Charlie è un martire, e io l’ho tradito

Forse non la condivido, ma è sublime.

13 gennaio – Santi Ðaminh Phạm Trọng Khảm, Giuse Phạm Trọng Tả, Luca Phạm Trọng Thìn, martiri in Vietnam

Di loro so pochissimo. Erano laici francescani di Quần Cống, che 156 anni fa rifiutarono di calpestare la croce e furono pertanto torturati e uccisi a Nam Đinh. Le periodiche persecuzioni ordinate dall’imperatore Tự Đức a lungo andare offrirono alla Francia un buon pretesto per invadere il Vietnam e costituire la colonia francese di Indocina. Luca, il più giovane, aveva quarant’anni ed era il figlio di Daminh (Domenico), che ne aveva un’ottantina.

I 117 martiri del Vietnam furono canonizzati in massa da Giovanni Paolo II – il più grande santificatore della storia – nel 1988. Nel martirologio complessivo scritto per l’occasione si legge che “il martirio fecondò la semina apostolica in questo lembo dell’Oriente”. Sarà.

Io resto scettico. Per me ogni storia di martirio ne nasconde almeno una di tradimento. Se conosciamo i nomi dei martiri, non è tanto per il sangue che hanno versato, ma perché qualcuno è sopravvissuto per raccontarceli. Quel qualcuno, che condivide la fede del martire ma non il martirio, non può che essere un rinnegato – lapsi li chiamavano, ai tempi della Chiesa clandestina – qualcuno che evidentemente ha ceduto alle torture, ha sacrificato agli dei dell’Olimpo, ha consegnato i libri sacri, ha calpestato la croce e rinnegato il Vangelo. Per salvare la pelle. Naturalmente poi si è pentito; ha invidiato il destino glorioso dei martiri, e lo ha raccontato ai figli e ai nipoti: ma se non fosse sopravvissuto, di quei martiri gloriosi non ci resterebbe memoria. Nascosta dietro ogni vita di martire, c’è quella di dieci rinnegati, e il loro senso di colpa che spesso dà più colore e vividezza al racconto.

Ci ho ripensato domenica, dando un’occhiata come tutti all’oceanica manifestazione in memoria per i caduti di Charlie Hebdo. Definirli martiri della libertà di espressione non è una forzatura: erano perfettamente consapevoli del rischio (soprattutto dopo l’attentato di tre anni fa), e l’hanno corso fino alla fine. “Forse potrà suonare un po’ pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio”, aveva dichiarato Charbonnier nel 2012, e ora no, non suona pomposo affatto. Ogni volta che in questi anni l’opinione pubblica, divisa e perplessa, gli suggeriva di calpestare la croce della libertà, Charlie reagiva alzandola più in alto. Sembra paradossale che questo avvenisse attraverso dei disegnini satirici, ma noi viviamo in un’epoca di paradossi: il volto di Maometto, che per gli islamici non si dovrebbe mostrare, su Charlie Hebdo era diventato l’icona della libertà occidentale di prendersi gioco di tutto, anche di un simbolo tanto caro a una minoranza religiosa. E attraverso dei disegnini buffi, Charlie ci ha posto la domanda: la tanto sacra libertà, fino a che punto siamo disposti a difenderla? Charb, Wolinski e gli altri con la vita, e noi?

Si è visto nell’occasione che non eravamo disposti poi a molto. Lo Stato aveva sensibilmente ridotto la scorta, tanto che Charb se ne era procurata una privata. Ora però è morto e possiamo onorarlo con un funerale immenso, venerarlo come martire. La sua coerenza, che ce lo rendeva un po’ fastidioso da vivo, da lontano possiamo ammirarla meglio e raccontarla ai nipoti come esempio eroico: quanto a noi, siamo tutti Charlie, adesso, ma continueremo a usare una certa prudenza.

