo anche nel singolare balletto di voci (fra di loro per di più assai contrastanti) che stilano perizie giuridiche sulle malefatte monegasche di Fini, o prefigurano alleanze futuribili con un ampio ventaglio di ex-sostenitori (e ben fedeli, for that matter, fino al provvisorio benservito) dell’attuale premier.

In questo panorama l’unico gesto inatteso lo ha prodotto proprio il sullodato Walter Veltroni, onorando di una visita ferragostana un luogo che dovrebbe essere meta di pellegrinaggio civile ben più di San Giovanni Rotondo: il Centro di Documentazione di Cinisi intitolato a Peppino Impastato, trucidato dalla mafia nel maggio del 1978 (è noto il sinistro sincronismo con l’assassinio di Aldo Moro). Si badi: non si vuole qui sciogliere un ditirambo a Veltroni, che nella gestione del Partito Democratico ha commesso non pochi errori (forse tra i più gravi sta quella visita che nell’inverno del 2007 ridette piena autorità a Berlusconi nel momento in cui la rottura con Fini stava per consumarsi, con due anni di anticipo e le “comiche finali”). È pero indubbio che un semplice atto di presenza sia valso a riportare per un attimo l’attenzione dei media sulla criminalità organizzata, e soprattutto a sottrarre questo tema alla propaganda governativa, che dipinge gli arresti e le confische degli ultimi due anni come frutto di una repentina attività legislativa anziché delle fatiche annose ed erculee di magistrati e poliziotti. Omettendo peraltro di ricordare come (a tacere delle ripetute intimidazioni e dei casi Ciancimino o Spatuzza) i disegni di legge sulla vendita dei beni confiscati, sul processo breve, sulle intercettazioni, fortemente sostenuti dalla maggioranza e in parte ancora in ballo, rappresentino minacce incalcolabili a un’efficace attività di contrasto alle mafie.

Non era mai capitato, se non erro, che le due prime cariche dello stato venissero entrambe dal Meridione: eppure una fondata descrizione del fenomeno mafioso, e del livello inusitato raggiunto dai traffici illeciti nel nostro Paese e in tutta Europa, è demandata agli occasionali interventi di Roberto Saviano o agli speciali di Report e Annozero, tutti programmi tacciati dal governo in carica – nel migliore dei casi – di disfattismo. Si raccomanda perciò la visione della “soirée-théma” messa in onda ieri sera dal canale franco-tedesco Arte (repliche il 19 agosto alle 10.25 e il 4 settembre alle 0.35). Senza indulgere ad alcuno degli stereotipi “folkloristici” che di norma accompagnano lo sguardo straniero sui boss, nei documentari di Carmen Butta veniva data voce a personaggi come il sindaco di Gela Rosario Crocetta, il procuratore di Palermo Roberto Scarpinato, al’oncologo napoletano di Acerra Antonio Marfella, al pm di Santa Maria Capua Vetere Donato Ceglie.

Sobriamente e senza ricerca d’effetti, si descrivevano alcuni meccanismi del racket, del traffico di droga, dello smaltimento illecito dei rifiuti, e non da ultimo dell’intreccio sempre più stretto fra mafia e politica (la cosa più difficile da comprendere per i telespettatori d’altri Paesi). Si raccontavano storie che in Italia sembrano appartenere a una parte politica (o meglio, ai Rompiballe di una parte politica), mentre la retorica condivisa è quella (usurpata) del numero dei latitanti arrestati o quella (semplicemente fasulla) dei rifiuti magicamente scomparsi dalle strade di Napoli.

Ma si badi: l’interesse dei Tedeschi non è una curiosità turistica o gastronomica, tesa ad accertare la radioattività del suolo campano, la commestibilità della mozzarella di bufala o il sapore della P38 sugli spaghetti. Dopo Duisburg la consapevolezza del fenomeno mafioso in Germania è assai cresciuta, e non è un caso che speciale interesse sia stato riservato dall’opinione pubblica alle tonnellate di ecoballe spedite da Napoli – nel colmo della crisi – verso il sottoutilizzato inceneritore di Croebern. Molti ricorderanno i “treni della vergogna”, che denunciavano con il loro stesso sferragliare l’incapacità italiana di fronteggiare l’emergenza, e garantivano sonanti profitti agli smaltitori d’Oltralpe.

Ebbene, una serie di inchieste italiane e sassoni (anzitutto gli sviluppi della cosiddetta “Operazione Rompiballe”, appunto) stanno ora svelando come in quel regime di emergenza, in cui l’essenziale (à la Bertolaso) era concludere presto, siano state spedite in Germania enormi quantità di rifiuti “speciali”, ricchi in particolare di arsenico, che non erano stati bonificati in Italia, e non hanno poi ricevuto alcun trattamento nelle centrali preposte – tra l’altro non abilitate all’uopo, o comunque incapaci di smaltire le inusitate quantità provenienti dal Belpaese; le aziende ripetutamente indicate come responsabili del guaio sono la Ecolog e la Ecoservice. Sul destino di tali rifiuti tossici, e soprattutto sulle ormai accertate combines retrostanti a tali spedizioni, regna ancora un discreto mistero, che sembra godere di potenti omertà internazionali anche da parte della politica tedesca (chi sa la lingua può iniziare a leggere qui).

Ma quel che importa è che di questa storia, così come di tutte quelle che hanno fatto fiorire il nostro Sud di morti, in Italia si parla poco o nulla, per dedicarsi invece alle ville di Ansedonia e ai pugni del Bresciano. In questo senso, e dinanzi a tragedie di simile portata, anche un gesto semplice come quello di Veltroni (avvenuto mentre a pochi chilometri due ministri facevano orrendamente strame dell’art. 1 della nostra Costituzione) è un piccolo soffio in quest’estate che – è il caso di dirlo – pute fieramente.

(foto: Random Access Life)