Charlie

Estratti della newsletter sul dannato futuro dei giornali.

domenica 13 Settembre 2020

Forse meglio così

È saltata la fusione tra Taboola e Outbrain di cui avevamo parlato qualche settimana fa. Sono le due grandi società che gestiscono soprattutto quelle inserzioni pubblicitarie familiari a tutti che si trovano di solito in coda alle pagine web di molti siti di news, in quei box disegnati per sembrare contenuti giornalistici della testata stessa, ma spesso di bassissima se non ingannevole qualità, e basati soprattutto sul clickbait (qui una spiegazione del clickbait: è il modo con cui vengono chiamati i titoli che attirano ingannevolmente le curiosità dei lettori, occultando o travisando la vera natura degli articoli).


domenica 13 Settembre 2020

Servizio pubblico

In una delle frequenti fasi di tensione tra il M5S e i giornali degli ultimi anni (tensione anch’essa attenuata di recente, come molte altre delle anomalie di quel partito), alcuni suoi esponenti minacciarono come ritorsione di approvare degli interventi legislativi per ridurre non solo i cosiddetti contributi diretti e indiretti ai giornali (quelli indiretti sono agevolazioni varie soprattutto al settore della carta stampata di cui beneficiano tutti), ma anche di abolire quella forma ulteriormente indiretta di contributo che sono le inserzioni pubblicitarie prescritte dalla legge per le comunicazioni da parte di enti e amministrazioni pubbliche: quelle più frequenti e familiari a chi sfoglia i quotidiani sono i bandi di gara pubblici, poi ci sono avvisi diversi che si ritiene corretto abbiano estesa pubblicità tra i cittadini e gli interessati e non restino confinati ai documenti amministrativi; e anche la pubblicazione delle sentenze processuali, che ha altre regolamentazioni ma che si riferiscono in molti casi sempre alla carta stampata.
Sono casi spesso diversi tra loro, ma in prevalenza sono imposti o da leggi specifiche sulla comunicazione pubblica di alcuni atti, o da leggi specifiche sulla quota di investimenti che le amministrazioni devono destinare alla pubblicità (e ci sono state sanzioni in passato per quelle che non l’hanno rispettata).

Per farla breve: lo Stato ritiene che i giornali siano un servizio pubblico utile alla comunicazione “ufficiale” e li ha inclusi formalmente tra i propri canali di informazione, al tempo stesso creando una fonte di ricavo pubblicitario garantito per i giornali stessi (stimato negli anni scorsi come il 10% circa dei ricavi pubblicitari).
Al di là degli interessi propri e vendicativi del M5S, il problema è che l’utilità di queste comunicazioni pubbliche – così come sono concepite – è diventata anacronistica: in quanto continua a considerare soltanto l’informazione su carta e non quella online, laddove la seconda sarebbe oggi molto più efficace per questo tipo di comunicazioni. Perché le persone ormai si informano molto di più online, perché i contenuti online hanno una permanenza molto maggiore ed efficace, perché sarebbe un risparmio prezioso per gli enti pubblici. Lo aveva segnalato a un certo punto il governo Renzi in maniera sommaria (ovvero suggerendo di limitarsi a usare i siti istituzionali, poco visibili e visitati, che sarebbe un ripiego inadeguato), ma si è persa a causa di resistenze e campagne delle grandi testate; e anche della bassa priorità, in termini di consenso, di una scelta la cui utilità i cittadini percepiscono poco. Però sarebbe un cambiamento con tutte le ragioni del mondo, comunicare meglio, comunicare a più persone, con costi e sprechi ridotti. 

Fine di questo prologo.


domenica 6 Settembre 2020

A nome di chi

Non è una questione nuova, quella delle possibili contraddizioni tra la comunicazione personale dei giornalisti e il loro ruolo di rappresentanti della loro testata, quando non ne sono i direttori. Dai social network in poi, la libertà dei singoli giornalisti di esprimere delle opinioni è entrata spesso in conflitto con questa o quella linea generale dei loro giornali: sia su determinate questioni, che in generale sull’opportunità o sul modo di comunicare ed esprimersi. Ci sono giornalisti che hanno una notorietà oppure una visibilità online per cui i lettori li riconoscono col loro nome e cognome prima di tutto, mentre altri vengono percepiti come “di quel giornale”: lo sventato tweet di Paolo Berizzi di cui parlammo la settimana scorsa è stato citato da molti dei suoi critici come proveniente in ogni modo “da Repubblica”, ma è solo l’esempio più recente e discusso.
Negli anni passati diverse testate internazionali hanno stabilito delle linee guida per i loro giornalisti sui social network, ma molte di quelle impostazioni sono diventate datate e rigide con la maggiore frequenza quotidiana e continua dell’uso degli stessi social network da parte di tutti. Al Post non abbiamo mai stabilito niente in questo senso, potendo contare – con ottimi risultati, anche se qualche volta un tweet di cui sarebbe stato meglio fare a meno è scappato anche ad alcuni di noi – su una idea condivisa di quali siano i più saggi e prudenti comportamenti pubblici e quale sia il bene del Post. Ognuno è responsabile del suo account personale e lo usa come account personale.
La questione è tornata a essere posta dal nuovo direttore generale di BBC, che dovendosi impegnare per ricostruire un’immagine “imparziale” di BBC in tempi in cui la rete è piuttosto sotto attacco, ha detto ai suoi che “Se volete fare gli opinionisti o gli attivisti impegnati sui social media è una scelta legittima, ma allora non dovete lavorare per BBC”.
Di certo suona come una limitazione non tanto alla libertà – le libertà conoscono sempre dei limiti e dei compromessi – ma alla qualità e alla ricchezza dell’informazione e del dibattito pubblico: è vero però che sono tempi in cui le strumentalizzazioni da parte dei critici pregiudiziali sono molto facili e pericolose, e quindi le prudenze sono comprensibili. Sta anche questo, in un suo spazio particolare, nel discorso sul sempre più grosso repertorio di cose che “è diventato più complicato dire”.

Fine di questo prologo.


domenica 30 Agosto 2020

Storia telegrafica dei problemi economici dei giornali

I giornali hanno prosperato per qualche secolo guadagnando con le vendite delle copie di carta e con i ricavi della pubblicità.

Poi internet ha contratto enormemente la prima fonte di ricavo, offrendo gratis articoli e notizie a chi prima li pagava.

Allora i giornali hanno immaginato che internet potesse offrire un’occasione di nuovi e maggiori ricavi pubblicitari: la seconda fonte di ricavo. E hanno lavorato per aumentare il più possibile le visite sui loro siti, perché la pubblicità online conta i numeri e poco il resto.

Ma circa 5/6 anni fa si è capito che la pubblicità online sarebbe diventata un ricavo sempre minore, invece che crescente e promettente. Per diverse ragioni ma soprattutto per il duopolio di Google e Facebook che ne ha ridotto il valore e i ricavi per singola inserzione.

Quindi in tutto il mondo si è andati a recuperare l’altra fonte di ricavo che era stata data per persa: i lettori.

Nel frattempo era in corso una piccola inversione di tendenza nella disponibilità di una nicchia di lettori a pagare di nuovo per l’informazione: spinta anche da due grossi eventi mondiali che avevano mostrato i rischi dell’idea che l’informazione gratis e online fosse tutta buona e uguale, e non ci fossero problemi di qualità. Brexit e l’elezione di Trump.

Quindi da circa quattro anni a questa parte tutti i giornali del mondo – disperando di poter invertire il declino economico dei prodotti di carta – hanno creato sistemi e modi diversi di farsi pagare dai lettori online: “abbonamenti”, con funzionamenti vari.

