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  • Giovedì 20 novembre 2025

L’autonomia incanta il Veneto da oltre trent’anni

Anche stavolta le promesse aiuteranno la destra a vincere le elezioni regionali, nonostante qualche insofferenza in più rispetto al passato

di Isaia Invernizzi

Il presidente del Veneto Luca Zaia durante un comizio
Il presidente del Veneto Luca Zaia durante un comizio (ANSA/ALESSANDRO DI MEO)
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Da quando Luca Zaia fu eletto presidente della provincia di Treviso, nel 1998, la promessa di maggiore autonomia politica, economica e fiscale del Veneto è stata centrale in tutte le sue campagne elettorali. Lo è stata anche in quella che sta per finire, la prima da 15 anni a questa parte senza il suo nome tra i candidati presidente, e per questo motivo storica. La pretesa di essere riconosciuta come una regione a parte, più indipendente dal resto d’Italia, è una rivendicazione che viene da lontano, da un conflitto costante con lo Stato che in Veneto ha alimentato per decenni il consenso della Lega, nonostante la stessa Lega sia stata al governo dell’Italia più volte negli ultimi 30 anni.

Già negli anni Cinquanta il giornalista Guido Piovene nel suo libro Viaggio in Italia definiva così un sentimento collettivo che chiamò venetismo: «Esiste nel cuore dei veneti una persuasione fantastica che la loro terra sia un mondo, un sentimento ammirativo, e quasi un sogno di se stessi». Tuttavia, scriveva Piovene, all’epoca il venetismo non dava noie al parlamento, e non ne avrebbe date nei decenni successivi.

A partire dagli anni Settanta nacquero diversi movimenti politici che provarono a sfruttare questa spinta indipendentista. Ci riuscì più di altri la Liga Veneta, che si opponeva allo Stato centrale identificato con Roma, rifiutava e contrastava l’assistenzialismo, la burocrazia, l’imposizione fiscale. “Veneti da oltre tremila anni, italiani da poco più di cento”, era uno degli slogan ideati da Franco Rocchetta, tra i primi esponenti della Liga negli anni Ottanta. All’inizio degli anni Novanta la Liga si alleò poi con la Lega Lombarda di Umberto Bossi e insieme formarono un partito federale, la Lega Nord.

Alle elezioni politiche del 1996 la Lega Nord ottenne 4 milioni di voti nelle regioni settentrionali, e quasi il 28 per cento dei consensi nel solo Veneto.

Da allora la Liga assicura voti a ogni elezione, ma la dirigenza del partito federale è sempre rimasta più lombarda che veneta, un rapporto sbilanciato evidente nella composizione dell’attuale governo: sono lombardi i ministri Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti, Roberto Calderoli e Alessandra Locatelli, gli unici veneti al governo sono i sottosegretari Massimo Bitonci e Andrea Ostellari, mentre Lorenzo Fontana è presidente della Camera. Ma alla Liga stare in secondo piano non è mai pesato granché, almeno finora, visto che il suo principale e quasi unico interesse esclusivo è il Veneto.

Gian Paolo Gobbo, ex sindaco di Treviso e storico esponente della Liga, dice che grazie alla Liga e a Luca Zaia oggi c’è una percezione diversa del popolo veneto, migliore rispetto al passato. «Siamo sempre stati considerati giganti economici, ma nani politici. Oggi invece Zaia è uno dei politici più famosi in Italia e in Europa. Incarna da sempre la nostra volontà di autonomia e ha reso il Veneto una potenza sia economica che politica. Per questo la nostra battaglia per l’autonomia deve continuare».

Il politologo Paolo Feltrin la vede in modo diverso: il Veneto non è più una potenza economica, dice. Gli anni Settanta e Ottanta, in cui le piccole e medie imprese riuscirono a sfruttare il breve periodo di transizione tra il modello industriale delle grandi fabbriche e il terziario avanzato, sono finiti da un pezzo. Ma oggi la politica veneta fa fatica a prendere consapevolezza che quel modello appartiene al passato.

«Nemmeno con 25 anni di ritardo riusciamo a capire che il XXI secolo è diverso dal XX. L’idea del fare da soli, di essere padroni a casa nostra, è un’illusione che ha prodotto risultati deludenti», dice Feltrin, che ha creato una definizione per questa illusione: minoritarismo felice. «Zaia è il prototipo assoluto del minoritarismo felice: dice siamo bravi, siamo belli, siamo i migliori del mondo, guardateci, ma le cose importanti succedono altrove». Non in Veneto e nemmeno più in Italia.

Il continuo rilancio delle promesse di autonomia ha contribuito a ritardare la consapevolezza dei cambiamenti economici e politici di cui parla Feltrin. Negli anni la Liga ha organizzato manifestazioni, “gazebate”, raccolte firme. Nell’ottobre del 2017 fu messo in piedi perfino un referendum consultivo sull’autonomia che in Veneto portò ai seggi più di 2 milioni di persone, un’affluenza del 57 per cento. Il 98 per cento votò a favore dell’autonomia. Otto anni dopo, diversi candidati della Liga continuano a rievocare i risultati di quel referendum.

