C’è ancora qualcosa da dire su Borsellino

Pochi eventi del nostro Dopoguerra – probabilmente nemmeno le stragi degli anni di piombo – sono stati raccontati in così tanti film, pièces, documentari, docufictions, come le vicende legate agli attentati di Capaci e via d’Amelio del 1992. Ogni anno, il 23 maggio e il 19 luglio, la televisione celebra le ricorrenze riproponendo alcune di tali opere, e poiché la verità giudiziaria e la narrazione pubblica su quei fatti sono ancora lungi dall’essere fisse e condivise, ogni scelta (così come ogni decisione di produrre qualcosa di nuovo) acquisisce un significato particolare. Man mano che passa il tempo, infatti, diventano sempre più numerosi gli Italiani che non hanno vissuto quei momenti cruciali, o che erano troppo giovani per ricordarli; e siccome Falcone e Borsellino (più di Aldo Moro, verrebbe da dire) sono assurti post mortem al rango di veri eroi nazionali, fatalmente la diffusione dei racconti relativi al loro ingrato destino è destinata a oltrepassare i confini dello stagionato pubblico televisivo, e ad abbracciare e informare platee di giovani spettatori e – nelle scuole più attente all’educazione civica – di studenti.

Il caso più interessante è quello di via d’Amelio, una strage nella quale il coinvolgimento di apparati dello Stato è ormai un dato acquisito anche sul piano giudiziario. Quest’anno la Rai si è mobilitata proponendo anzitutto le tre opere più ambiziose sul tema, ovvero su Rai1 la docufiction Adesso tocca a me di Francesco Miccichè con Cesare Bocci (2017), su RaiPremium il film I 57 giorni di Alberto Negrin con Luca Zingaretti (2012), e su RaiMovie il film Era d’estate di Fiorella Infascelli con Beppe Fiorello (2016), quest’ultimo in realtà dedicato all’estate trascorsa da Paolo Borsellino e Giovanni Falcone all’Asinara nel 1985 per scrivere la requisitoria del primo, leggendario maxiprocesso contro Cosa Nostra.

Non tornerò sui limiti dell’opera di Miccichè (confusa nella sequenza degli eventi, assai reticente sulla trattativa Stato-mafia e su alcuni aspetti delicati degli ultimi giorni di Borsellino) rispetto a quella più solida di Negrin: mi limito a osservare che tutte e tre queste pellicole (e a fortiori la miniserie Mediaset del 2004 Paolo Borsellino con Giorgio Tirabassi, mandata da Canale5 addirittura nella prima serata di domenica; e naturalmente anche il documentario del 2005 In un altro Paese di Marco Turco e Alexander Stille, offerto dal Nove nella prima serata di sabato 18) precedono talora di gran lunga gli sviluppi più recenti, e più inquietanti, della tormentata storia giudiziaria relativa a via d’Amelio, che datano almeno dalle dichiarazioni del vero esecutore materiale della strage, Gaspare Spatuzza, e dal conseguente processo Borsellino-quater, la cui sentenza d’appello è stata emessa nel novembre 2019.

Si rimane cioè sostanzialmente all’interno della narrazione agiografica (e, sia chiaro, giustamente tale) del magistrato-eroe che lotta contro i cattivi (prima nella procura Palermo con il suo compagno Falcone, poi con gravi difficoltà dopo lo smantellamento del pool antimafia, infine in una solitudine sempre più insostenibile dopo Capaci), e alla fine viene travolto da un destino di morte che prima qualche pentito e poi il suo stesso fiuto gli avevano indicato come inevitabile. Non sfugge a questo pattern anche la pièce teatrale del giornalista Francesco Vitale (e di Manfredi Borsellino) Io Paolo, offerta sugli schermi di Rai2 nella tarda serata di venerdì 17, dove s’immagina come sarebbe potuta andare l’intervista promessa da Borsellino allo stesso Vitale prima della sua morte, e mai realizzata – un prodotto assai attento alla retorica laconica e talora ruvida del giudice, ma un po’ desultorio, spesso freddo, e forse al limite dell’incomprensibile per chi non conosca già tutta la vicenda (chi erano i giudici di Caltanissetta che non vollero ascoltare ciò che Borsellino sapeva su Capaci? chi era Bruno Contrada? cos’è concretamente la trattativa della quale si fa cenno? in che senso c’entra lo Stato nella morte del giudice? tutto è lasciato a mezz’aria, tra allusioni e reticenze).

Di altro genere, ma artisticamente ben più riuscito, il monologo (poi nel 2019 docufilm) di Ruggero Cappuccio Paolo Borsellino – Essendo stato (2006), che inquadra in un angoscioso conto alla rovescia il precipitare del giudice verso il proprio destino senza tacere le responsabilità delle istituzioni nell’isolarlo: rilevantissimi, in particolare, gli interventi con cui Borsellino e Falcone denunciarono al CSM i passi indietro nel contrasto alla mafia da quando nel gennaio 1988, dopo il pensionamento di Antonino Caponnetto, la procura di Palermo era passata ad Antonino Meli (anziché, come tutti si attendevano, allo stesso Falcone) – e le cose erano peraltro destinate a peggiorare ulteriormente due anni dopo con la nomina a procuratore di Rodolfo Giammanco.

