Supini di fronte al copyright

Ho cominciato ad occuparmi di diritto d’autore e ambienti digitali molti anni fa. Sicuramente prima del 1998 quando in USA il Sonny Bono Act estese per l’undicesima volta in soli 50 anni il copyright da quelle parti.
Gli americani in questo sono meno ambigui, meno doppi e catacombali di noi. Sony, Disney e un pugno di altre multinazionali dell’intrattenimento pagarono il loro obolo a senatori amici per ottenere l’ennesima estensione del periodo di copertura. La situazione del resto lo richiedeva. Stavano per scadere i diritti su Topolino e il celebre cartone di Disney sarebbe di lì a poco passato nel pubblico dominio. Lawrence Lessig, a nome di alcune associazioni americani che si occupavano di digitalizzare libri, impugno la faccenda in tribunale, portò il caso fino alla Corte Suprema e perse. Così Disney, che per decenni aveva monetizzato il pubblico dominio delle storie dei fratelli Grimm e di Victor Hugo, ottenne che non fosse fatto a lei ciò che lei aveva ampiamente fatto in passato ai grandi della letteratura ottocentesca. Prenderne le storie più belle e rielaborarle in accordo con i tempi.

In quel 1998 poco importò che, come piccolo effetto collaterale, migliaia di altre meno note opere dell’ingegno (che sarebbero dovute diventare di pubblico utilizzo insieme a Mickey Mouse), libri, testi teatrali, ecc. venissero allontanate dalla pubblica disponibilità per ulteriori vent’anni. Opere che, nella grande maggioranza dei casi, non generavano introiti per nessuno rimasero indisponibili perché si potesse continuare a raccogliere i diritti su Topolino, un cartone animato della fine degli anni 20.

Chiunque si sia occupato con un minimo di apertura mentale di copyright dopo la nascita di Internet sa alcune cose. Che nell’epoca della duplicabilità digitale la protezione delle opere dell’ingegno avrà bisogno di nuovi sistemi e maggiori attenzioni e, molto probabilmente, di assai minor durata. L’Economist, che non è certamente un foglio di pericolosi rivoluzionari, a un certo punto scrisse che forse il tempo giusto per il copyright digitale poteva essere quello dei 14 anni originari dello Statuto di Anna dell’Inghilterra settecentesca. Mentre oggi siamo oltre i 70 anni, non dalla nascita dell’opera ma dalla morte dell’autore.

L’idea dei detentori dei diritti è ovviamente del tutto opposta. Il copyright, che nasce ed è tuttora un diritto temporaneo, visto che il fine ultimo delle opere sarà quella di appartenere alla comunità – è così che la nostra società fino ad oggi è progredita – secondo costoro dovrebbe diventare eterno, trasformandosi in un diritto di proprietà. Lo so, non ditemelo, è gente pericolosa, per sé e soprattutto per gli altri.

La decisione di oggi sul nuovo regolamento sul copyright, come avrete notato, non si occupa di simili argomenti. Agli industriali dell’intrattenimento e dell’editoria non interessa ragionare sul mondo che cambia: vogliono semplicemente mantenere quello che avevano prima e possibilmente ogni volta accumulare qualcosa in più. Sono in altre parole persone con le quali, con buone probabilità, non sarà possibile discutere di niente. E non si tratta di un problema inedito: sono così da almeno 50 anni.

Non ho voglia di soffermarmi sulle decisioni prese oggi a Bruxelles. Sono questioni tecniche e difficili per tutti. Sono, per quanto mi riguarda, se proprio dovessi fare una sintesi, decisioni stupide (perché non porteranno a niente di concreto) e potenzialmente pericolose per tutti noi. Ma lascio ad altri la disamina.

Il teatrino di questi giorni, rispetto alle precedenti messe in scena dei vecchi lobbisti del copyright, ha previsto la comparsa di nuovi nemici (le piattaforme cattive americane, Facebook e Google, gli unici per capirci che oggi hanno i soldi, quelli che non pagano le tasse). Costoro hanno sostituito gli utenti cattivi, i pirati di Napster o quei pericolosi terroristi che duplicavano le canzoni su cassetta uccidendo i posti di lavoro, e hanno aggiunto un minimo di credibilità ad una battaglia che, nel caso odierno, è stata banalmente lo scontro fra due lobby diverse. Con la politica nel mezzo a fare la figura del tonto (non finto, un tonto vero), quello che non capisce e che si fida (di questo o di quello, a seconda).

La notizia rilevante oggi per me non è tanto che tutto si ripete (tutto si ripete, immagino lo sappiate) ma che nella lunga discussione centellinata in questi mesi, fatta di diatribe sui social, comunicati stampa, interviste piene di bugie, associazioni di creativi senza creativi nate improvvisamente coi soldi dell’industria, azioni dimostrative e campagne sul web, da tutta questa confusione, insomma, quello che oggi esce con le ossa rottissime è il giornalismo italiano, la sua credibilità, la sua capacità di raccontare i fatti ed esporre le diverse posizioni. Hanno dato il peggio di sé i maggiori quotidiani italiani in questi giorni parlando di copyright, lo hanno fatto senza imbarazzi, evidentemente considerando i propri lettori poco più che polli di allevamento. Appena è balenata l’ipotesi – anche remotissima – che una nuova miracolosa norma europea potesse risollevare i conti economici dell’editoria in crisi hanno percorso senza indugi e con convinzione la strada di un’ampia prostituzione di sé.

Ho seguito per vent’anni, per mia curiosità, i ragionamenti, il modesto interesse per le sorti della società, le tecniche più o meno ricattatorie dell’industria dei media alle prese con i propri interessi; ho osservato per molto tempo l’insipienza della politica pronta ogni volta a farsi dettare l’agenda dal lobbista di turno, spessissimo senza nemmeno darsi la pena di comprendere cosa poi si andava recitando in pubblico, ogni volta in nome del supremo interesse dei cittadini, ma dai giornalisti, francamente, una cosa del genere non me l’aspettavo. I giornalisti non sono e non dovrebbero essere i loro editori.
Sono tempi di grande crisi, me ne rendo conto e me ne dispiaccio, ma la figura che hanno fatto i media italiani in questi giorni nel loro appoggio supino e interessato al nuovo regolamento sul copyright che oggi è stato infine approvato, fa davvero male al cuore ed è l’unica cosa che trovo rilevante in questo momento.

Massimo Mantellini

Massimo Mantellini ha un blog molto seguito dal 2002, Manteblog. Vive a Forlì. Il suo ultimo libro è "Dieci splendidi oggetti morti", Einaudi, 2020