Le cosiddette pre-intese firmate martedì tra il governo e il Veneto, il Piemonte, la Lombardia e la Liguria sono la dimostrazione evidente dei continui tentativi – talvolta goffi e inconcludenti, come in questo caso – di rilanciare le promesse.

Queste pre-intese hanno poco di concreto: sono un impegno del governo a concludere i negoziati con le regioni per renderle più autonome in settori come la protezione civile, le professioni, la previdenza complementare. Per tutti gli altri, i più importanti, il ministro degli Affari regionali e delle Autonomie Roberto Calderoli spera di arrivare a un’approvazione entro la fine della legislatura, cioè tra poco meno di due anni, un tempo sufficiente a portare avanti ancora le promesse.

Nel frattempo sia la Banca d’Italia che molti esperti che da anni studiano l’eventuale applicazione dell’autonomia hanno detto che la riforma sarebbe insostenibile per lo Stato perché causerebbe un aumento della spesa pubblica di vari miliardi di euro ogni anno. È anche il motivo per cui tutti i governi di centrodestra hanno sempre mantenuto un atteggiamento ambiguo, provando comunque ad accontentare la Lega.

– Leggi anche: I grossi problemi economici dell’autonomia differenziata

Martedì Zaia, subito dopo aver firmato le pre-intese, ha provato a giustificarsi: «Se io fossi arrivato e avessi avuto già tutto approvato, oggi non parleremmo più di autonomia perché sarebbe già realizzata, faremmo il “tagliando” dell’autonomia. Purtroppo sono arrivato e c’era una prateria, non c’era nulla, il deserto totale». Ma il timore di molti esponenti leghisti, non solo dei semplici militanti, è che di questo passo sarà complicato ottenere davvero l’autonomia, a maggior ragione se non c’è riuscito un presidente popolare come Zaia.

Le avvisaglie di una certa insoddisfazione nei confronti della Lega e delle sue promesse trascinate per anni si sono viste nei risultati delle ultime elezioni europee: in Veneto Fratelli d’Italia ha ottenuto il 37,6%, la Lega solo il 13,1%. Nonostante la crescita notevole dei consensi del suo partito, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha comunque concesso alla Lega il candidato presidente, Alberto Stefani, deputato 33enne. Non ci sono dubbi sulla sua vittoria.

Secondo il politologo Gianluca Passarelli, autore di diversi saggi sulla Lega, la parte difficile verrà dopo, perché Stefani non ha la struttura politica necessaria per tenere sotto controllo la Liga in Veneto, come ce l’ha avuta Zaia negli ultimi anni. Anche contenere le aspettative di Fratelli d’Italia non sarà un compito semplice.

Secondo Passarelli emergerà in modo ancora più evidente la crisi di identità della Liga nella Lega, un partito che è allo stesso tempo autonomista eppure “ultragovernativo”, avendo partecipato a governi con il Movimento 5 Stelle, con Mario Draghi e infine con la destra di Giorgia Meloni. «Lo spirito ribellista della Liga esiste ancora e non è chiaro come faccia a convivere con la costruzione del ponte sullo Stretto», dice Passarelli. Molto dipenderà da come andrà la Lega alle elezioni, soprattutto se riuscirà a stare davanti a Fratelli d’Italia.

Le tensioni tra le storiche istanze autonomiste e la contraddittoria svolta nazionale portata avanti da Matteo Salvini hanno già creato qualche problema. Molti politici hanno lasciato la Liga o sono stati espulsi. Gianantonio Da Re, detto Toni, che all’epoca del referendum del 2017 era segretario regionale della Liga, nel 2024 è stato cacciato per aver dato del cretino a Salvini. Ora è candidato alle regionali per Forza Italia. «Mi sembra che i leghisti veneti non siano proprio contentissimi della svolta nazionale di Salvini. L’avevo previsto», dice. «Noi siamo l’unico partito ad avere scritto nel simbolo “autonomia per il Veneto”. Nemmeno la Lega l’ha scritto. E questi accordi col governo a quattro giorni dal voto mi sembrano più uno spot elettorale».

Di questa possibile insoddisfazione prova ad approfittare il candidato del centrosinistra Giovanni Manildo, ex sindaco di Treviso. Non ha molto da perdere visto che gli ultimi sondaggi lo davano distante 36 punti percentuali da Alberto Stefani. Anche lui definisce le nuove promesse sull’autonomia un’ennesima operazione di propaganda: «Sono passati otto anni dal referendum, quindici anni di governo Zaia, tre anni di governo Meloni: dov’è un solo risultato concreto? Non esiste. Qua nessuno è contrario all’autonomia. Ma oggi i veneti si sentono delusi e traditi dal fatto che le promesse non si siano mai trasformate in fatti».