Ma forse l’opera teatrale (poi anche in formato tv) più efficace, ficcante, ed esplicita sul tema rimane ancora la pièce di Claudio Fava Novantadue (2012), che ripercorre su un binario di umanità e di concretezza il sodalizio tra Borsellino e Falcone, dall’Asinara al maxiprocesso, dall’Addaura alla stagione dei veleni; e interroga gli spettatori senza fornire soluzioni di comodo né arretrare dinanzi alle debolezze umane, anzi mettendo in scena, con le loro ragioni, sia l’oggi tanto vituperato procuratore di Palermo Antonino Meli sia financo un mafioso che partecipò alla strage di Capaci: si tratta in fondo dell’unico tentativo – preziosissimo – di capire come sia potuto accadere che uomini di tale valore come i due giudici cui oggi è intitolato l’aeroporto di Punta Raisi, per lunghi anni siano stati oggetto di delegittimazioni, articoli avvelenati, strali, lettere anonime, e un clima di ostilità diffusa nell’opinione pubblica italiana.

Questa piccola e incompleta rassegna era per dire che sarebbe forse ora di produrre qualcosa di nuovo: è senz’altro utilissima la memorialistica sulle sigarette del giudice, sui rapporti con gli agenti della scorta (cui fu dedicato tra l’altro nel 2003 da Rocco Cesareo il film Gli angeli di Borsellino, incentrato sulla vicenda di Emanuela Loi), sulle tappe del maxiprocesso, sulla rabbia della gente che esplose ai funerali, sugli antefatti e sui martiri precursori senza i quali il pool antimafia non avrebbe mai potuto essere creato (da Boris Giuliano a Rocco Chinnici, da Gaetano Costa a Ninni Cassarà a Beppe Montana): ma tutto questo possiamo darlo ormai per acquisito.

Ciò che servirebbe ora sarebbe una narrazione atta a integrare tutto ciò con quanto sappiamo del “dopo via d’Amelio”, che non è più scindibile dal “prima”: e non si tratta solo del furto, avvenuto pochi minuti dopo la strage, della famosa agenda rossa su cui il giudice annotava le sue indicibili scoperte e le sue intuizioni riservate sui rapporti tra mafia e pezzi dello Stato, bensì anzitutto del depistaggio più clamoroso ed efficace mai compiuto nel nostro Paese, orchestrato tramite il coinvolgimento di falsi pentiti e la condanna – con sentenza definitiva – di diversi innocenti. Il fatto che tale depistaggio abbia abilmente coinvolto sin dal principio uomini delle forze dell’ordine (alcuni dei quali ancora sotto processo a Caltanissetta, anche se il capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, vero artefice di questa costruzione, è defunto nel 2002) e magistrati più o meno consapevoli (si segnala l’operato non sempre limpido del procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, pronto ad avvalersi per le indagini, in modo del tutto irrituale, della cooperazione di uomini del Servizio segreto civile, in particolare il sempreverde poliziotto Bruno Contrada, successivamente condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa), fa capire che dietro la strage non vi fu soltanto la potenza di fuoco della mafia.

Il fatto stesso che le dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino – risultato, vent’anni dopo, del tutto estraneo ai fatti – contenessero diversi elementi di verità che egli non poteva aver appresi se non dai medesimi servitori dello Stato che lo indottrinarono costringendolo a confessare un crimine mai commesso, fa capire che i suddetti servitori erano a conoscenza (per quali vie?) di vari aspetti della concezione e della realizzazione dell’attentato che solo gli esecutori o i mandanti potevano dominare.

Ecco: siamo ormai un passo oltre il disagio dell’eroe per la sua “solitudine”, oltre l’invidia dei colleghi o il disinteresse di uno Stato sempre incerto e tremebondo tra il bene e il male. Abbiamo ormai la prova che attorno alla strage di via d’Amelio, alla sua accelerazione e alla sua debordante esemplarità, si mossero pezzi del medesimo Stato che Paolo Borsellino da una vita difendeva; e sembra sempre meno possibile comprendere gli eventi di quell’estate al di fuori del grande gioco della politica italiana, in cui il disfacimento di consolidati equilibri sotto i colpi di Tangentopoli lasciava spazio a nuove trame e nuovi disegni di conquista del potere.

Se anche non si voglia accedere, per una diffusione pedagogica, a un prodotto ben meditato ma artisticamente irrisolto e forse inevitabilmente pieno di suggestioni come La trattativa (2014), di Sabina Guzzanti almeno si cominci a trarre spunto dal sobrio e conciso documentario Paolo Borsellino – I segreti e le menzogne appena realizzato per La grande storia da un giornalista esperto come Peter Freeman, e mandato in onda da Rai3 domenica 19 alle 18. È il prodotto più promettente di questa tornata di celebrazioni, e non a caso è dedicato quasi per metà alle incredibili vicende dei quattro processi che seguirono la strage, e che – da diverse angolature, e fino a questi mesi – ne hanno illuminato il contesto e le radici ben al di là della dinamica militare di quel pomeriggio d’estate di 28 anni fa.

Filippomaria Pontani

Filologo classico a Venezia (Ca’ Foscari), mi occupo di greco da Omero a Kavafis, di manoscritti bizantini, di poesia, di lingua. Sul Post e sul Fatto quotidiano scrivo di scuola e università, di arte e patrimonio culturale, di Europa e Medio Oriente, di venetudine.