Oggi quindi i ricavi della quasi totalità dei giornali sono così distribuiti: una quota ancora importante di vendite della carta, in calo precipitoso e apparentemente inesorabile; una quota ancora importante di ricavi pubblicitari, stabili o in declino per la maggior parte delle testate, sia online che su carta; una quota crescente ma sempre minoritaria di abbonamenti online (altri sistemi di ricavo minori sono sfruttati da alcune testate, ma nessuno è abbastanza universale).

L’ultima voce è in questo momento la sola promettente ed è quella a cui i giornali si stanno dedicando di più – vediamo tutti che ormai pochissimi giornali offrono gratis tutti i loro articoli – ma intanto soprattutto i più grandi e i più in difficoltà non possono trascurare di limitare anche il più possibile il declino dei ricavi pubblicitari.

Da queste due necessità nasce una contraddizione rilevante e interessante, perché i meccanismi che le alimentano sono opposti: maggiori visite e clic, e quindi maggiori ricavi pubblicitari, sono ottenuti con scelte completamente diverse da quelle che alimentano un rapporto di fiducia e apprezzamento dei lettori, necessario a incentivare abbonamenti e sostegni.

(Poi ci sono ovviamente complessità e articolazioni maggiori, ma l’abbiamo fatta telegrafica).


domenica 30 Agosto 2020

Mappa dei maggiori quotidiani italiani

Quando qui diciamo “giornali” è per definire tutto il complesso dei mezzi di informazione, senza dover usare un’espressione così grigia e artificiosa come “mezzi di informazione”: ma parliamo di quotidiani e di periodici, di programmi di informazione in radio e in tv, di siti di news, e in generale di luoghi in cui si pratichi del giornalismo. In Italia, ad avere maggior potere nell’orientare l’informazione delle persone è tuttora la televisione in termini quantitativi, mentre sono i quotidiani in termini di rilevanza e ricadute sugli altri mezzi di cui dettano spesso l’agenda (dei programmi di radio e tv, per esempio).

Questo ci porta a una breve utile mappa dei maggiori quotidiani nazionali italiani, stando ai numeri della loro diffusione, utile a orientarsi e a valutare di cosa parliamo quando parliamo di quotidiani.
Ci sono quattro quotidiani cosiddetti “seri” (soprassediamo ora sulla qualità discontinua di questa serietà se confrontata con altri paesi paragonabili e con un’idea classica di rigore giornalistico): Corriere e Repubblica, i due quotidiani maggiori in competizione tra loro da quarant’anni; la Stampa, terzo incomodo con le peculiarità di essere molto più radicato sulla sua regione degli altri due, e di essere entrato da pochi anni nello stesso gruppo editoriale di Repubblica; il Sole 24 Ore, in una sua partita autonoma definita dall’orientamento editoriale dedicato soprattutto ai temi economici, finanziari e normativi (provò dieci anni fa a mettersi più in competizione sui temi degli altri tre, con la direzione di Gianni Riotta, ma rientrò nei suoi ranghi rapidamente).

Poi c’è un secondo gruppo di quotidiani che invece si somigliano per un approccio più sfacciatamente fazioso, partigiano, aggressivo nel promuovere i propri contenuti e nel mobilitare i lettori contro diversi tipi di “nemici”: sono i tre nati dalla stessa costola – Giornale, Libero, Verità – e il Fatto (nella stessa categoria sta anche il Tempo di Roma, ma accantoniamolo in quanto locale, per quanto di località capitale).
Tra i quotidiani più letti c’è anche Avvenire, quotidiano cattolico con un suo posizionamento particolare, e c’è il Messaggero, per cui vale il discorso “locale” del Tempo.

