Contro Ingroia

Al diavolo anche l’intoccabile Ingroia, non serve un articolo in punta di penna per sostenere che questo ennesimo fenomeno all’arcitaliana andrebbe cacciato dalla magistratura, altro che «nessuno tocchi Ingroia», altro che levate di scudi per difendere l’indifendibile (lui) e cioè un personaggio che non aveva per niente bisogno di quest’ultimo show per essere inquadrato.

L’imbarazzante Ingroia è sempre stato sottovalutato perché sta in Sicilia e perché galleggia in quei porti delle nebbie (mentali) che sono da sempre le procure isolane, dedali in cui non si capisce mai che cosa succede e che, di fronte all’ennesimo e inestricabile articolo di mafia, fanno ormai girare pagina anche ai direttori di giornale e a chi voglia mantenere una salubrità mentale. È per questo che del sedicente erede-di-Borsellino si ricorda al limite qualche episodio ma sfugge sempre il quadro d’insieme: si citano al massimo un paio di inchieste – quella sulla fantasmagorica «trattativa» o il famigerato concorso esterno, reato unico al mondo, quello che ha visto condannato Marcello Dell’Utri – e però alla fine non è ancora chiaro perché Ingroia esista, nel senso: che risultati abbia ottenuto e per quale ragione un cordone di gazzettieri penda dai suoi faldoni.

L’ultimo capitolo lo liquidiamo subito: Ingroia è stato oggettivamente imbarazzante, inescusabile, è andato a un congresso di partito che peraltro è un partito comunista (una sede prudente) e ha detto di non essere imparziale, di essere «partigiano», in sostanza di essere contro chi vorrebbe cambiare la Costituzione e cioè contro questa maggioranza, contro Berlusconi. Ieri, poi, si è reso conto di averla sparata più grossa del solito e allora si è trincerato dietro la solita «provocazione» che risolve tutto, ha detto delle enormità, è vero, ma era «una provocazione», anche se non è chiaro che cosa dovesse provocare (di positivo, almeno) e se ci sia, tra le facoltà dei magistrati, anche quella di fare provocazioni ai congressi di Diliberto.

Non pago – semmai pagato, da noi – ha detto pure che le reazioni alla sua sparata dimostrano «l’imbarbarimento del sistema politico» e che il problema nasce «da una serie di passi che la politica non ha fatto, lasciando degli spazi vuoti riempiti proprio dal protagonismo dei magistrati», e perbacco, «non è giusto» che a tutto questo ovvii la magistratura. Ergo, è colpa di Berlusconi se Ingroia dice enormità al congresso di Diliberto. Detto questo: che volete commentare? Che c’è da commentare? La verità è che le varie uscite di Ingroia lasciano ogni volta sottotraccia una carriera di sussistenza dubbia, una parabola tipicamente mediatica secondo uno schema di cui resta campione Luigi De Magistris: anche perché Ingroia, in definitiva, chi è? Che cosa ricordate di lui? Forse quando disse che «l’attuale equilibrio politico e istituzionale è fondato sulle stragi del 1992», forse quando tenne in piedi istruttorie tutte sbagliate per poi scivolarne via senza pagare pegno, come nel caso del delitto di Mauro Rostagno, o forse neppure: forse ricordate una delle volte che ha biascicato indicibili verità su trattative & politica & stragi eccetera. Tutto questo in tv, durante convegni, durante incontri politici – compresi un paio di Futuro e Libertà – oppure scrivendo libri o andando in vacanza con Marco Travaglio.