Ai tempi del primo attentato mi chiedevo chi fosse il più iconoclasta, tra l’islamista disposto a uccidere pur di non vedere disegnato il suo profeta, e il vignettista disposto a morire pur di farne la caricatura. Ancora oggi non saprei rispondere, ma forse la domanda è diventata un po’ leziosa. Charb è vittima dell’integralismo islamico, ma come molti martiri è portatore di una coerenza assoluta, che noi sopravvissuti, noi lapsi, invidiamo e additiamo, ma non compreremmo mai davvero al prezzo della nostra pelle. Per prima cosa – come è stato da molti notato – il coraggio di ripubblicare certe vignette di Charlie non lo abbiamo. Non solo quelle anti-islamiche: anche le altre religioni monoteiste venivano irrise per par condicio. Quindi insomma siamo tutti Charlie, ma la vignetta natalizia (e tutto sommato affettuosa) in cui Gesù bambino sguscia aureolato dalle cosce della madre, quella forse no: siamo Charlie solo in un certo senso, in un certo momento, per un certo motivo. Preferiremmo anche in un qualche modo distinguerci da Calderoli che quando indossò la maglietta con Maometto era già a suo modo Charlie, ma sembrava così tanto un catastrofico cialtrone.

Siamo tutti Charlie… ma in Italia la bestemmia è sanzionata dalla legge. Siamo tutti Charlie, ma un’altra legge sanziona l’incitamento all’odio razziale, e perfino Charlie almeno una volta dovette licenziare un redattore storico per una battuta antisemita. Molti che oggi sono Charlie fino a qualche giorno fa chiedevano nuove leggi che riconoscessero aggravanti omofobiche o sessiste. Insomma, siamo tutti Charlie, ma non significa che siamo tutti disposti a offendere il Papa, o gli ebrei, o l’Islam, o le donne, o i gay, o chiunque: è una libertà che spettava a Charlie incarnare, in un recinto neanche tanto dorato che ora un cospicuo contributo statale rafforzerà. Avremo, ed è un paradosso più francese di altri, la blasfemia di Stato: anche i francesi di fede ebraica dovranno pagare per difendere la rivista che raffigura la Torah su un rotolo di carta igienica; anche i francesi di fede islamica pagheranno perché possa uscire nelle edicole la rivista che, quando mostrare il volto del profeta diventò stucchevole, cominciò ad esibirne le natiche. Forse cominciamo a capire il senso di certi riti carnascialeschi che in epoca antica e medievale erano codificati dal potere tanto quanto quelli religiosi: in certe situazioni ridere (o sopportare le risa altrui) diventa a quanto pare obbligatorio. E anche un po’ meno divertente, ma sospetto che nessuno si stia più divertendo da un pezzo.

La discussione sulla libertà di espressione e i suoi limiti è probabilmente inesauribile, e in questi giorni ha fruttato alcuni contributi davvero interessanti. Forse però andrebbe prima disinnescata, perché molti in buona fede sono convinti che la guerra prossima ventura possa scoppiare per due vignette. Gli editorialisti dai sessant’anni in su sono entusiasti – ma se davvero una guerra ci sarà, si combatterà come sempre per questioni economiche e demografiche: perché l’Europa non è riuscita a costruire una sua identità comunitaria ed è rimasta la terra di mezzo tra benessere occidentale, disperazione africana e caos medio-orientale, in balia di dinamiche migratorie che non riuscirebbe a contenere nemmeno se volesse. In mezzo a tutto questo, Charlie è il solito pretesto. Se Gavrilo Princip non avesse fatto fuori l’arciduca a Sarajevo, qualcun altro avrebbe sparato a qualcuno in qualche altra città. Se Charb e compagni avessero deciso di sospendere le vignette anti-islamiche, un francese di seconda generazione incazzato col mondo se la sarebbe presa con Houellebecq, o qualsiasi altro. Anche se potessimo e volessimo davvero comportarci in modo più sensibile nei confronti delle minoranze, non possiamo davvero impedirci di offenderle. Il mondo è diventato un cortile: ci sarà sempre qualcuno che estrae furtivo il dito medio e qualcuno che se la prende (non sono esperto di molte cose, ma di questa, fidatevi, sì). Discutiamo pure di cosa sia la libertà di espressione e dei suoi limiti, ma facciamolo semplicemente per chiarirci le idee – quanto alla guerra, se deve scoppiare, scoppierà: e mezz’ora dopo il primo combattimento, l’idea che si stia morendo per il diritto a disegnare Maometto ci sembrerà già un’ingenuità, una beata coglioneria di quei bei tempi di pace.