Gli altri quotidiani più letti – sportivi a parte – sono quasi tutti locali, a cominciare dai tre del gruppo Riffeser: Nazione, Carlino, e Giorno. Restano da citare, malgrado i loro numeri molto più piccoli, il Foglio – per una rilevanza negli ambiti della politica, dell’informazione e delle “classi dirigenti” che ha echi maggiori della sua diffusione – il Manifesto, per tradizione e presenza nella storia politica e dell’informazione anche se oggi minime, e ItaliaOggi, quotidiano di finanza e business, che insieme a questi ultimi, a Libero e ad Avvenire beneficia di cospicui finanziamenti pubblici.


domenica 23 Agosto 2020

Una cosa importante per capire cosa succederà all’informazione in Italia: i contratti

È al pettine un nodo importantissimo dei cambiamenti e delle prospettive che riguardano la professione dei giornalisti, il business delle aziende di informazione, e altre cose che hanno grosse ricadute sui giornali così come li leggono i lettori senza conoscere quello che ci succede dietro. Riguarda i contratti dei giornalisti.
Proviamo a spiegarla più brevemente possibile con qualche semplificazione. In Italia la professione giornalistica è molto regolamentata, in modi che dovrebbero creare una selezione rispetto alla qualità del lavoro giornalistico, e una protezione per chi lo svolge: l’elemento più visibile di questa condizione non comune a molti altri paesi è l’esistenza di un ordine professionale, come per altre categorie di grande specializzazione e grande responsabilità (gli avvocati, i medici, gli ingegneri). Un altro elemento particolare è che esista un sindacato unico dei giornalisti che si chiama FNSI, che li rappresenta nei confronti delle aziende, che stanno invece – nella gran parte, soprattutto quelle grandi – dentro la FIEG, la Federazione degli editori.
Pochi anni fa, un gruppo di editori di giornali locali e digitali si è unito in una nuova associazione, che si chiama USPI: e ha ottenuto – trattando con la FNSI – di poter applicare un nuovo tipo di contratto alle assunzioni dei giornalisti: meno costoso per i giornali e meno oneroso per aziende più piccole e in tempi meno floridi di una volta. Qui va detto che i contratti giornalistici tradizionali sono molto “protetti”: offrono una serie di garanzie, di minimi, e di scatti automatici di anzianità, che risalgono ad anni in cui i giornali guadagnavano molto dal lavoro dei giornalisti e questi ultimi meritavano una parte di questi successi. Sono contratti che oggi sono diventati per le aziende dei costi spesso problematici, soprattutto per quelle piccole, o soprattutto quelli di giornalisti con anzianità maggiori. Il contratto USPI consentiva quindi a progetti editoriali nuovi o più piccoli (locali o digitali, appunto) di assumere giornalisti regolarmente a dei costi più tollerabili, piuttosto che di tenerli in condizioni precarie o illecite. È un contratto oggi utilizzato da molti giornali solo online, che grazie a questo riescono a contenere le difficoltà odierne di avviare nuovi progetti nel settore (non dal Post che applica il contratto tradizionale FNSI, ndr).
Bene, questo esperimento aveva una durata di due anni, prima di essere ridiscusso e rinnovato: è scaduto qualche mese fa ma adesso la FNSI sembra non volerlo rinnovare. Le ragioni non sono state esplicitate con molta chiarezza, ma possono essere diverse: il timore che alcune testate che si sono avvalse del contratto USPI siano diventate oggi più grandi e prospere di quanto implicato dalla diversità dei contratti; la contrarietà degli editori FIEG che, trovandosi oggi a dover ridurre molti costi, vedono nei giornali che hanno su questo maggiori libertà una sorta di concorrenza sleale; l’ipotesi che i nuovi contratti USPI non siano poi molti, ma su questi numeri ci sono dissensi tra le parti.
Comunque stiano le cose, la scadenza del contratto ha messo le aziende USPI e i loro giornalisti in una specie di “terra di nessuno” con tutta una serie di grosse complicazioni per le une e per gli altri che non vi elenchiamo qui. Ma tutta questa storia, dicevamo all’inizio, è un pezzo importante della questione dello squilibrio attuale tra i costi di fare un giornale e i suoi ricavi, e del rischio che delle soluzioni sensate e possibili si approfitti sempre qualcuno (come col finanziamento pubblico dei giornali di cui dicemmo qualche settimana fa): un pezzo da cui poi discende la qualità delle cose che leggete sui giornali, e del lavoro fatto dai giornalisti.