Ingroia è quello che si riempie regolarmente la bocca con «Paolo» e «Giovanni» alias Borsellino e Falcone, dei quali sarebbe «unico erede» secondo Marco Travaglio o secondo qualche pagliaccio del circo antimafia, tutti campioni di sfruttamento politico ed editoriale di una cultura dietrologica, emergenziale, fatta di fiaccolate, cortei luttuosi, alberi orrendi, parenti imbarazzanti, e appelli, video, urla, pianti, pugni battuti sul petto. È del cordone sanitario che lo circonda che bisognerebbe parlare. Gliele passano tutte. Nel marzo scorso ha attaccato il governo «infiammando Piazza del Popolo» (Repubblica, testuale) ma lui direbbe che era il suo contributo al dibattito, che la colpa è dei politici che lasciano gli spazi vuoti: c’era uno spazio vuoto dopo la canzone di Fiorella Mannoia, in effetti. Ma guai a scherzare, a criticarlo: l’intolleranza che lo riguarda «è la stessa che anni fa attaccò Paolo Borsellino», con la differenza che oggi c’è «uno spiegamento di uomini e mezzi molto più massiccio». Ecco perché minaccia sempre querele a raffica.

Ma ora, sul serio: provate soltanto a immaginare che capitasse a un altro qualche incidente che è capitato a lui. Per esempio: quando il maresciallo Pippo Ciuro, l’uomo che divideva con Ingroia la stanza dell’ufficio al secondo piano del palazzo di giustizia palermitano, un personaggio con cui il magistrato ha diviso anche qualche giorno di vacanza, è stato condannato per favoreggiamento ed è stato giudicato «figura estremamente compromessa col sistema criminale». Oppure quando Ingroia, distratto, si fece ristrutturare il casolare di campagna da un uomo come il costruttore Michele Aiello: prima di scoprire – non lui, l’hanno scoperto altri – che trattavasi di un prestanome di Bernardo Provenzano.

Ripetiamo: immaginate se fosse successo ad altri. Ma non è successo ad altri, è successo a lui, l’uomo che passa la vita a condurre inchieste di cui non si capisce niente. Con quali risultati? Ecco, a proposito di questo: potrebbe dirci, visto che è così loquace, e visto che di «spazi vuoti» sui giornali era pieno, che cosa pensa della sentenza che l’altro giorno ha mandato libere sei persone incarcerate ingiustamente per la strage di via D’Amelio; potrebbe dirci, cioè, che cosa pensa della dozzina di pm (più una trentina di giudici di primo grado, d’appello e di Cassazione) che 18 anni dopo l’assassinio di Borsellino non hanno ancora scoperto i veri esecutori e mandanti: e questo per inseguire i mandanti occulti, il terzo livello, quelle «entità» che attraverso tre processi, di tre gradi per ciascuno, hanno lasciato i colpevoli in libertà.

Ma le domande e le «opinioni» che interesserebbero Ingroia sono tante altre. Per esempio: perché non ci riparla di Massimo Ciancimino, individuato come mistificatore a Caltanissetta ma dapprima sfruttato a Palermo per più di tre anni? Perché non ci riparla di come fu creato il superteste trendy, gradita presenza alle feste dell’Unità come a quelle di Cortina, sempre vestito come un gagà e sempre in procinto – a sentir lui – di riscrivere la storia d’Italia a mezzo di clamorose rivelazioni?

E perché non ci dice qualcosa della prossima revisione del processo a Bruno Contrada? Noi non vogliano zittire Ingroia, al contrario, alla sua libera opinione teniamo moltissimo, eh, questi vuoti lasciati dalla politica sono insopportabili. Non parliamo di quelli lasciati dalla giustizia. Ecco, a proposito della sacrosanta difesa della Costituzione: perché non entrare nel merito? Perché non attaccare, allora, anche il Giovanni Falcone che nel 1991 si diceva favorevole alla separazione delle carriere? O il Falcone che nello stesso anno criticava la politicizzazione della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale?

Ingroia, sempre a proposito di Costituzione, potrebbe anche riparlarci delle arditissime teorizzazioni che lui scrisse su Micromega nel 2003, quando sostenne che alla democrazia tutto sommato si potrebbe anche rinunciare: «Bisogna sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale… Nella nuova Costituzione europea bisogna pure porre il problema degli interventi politici e istituzionali, compreso, come estrema ratio, il commissariamento europeo nei confronti degli Stati membri i cui vertici dovessero risultare in collegamento con la criminalità organizzata».

Pure la Costituzione europea. Quella dei burocrati di Bruxelles. Partigiano, portali via. In galera.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera