Profumo e la politica

Continua a far discutere la disponibilità a impegnarsi in politica che ha manifestato di recente l’ex amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo. Dopo il pubblico annuncio il primo settembre alla festa di Alleanza per l’Italia a Labro, in provincia di Rieti («Sono pronto, se necessario, a dare il mio contributo per far funzionare le cose»), Profumo domenica scorsa, in una lunga intervista al Corriere della Sera, è tornato sul tema dando subito qualche chiara indicazione su come intenderebbe muoversi, lanciando l’idea di una patrimoniale monstre di ben 400 miliardi di euro per abbattere in un sol colpo il nostro debito pubblico da un rapporto debito/Pil del 120 per cento, qual è oggi, al 90 per cento.

Ieri Giorgio Meletti del Fatto quotidiano gli ha fatto il pelo e il contropelo, mettendo in evidenza l’incongruenza di una simile proposta. I rilievi di Meletti sono ben articolati. È anche vero, però, che basta che qualcuno si azzardi in questo Paese a parlare di patrimoniale che subito scoppia un putiferio, come ebbe a sottolineare con proverbiale ironia Giuliano Amato nel febbraio scorso quando aprì per primo il dibattito: «La mia prima impressione è stata quella di trovarmi nella stessa situazione del protagonista di una vecchia storiella napoletana. C’era stato un bombardamento che aveva fatto crollare l’intera facciata di un palazzo e dalla strada i vigili del fuoco videro al secondo piano un anziano signore seduto, attonito e perplesso sulla tazza del bagno. Gli chiesero come si sentiva e quello rispose: “Aggio tirato la catenella dell’acqua e boom….».

Tuttavia, non è tanto la proposta di patrimoniale di Profumo a risultare piuttosto discutibile (dal punto di vista tecnico-quantitativo, naturalmente, perché è giusto che i ricchi finalmente comincino a pagare “a dovere”). Ciò che trovo decisamente fuori luogo è la corsa che si è subito scatenata tra esponenti politici di primo piano a tirare per la giacchetta l’ex numero uno di Unicredit, quasi che le sue capacità manageriali (non sempre, peraltro, “indiscutibili”) costituiscano un’automatica garanzia di successo in politica.

Lo ha fatto lo stesso primo settembre a Labro il leader dell’Udc Pierferdinando Casini: «Alessandro Profumo? C’ha un sacco di soldi, ha lavorato bene ed è una fra le persone più intelligenti del Paese. Dunque Alessandro fai politica, lo vedrei benissimo come ministro dell’Economia».

Non da meno è stato il giorno successivo, Enrico Letta del PD: «Sarei pronto a candidare subito Alessandro Profumo nelle liste del partito. Lo vedo molto bene in politica. Profumo è una persona competente e appassionata. In politica c’è bisogno di mediatori e di decisionisti e credo che questa sia una caratteristica che fa sì che una persona come lui possa essere fondamentale».

A parte il fatto che tali affermazioni ancora una volta sono rivelatrici di quella sindrome da scorciatoia (o da album delle figurine) che affligge soprattutto certi piani alti del PD, la questione è un’altra e molto semplice: i manager, come spiega molto bene Paul Krugman, non sanno come si guida un Paese: «Sono bravissimi a potenziare singole aziende spesso, anzi di regola, a spese di altre singole aziende. È un’abilità molto importante e redditizia, ma che ha ben poco a che fare con il problema di potenziare un’intera economia, il cui cliente principale è se stessa… Per usare il gergo economico, le aziende vivono in un mondo in parziale equilibrio e non hanno mai la necessità di confrontarsi con gli effetti retroattivi alla base dei problemi che affronta un’economia nel suo complesso». Basti pensare ai licenziamenti di massa che però gonfiano le tasche degli amministratori delegati e degli azionisti.

Mi hanno particolarmente colpito, per la loro efficace paradigmicità, le parole usate qualche giorno fa dall’amministratore delegato di Telecom Italia Media (editore di La7) Giovanni Stella (soprannominato il “canaro” per i modi piuttosto bruschi con cui, si racconta, conduce le trattative) per spiegare perché è fallito il passaggio a La7 di Michele Santoro: «Io come manager sono abituato a considerare il fatto che le parti, durante una negoziazione, buttano nel mucchio delle cose per il solo piacere di toglierle quando le cose più importanti si sono chiuse. E io, forse perché non sono un uomo di spettacolo, ho pensato che le cose più importanti fossero i soldi, il prodotto, la durata del contratto. E ho sottovalutato questa esagerata forma di libertà autoriale».

Ecco, i manager agiscono di solito proprio così, privilegiano, per dirla semplificando molto, i soldi alla libertà. Il politico fa (o, almeno sulla carta, dovrebbe fare) esattamente il contrario. Per questo i due mondi sono spesso incompatibili e non è affatto scontato che chi si è affermato con successo nell’uno possa fare altrettanto nell’altro.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com