Punti certi e incerti dopo l’elezione di Napolitano

Chiariamo subito tre punti incontestabili.

Oggi è stato eletto il miglior presidente della repubblica possibile, ma sarebbe stato meglio che questa vicenda non fosse andata così.
Il vincitore politico della mano è fuori discussione Silvio Berlusconi. Che era colui che più di altri sperava, da tempo, nella conferma di Napolitano, e che ora avrà il governo di coalizione al quale puntava dopo aver perduto le elezioni.

Il Pd respira ma solo per una sera.
Esce letteralmente a pezzi dalla vicenda del Quirinale, con due soli appigli, per quanto importanti: che la storia è finita con una grande elezione di una grande personalità; e che nell’ultimo decisivo scrutinio l’emorragia di grandi elettori è stata arginata e limitata: dopo aver giurato in mattinata a Napolitano che il gruppo democratico avrebbe retto solo sul suo nome e su nessun altro, Bersani ha seriamente temuto per alcune ore di veder smottare il partito perfino in questa estrema occasione.
L’ossigeno fornito dal voto di questa sera durerà però per poco. Sul tavolo c’è già la cambiale da pagare per i cattivi amministratori del Pd: il governo di coalizione che è stato rifiutato ed esorcizzato per due mesi. Tornare alle consultazioni al Quirinale come a Canossa. Smentire due mesi di impegni solenni, e doverlo fare davanti a un’opinione pubblica, elettori e militanti furiosi, delusi, diffidenti: persone che non si faranno convincere a cambiare idea su un governo con Berlusconi dagli stessi dirigenti che descrivevano questa ipotesi come il male assoluto.

In più, il Pd si avvia a questo calvario con le ferite aperte dello spappolamento di venerdì mattina. Con tanti del gruppo dirigente che nelle ultime ore si sono impegnati soprattutto a gettare sugli altri la responsabilità del «tradimento», come l’ha chiamato Bersani. E con la minaccia incombente, seria anche se forse numericamente non enorme, di una scissione a sinistra, prevedibilmente sancita al momento del voto di fiducia al futuro governo di larghe intese.
Quando il centrosinistra è entrato nella giostra del Quirinale c’era chi – anche sennatamente – ipotizzava fusioni tra Pd e Sel e la nascita di nuovi contenitori più ampi.
Solo quattro giorni dopo, accade l’opposto. Vendola è diventato un avversario che convoca assemblee costituenti di un nuovo soggetto politico e punta a staccare pezzi al partito di cui era alleato. Dopo neanche dieci giorni di iscrizione al Pd, la “promessa” Fabrizio Barca è già possibile capofila di una scissione. E se non la promuoverà, avrà dimostrato col suo endorsement di ieri pomeriggio per Rodotà di avere un senso politico davvero scarso.

Incombe l’offensiva di Beppe Grillo. Ha conquistato spazi impensabili a sinistra. Anche Cinquestelle in questi giorni ha un po’ cambiato pelle: era il movimento della rivolta trasversale antipartitocratica, ha perduto il connotato della trasversalità. Battendosi per «un uomo della sinistra», come Rodotà ha giustamente definito se stesso, e conquistando solo a sinistra consensi popolari e parlamentari, Grillo si rafforza ma limita anche il raggio d’azione.
Voleva «mandare tutti a casa». Ci riesce col vecchio gruppo dirigente del Pd, senza dubbio. Ma Berlusconi è invece più forte di prima: come farà M5S a mandare a casa anche lui, ora che si connota “semplicemente” come il troncone più radicale della sinistra?

Infine, le questioni interne al Pd. Sono strettamente legate alla resa dei conti sul disastro di venerdì (che Bersani, pur lasciando la segreteria, non vorrà lasciare impunito); alla formazione del nuovo governo (con il ruolo nuovo che si profila per molti, a cominciare da Enrico Letta); alla prevedibile durata di questo governo; e infine all’imporsi del nuovo gruppo chiamato a dirigere il partito.

Qui la domanda vera è una sola, ovvia: il partito verrà o no consegnato a Matteo Renzi, che per quanto anch’egli azzoppato dalla caduta di Prodi rimane l’unica speranza di riscatto dei democratici? Ed eventualmente come gli verrà consegnato? Anticipando e semplificando le procedure congressuali e, al termine, con il ruolo tradizionale di segretario, che non è il mestiere più indicato ma potrebbe diventare inevitabile? Circondando il sindaco di Firenze di un direttorio di quelli che lui aborre? Lasciandolo libero di continuare a fare ciò che sa fare meglio, cioè il candidato per il governo, trovando soluzioni di reggenza per un partito così frantumato?

O non ci sarà piuttosto il rigurgito suicida di ciò che è accaduto prima e durante la partita del Quirinale, e cioè l’ordire qualsiasi trama possibile piuttosto che allontanare e infine evitare il momento della leadership renziana?
L’impressione è che sia anche per allergia alla prospettiva di Matteo Renzi leader, che il Pd ha condotto in maniera così dissennata l’intera fase successiva al voto del 24 e 25 febbraio, insistendo nel trasmettere al proprio popolo il messaggio falso e ingannevole di elezioni quasi vinte, di un «governo del cambiamento» possibile, di una centralità nella manovra politica solo apparente, infine di una rigidità nei rapporti col centrodestra che s’è rivelata un lusso che i democratici non potevano permettersi.

Certo, sono venuti al nodo vent’anni di pedagogia antiberlusconiana: ormai l’elettorato di centrosinistra non concepisce neanche che si discuta col centrodestra sulle cariche istituzionali che per dettato costituzionale dovrebbero essere super partes.
Bersani nell’andar via paga per colpe non sue, se ci riferiamo a questo veleno di settarismo. Va via per colpe anche e soprattutto sue, se ci riferiamo a quest’ultimo letale scorcio di vita del Pd.
In ogni caso, va via. Si spalanca un orizzonte tutto da esplorare: può essere molto ravvicinato, come eventuali elezioni anticipatissime che Napolitano adesso può convocare. O può essere più distante nel tempo, se il governo che nascerà sarà sufficientemente solido da durare fino alle Europee del 2014 e oltre.

Chiaro, sarà bene tenere conto della necessità di evitare un’altra sovrapposizione fra scadenza elettorale politica e l’elezione del successore del Napolitano bis.
Anche perché, rimanessero gli attuali numeri del consenso popolare, Giorgio Napolitano avrebbe già un erede naturale nel suo vero king maker, che si chiama Silvio Berlusconi.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.