martedì 18 Agosto 2020

Linkiesta e la carta

Linkiesta è un sito di news nato nel 2010 (poco dopo il Post) col sostegno di una estesa compagine di soci milanesi, che in dieci anni ha avuto periodi diversi e momenti di difficoltà economiche cercando di portare online un’idea di giornale tradizionale di attualità e politica. Un anno fa ha cambiato il suo quarto direttore, che ora è Christian Rocca, già a lungo al Foglio, poi al Sole24Ore e direttore del magazine IL, ultimamente commentatore per la Stampa. Rocca ha saputo arricchire una redazione ridotta coinvolgendo molti collaboratori sia nuovi che provenienti dal giornalismo più conosciuto, e ha spinto molto il sito sull’informazione e sul commento politico, con polemiche e giudizi vivaci: e oggi Linkiesta è sulla mappa del dibattito politico (questo mese ha ospitato interventi sul PD di Giorgio Gori e Goffredo Bettini, tra gli altri) pur mantenendo dimensioni ridotte.
Ma soprattutto sta per la prima volta aggiungendo idee nuove alle necessità di trovare ricavi non solo pubblicitari (quelle idee secondarie ma spesso preziose a cui abbiamo alluso parlando dei modelli di business), e ha creato l’anno passato un festival milanese di politica con ospiti importanti, sponsor e la collaborazione di Sky Tg24. Prima dell’estate invece ha provato a fare un esperimento di carta, usando i contenuti del sito e un’attenzione alla confezione grafica, e promuovendolo presso la crescente comunità di lettori affezionati. Il giornale è distribuito a Roma e Milano ma viene spedito a chi lo acquisti online, e ha quindi costi di produzione molto limitati: il primo esperimento ha ottenuto dei moderati utili. Un secondo numero, dedicato al referendum, sarà disponibile dal 4 settembre.
È un esempio di un tentativo che stanno facendo diversi giornali online, di tornare offline a recuperare altri possibili ricavi: col merchandising, coi prodotti di carta, con gli eventi, con i corsi.30


domenica 16 Agosto 2020

La Cina si allarga sui quotidiani italiani

Un articolo sul Foglio di Giulia Pompili ha raccontato in modi in cui la propaganda di stato cinese sta ottenendo indulgenze e accoglienze sui giornali italiani.

“alcune associazioni pro-Cina in Italia danno ai giornali online articoli pronti, in italiano, praticamente traducendo le notizie ufficiali dei media statali. E lo fanno pure pagando lo spazio virtuale concesso, ma senza il necessario avviso di “articolo a pagamento”. Il Foglio ha parlato con alcune persone che hanno ricevuto questo tipo di offerta, che poi sono state rifiutate. Il modello di business sembra molto simile a quello intrapreso dalla versione online del Giornale: se da un lato il quotidiano cartaceo è su una posizione molto anti-cinese – in linea con quella di Silvio Berlusconi – il sito internet pubblica periodicamente articoli di Cinitalia, a cura della sezione italiana di Radio Cina Internazionale, l’emittente radio della China Media Group di Shen Haixiong. Il gruppo, nel marzo del 2019, in occasione dell’ingresso italiano nella Via della Seta, ha firmato memorandum d’intesa con la Rai, con Class editori, e ha una partnership con TgCom24″.