Dalla discussione possiamo stralciare facilmente tutti i contributi degli alfieri dello scontro di civiltà. Non perché la loro posizione non sia interessante: ma è talmente limpida che non necessita di ulteriori spiegazioni. Per Salvini e la Santanché l’unico diritto in discussione è quello di offendere l’Islam: per loro è una religione che incita all’odio, e quindi è giusto odiarla. Facile. Fallaci. Non è una posizione da sottovalutare: credo che molti si sentano Charlie soprattutto in questo senso. Per loro non si tratta di offendere il profeta per dimostrare che c’è libertà di espressione, ma di ammettere quel tanto di libertà di espressione sufficiente a offendere il profeta. Non un grammo di più. Tutto chiaro? Passiamo oltre.

Una volta rimossi gli anti-islamici, è possibile intravedere grosso modo due schieramenti. Da una parte ci sono gli alfieri di una libertà assoluta, a-storica; dall’altra si sta rinfoltendo il gruppetto di chi scuote la testa e dice no, Charlie sarà anche un martire, però… stava esagerando. Trovo suggestivo il fatto che da una parte si sia messo in pratica il governo francese, disposto a sovvenzionare da qui in poi il libero Charlie, e dall’altra parte qualche columnist dall’altra parte dell’Atlantico. Potrebbe essere una semplice coincidenza, ma anche il segno di quanto siano ancora e forse irreparabilmente diverse queste due concezioni della libertà, separatesi alla nascita durante le rivoluzioni di fine Settecento. Da una parte la Libertà francese: assoluta, centralizzata, garantita da una Dea Ragione interpretata da un’élite costituitasi Comitato di Salute Pubblica, e imposta dall’alto sui cittadini riconoscenti. Dall’altra una libertà sempre provvisoria, consuetudinaria, continuamente negoziata tra Stati, comunità etniche e religiose in perenne frizione tra loro (continua…)

Un fotogramma di un vecchio cartone animato di Tom e Jerry, che sui principali network televisivi è censurato.

Un fotogramma di un vecchio cartone animato di Tom e Jerry, che sui principali network televisivi è censurato.

Nel vecchio continente, una libertà fondata sull’uguaglianza; nel nuovo, sulla tolleranza. Non sorprende che poi, pur usando le stesse parole, non ci capiamo. Quella che spesso chiamiamo “l’ossessione del politically correct” (incoraggiati in questo dagli stessi americani, che per primi ne vedono i parossismi), è una mentalità che muove da secoli di continue rinegoziazioni tra tribù (wasp, cattolici, afroamericani, latinos). Negli USA, come noto, tingersi il volto di nero per fingersi afroamericano è considerato un gesto razzista, non necessariamente sanzionabile ma universalmente esecrato. Le ragioni per cui si è arrivati alla codifica di questa specie di tabù sono complesse a affascinanti, ma interessano fino a un certo punto: l’importante è che a un certo punto una comunità etnica definita ha isolato un simbolo (il blackface) e ha piantato un paletto: questa cosa ci offende. Magari non sarà vietata dalla legge, ma se voi ci offendete noi boicotteremo i vostri prodotti, i vostri programmi, e non voteremo per voi.

La società nordamericana sarebbe almeno in questo senso più attrezzata a fronteggiare la crisi delle vignette: nel momento in cui una comunità (i musulmani, in questo caso) dichiara un tabù (il volto del profeta), tv e quotidiani cominciano a girarci attorno, col rispetto che è automaticamente dovuto al tabù formulato da una minoranza: New York Times e Washington Post non pubblicano le vignette su Maometto, Associated Press le cancella dai propri archivi. La sensibilità religiosa negli Stati Uniti non si offende – anche quando non si tratta della religione di maggioranza. Proprio perché non si tratta mai della religione di maggioranza, che negli Stati Uniti poi non è nemmeno chiaro quale sia. Esistono varie confessioni che sono sopravvissute proprio tollerandosi l’un l’altra; e da questa tolleranza è scaturita anche una certa idea di libertà. Da noi è diverso.

C'è una cattedrale cattolica in Vietnam (Phat Diem) - COSTRUIAMO UN TEMPIO BUDDISTA A COMACCHIO, PRESTO!

C’è una meravigliosa cattedrale cattolica in Vietnam (Phat Diem) – COSTRUIAMO UN TEMPIO BUDDISTA A COMACCHIO, PRESTO!

Lo è forse soprattutto in Francia, paese monolitico già prima della Rivoluzione. Ma in generale anche da noi la libertà poggia sul concetto un po’ astratto di eguaglianza, che ci dissuade dall’esaminare i casi particolari. Spesso si sottolinea come Charlie trattasse l’Islam come le altre religioni: se si raffigura Gesù Cristo e Mosè, perché non si dovrebbe poter raffigurare Maometto? Chiunque abbia studiato almeno un po’ di storia delle religioni ha già trovato l’errore: dietro le raffigurazioni del Cristo ci sono secoli di cultura dell’immagine, che addirittura nel medioevo si è sviluppata proprio intorno alla figura del Dio uomo messo in croce; dietro Maometto, anzi dietro la tendina che ne cela il volto, c’è una fiera cultura iconoclastica niente affatto sconosciuta all’Europa, che anzi più volte ne fu tentata. Insomma, no: mostrare Maometto non equivale a mostrare Cristo: da una parte c’è un tabù, dall’altra una consuetudine millenaria, non dovrebbe essere difficile da capire – ma ci rifiutiamo. La nostra idea di libertà incorpora una sorta di stampino, non importa come entriamo: l’essenziale è che ne usciamo tutti uguali. Forse da qui nasce anche il tormentone sulla reciprocità, per cui per ogni moschea che si costruisce in Brianza dovrebbe sorgere una chiesa in Marocco o in Tunisia, non si capisce bene per chi visto che in questo momento storico l’emigrazione va in un senso. È un’idea abbastanza buffa, che ignora platealmente le ragioni demografiche ed economiche per cui milioni di musulmani si sono spostati qui, e forse scaturisce dal nostro istinto egalitario: chi reclama una qualche diversità perturba un equilibrio mentale che si deve ristabilire imponendo la costruzione di una chiesa in mezzo al deserto.

Il guaio di questa nostra nozione di libertà è forse il suo aspetto platonico. Si tratta di un assoluto, irrealizzabile in terra, ma proprio per questo desiderabile. Siamo tanto più liberi quanto più ci avviciniamo a quell’assoluto, e quindi Charlie disegnando le natiche di Maometto era più libero di noi che ci mettiamo una mano davanti quando ci scappa un ruttino a tavola. Il fatto che la vita di tutti i giorni ci costringa a limitare questa libertà continuamente, a scuola sul lavoro e in famiglia, non ci impedisce di pensare che da qualche parte questa libertà debba essere fruita nel modo più perfetto possibile: nasce così la satira. O meglio, nasce l’idea che la satira non sia un ramo della propaganda politica, ma uno spazio sacro, recintato e inviolabile, in cui finalmente l’uomo europeo è libero di essere libero: ruttare, bestemmiare, ecc. Quante volte abbiamo sentito dire che la tale cosa era consentita perché era “satira”, e che la “satira” doveva essere “libera” (solo la satira, evidentemente). Potrei citare infiniti esempi, ma nulla mi sembra più chiaro di questo intervento di Gianluca Neri:

Mi è capitato spesso, in passato, di cercare di spiegare la satira a chi non la capiva. Spesso quelli a non capirla erano amici anche piuttosto vicini e sicuramente cari, e quel che spiegavo loro è che non dovevano affatto capirla: dovevano lasciarsi stupire. Dovevano pensare, proprio come il Gianluca quattordicenne che leggeva Linus e magari capitava su un disegno – volgarissimo – di Wolinski“caspita, ma quindi, volendo, queste cose si possono dire? E se si possono dire, se non esiste un limite condiviso per tenere le cose buone e giuste da dire di qua e la cose cattive e sbagliate da pensare di là, significa che viviamo in un paese libero”. Se ci pensate, è un momento bellissimo – e non capita di frequente – quello in cui sei consapevole di vivere in un paese libero.

Proprio perché è a-storica, la libertà si può capire solo a quattordici anni, o a costo di restare quattordicenni per sempre. È quel momento prezioso in cui scopri le cose dei grandi per la prima volta, cogliendole nel loro lì-ed-ora, senza ancora nemmeno sospettare che dietro ci sia una storia, una serie di consuetudini ed errori che ci hanno portato nel momento in cui Linus andava in stampa e Frigidaire, per dirne uno, veniva sequestrato. Credo che per Neri, e per molti come lui, la satira sia semplicemente il primo amore. Non l’intersecarsi più o meno fortuito di alcune perturbazioni ormonali, ma qualcosa di assoluto che ti segna per sempre e da cui dipenderanno poi tutti gli altri amori, tanto più imperfetti quanto meno si avvicineranno a quell’ideale. Se lo rileggi a questo punto ti rendi conto dell’enormità: ci stai dicendo che dobbiamo essere quattordicenni per capire la satira? Ma io a quattordici anni ero un coglione. Mi comportavo malissimo con persone da cui pretendevo comunque affetto e protezione, una cosa che se ci penso ancora mi vergogno. Davvero dovrei essere ancora così? E dovrei pretendere dallo Stato lo stesso atteggiamento; spernacchiarlo e chiedergli una scorta per ogni volta che pesterò i piedi a qualche bullo pericoloso? Sul serio i martiri di Charlie sono morti per questo? Voglio sperare di no.

A questo punto probabilmente quanti saremo rimasti? A leggere qui sotto, dico. Molto pochi probabilmente: meglio così, perché devo parlare di me. Sul Post gestisco un blog in cui mi prendo gioco della religione, non so se ci avevate mai fatto caso (non scherzo, alcuni non se ne accorgono davvero. Sono convinti che sia un blog serio, cattolico). Mi sono concentrato sul cattolicesimo perché è una delle cose al mondo che credo di conoscere meglio – comunque poco, ma meglio di tutto il resto. C’è chi ritiene che soltanto i gay possano ridere dei gay, e che una barzelletta possa essere razzista o meno a seconda se la racconta un nero o no, beh, io non ne sono così convinto. Ma senz’altro le migliori barzellette sugli ebrei le raccontano gli ebrei: non perché siano gli unici ad averne il diritto, ma perché per ridere di qualcosa bisogna conoscerla bene, ed è più facile conoscere sé stessi che gli altri, forse. Io credo di aver diritto a ridere di tutto, e quindi anche dell’Islam, ma non mi viene mai niente di divertente – se l’avessi studiato un po’ di più, allora sì. Questo è il vero motivo per cui non mi sento Charlie. Non riesco a ridere sguaiatamente di una cosa che non conosco davvero; credo che non saprei farlo nemmeno nel momento in cui lo Stato mi finanziasse in tal senso.

Il problema è che quando invece conosco le cose, un po’ mi ci affeziono: e infatti questo blog è più spesso affettuoso che sarcastico, un grosso limite su internet oggigiorno. Siccome poi a differenza di molti non sono affatto sicuro che le religioni stiano per sparire (mi sembra di vederne spuntare di nuove continuamente), ho una certa ritrosia a tagliarmi i ponti alle spalle. No, non sono Charlie, davvero. Ogni cosa che scrivo, la controllo e ricontrollo chiedendomi: offenderò qualcuno? Non che io non voglia offendere qualcuno. Ma voglio farlo piano, lentamente, lavorando di fioretto. Anche a me piace oltrepassare i confini: ma solo furtivamente, un centimetro alla volta, ogni tanto. Per prima cosa non voglio predicare ai convertiti, e quindi è molto importante che invece di venire a trovarmi col kalashnikov, credano di poter venire qui a leggere delle cose apparentemente non ostili. Io li faccio accomodare, li rassicuro un po’, e poi sottovoce gli sibilo: pssssst, ehi, ma hai notato che il Paolo degli Atti degli Apostoli corrisponde esattamente al profilo di una spia? Non lo dico per scandalizzarti, eh, e chiedo scusa se ti ho offeso, però… però è curioso, non trovi?

Vi garantisco che uno su mille me lo prendo via. Non è una percentuale cattiva, per un uomo solo. Un giorno forse la Chiesa crollerà, ma che dico la Chiesa. Crolleranno tutti i monoteismi, uno sull’altro, e saremo finalmente liberi di fare qualcosa che francamente adesso non saprei. Senz’altro quel giorno in Piazza San Pietro sarà eretto un monumento a Charlie, non a me. Com’è giusto che sia. La gloria va ai martiri. Ai lapsi la piccola fatica quotidiana.

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.