“Nel marzo del 2019 l’Ansa, la principale agenzia italiana, cioè fonte primaria per il mestiere del giornalista, ha firmato un accordo con l’agenzia statale cinese Xinhua che prevedeva niente di più che la traduzione delle notizie cinesi. Dopo un po’ di polemiche legate al caso, l’agenzia è stata costretta a mettere sotto ai lanci l’avviso: responsabilità editoriale di Xinhua. Una questione economica slegata dal lavoro redazionale, visto che da sempre l’Ansa è considerata tra le più autorevoli fonti d’informazione sulla Cina. Eppure resta un problema: avere una linea coerente nei confronti di un tema di politica estera importante fa parte dell’autorevolezza di un prodotto editoriale, ed è per questo che molti giornali stranieri, negli ultimi anni, hanno deciso di interrompere tutte le collaborazioni con i media cinesi”.


domenica 9 Agosto 2020

Prologo

I direttori maschi dei trenta quotidiani più letti in Italia sono ventotto. I sette telegiornali delle maggiori reti televisive sono diretti da maschi. I cinque giornali online più seguiti hanno cinque direttori maschi (anche il Post).
Se si prendono in considerazione gli altri spazi di influenza – quelli dei commenti, delle opinioni, degli editoriali – la situazione migliora di poco: la prevalenza dei maschi tra gli editorialisti, tra le “firme” famose e assidue, nelle pagine dei commenti, supera stabilmente i tre quarti (6 su 65 in questa pagina di “Firme” del Corriere, una su sette blogger in homepage sul Post)
In anni di dibattiti sulla necessità di maggior diversità di genere negli ambiti più vari, e di maggior accesso a ruoli di rilievo e influenza da parte delle donne, un contesto che per definizione si immagina aggiornato ed evoluto come quello dei giornali non ha molti uguali nell’esclusione delle donne dai ruoli di maggior potere: e le donne ci sono eccome, nei giornali.
Due tra le spiegazioni possibili sono: una maggiore inclinazione delle redazioni giornalistiche a rigenerare se stesse e i propri gruppi dirigenti (se prendiamo i condirettori e vicedirettori operativi, la situazione si ripete e aggrava), proprio perchè luoghi “di cultura” più ancora che imprenditoriali, in cui affinità e clan prevalgono sulle capacità; e un’autoassoluzione che esenta i giornali dalla critica destinata dagli stessi giornali ad altri contesti troppo maschili (ma aggiungiamo anche lo spostamento verso destra e verso posizioni conservatrici del panorama dei giornali italiani). Ma forse c’è anche qualcosa di stabilmente “maschile” in come siamo abituati a pensare gli spazi dei commenti e delle opinioni.

Le due direttrici sono Agnese Pini alla Nazione e Nunzia Vallini al Giornale di Brescia, decimo e ventottesimo quotidiano per diffusione.


domenica 9 Agosto 2020

La buona informazione solo per chi paga è un problema

C’è un articolo interessante e inquietante sul bimestrale americano Current Affairs che spiega come a peggiorare il problema della diffusione di informazioni false, di propaganda, non verificate, si aggiunga quella che in realtà è negli ultimi anni diventata la prospettiva più preziosa per la sopravvivenza dell’informazione di qualità: ovvero tornare a fare pagare i lettori.
Il risultato indesiderato dello spostamento verso le formule di abbonamento è che oggi la gran parte dei giornali più autorevoli e affidabili si possono leggere solo, o in gran parte, pagando: mentre intorno rimane gratis a disposizione di tutti un’enorme quantità di informazioni mediocri, false, pericolose.
L’articolo è intitolato “La verità è a pagamento, ma le bugie sono gratis”.
In sostanza, la riflessione pone di nuovo la questione del servizio pubblico fornito dall’informazione (ne parlavamo la settimana scorsa): servizio di cui così beneficerebbe solo chi sceglie di pagare, o chi si può permettere di farlo.
La terza via, ma di cui non è ovviamente garantito il successo per tutti (è legata a un investimento molto intenso e dedicato al rapporto di fiducia e complicità coi lettori) è quella adottata dal Guardian – e dal Post, incidentalmente – che ha costruito un sistema di “abbonamenti” senza paywall: in cui gli abbonati sostengono il giornale senza esservi costretti e senza che gli articoli – e la possibilità di essere meglio informati – siano preclusi agli altri lettori.
Lo stesso argomento lo usa per sé Current Affairs:
“We can’t afford to keep our reach to those who like us so much that they are willing to pay money to listen, because then the free bullshit wins”.