Ci conviene davvero l’autonomia differenziata?

Al di là delle disuguaglianze territoriali, secondo Banca d'Italia c'è il rischio di effetti negativi sulla gestione delle risorse pubbliche

Foto di Tatiana Rodriguez su Unsplash
Foto di Tatiana Rodriguez su Unsplash

Martedì l’aula del Senato ha iniziato a discutere il disegno di legge sull’autonomia differenziata, un provvedimento voluto dal ministro degli Affari regionali Roberto Calderoli che definisce le modalità con cui le regioni potranno chiedere e ottenere di gestire in proprio alcune delle materie su cui al momento la competenza è dello Stato centrale. Il disegno di legge ha una forte valenza politica: l’autonomia è una battaglia politica storica della Lega, il partito di Matteo Salvini di cui fa parte anche Calderoli, che ha intenzione di approvarlo in parlamento prima delle elezioni europee in programma per il 9 giugno. Dopo il voto in Senato, previsto verosimilmente per la fine di questa settimana, il testo andrà alla Camera, dove seguirà un percorso piuttosto lungo e da cui potrebbe infine dover tornare di nuovo al Senato se, come è probabile, i deputati introducessero modifiche.

L’eventuale approvazione del disegno di legge non determinerà l’effettivo trasferimento di competenze alle regioni. Il provvedimento di Calderoli si limita infatti a indicare un percorso e delle regole che le regioni dovranno seguire nel negoziare col governo e il parlamento l’attribuzione di poteri e prerogative. E l’avvio di queste procedure è subordinato alla definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), cioè i servizi minimi che lo Stato deve garantire in ogni parte del suo territorio su settori fondamentali (scuola, trasporti, sanità, per esempio). La definizione dei LEP, e il loro finanziamento tramite risorse statali, serve a prevenire il rischio che l’autonomia cristallizzi o persino aumenti le divergenze territoriali tra le regioni più ricche, principalmente quelle del Nord, e quelle più povere del Sud.

La segretaria del PD Schlein al presidio contro il ddl Calderoli a Roma (Roberto Monaldo/LaPresse)

Proprio su questo possibile scenario si sono concentrate in questi giorni le critiche dei partiti di opposizione di centrosinistra, come il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle, che denunciano la presunta intenzione del governo di «spaccare il paese», di danneggiare il Mezzogiorno e «dividere l’Italia». Ma oltre a questi rischi, legati essenzialmente alle disuguaglianze tra regioni diverse, ci sono anche perplessità circa l’impatto che l’attuazione dell’autonomia differenziata potrà produrre sul sistema economico e imprenditoriale italiano nel suo complesso, con possibili ricadute negative sulla competitività del paese e sulla gestione delle risorse pubbliche. Su questi potenziali effetti indesiderati della riforma si è espressa nei mesi scorsi anche Banca d’Italia, che ha elaborato una relazione messa poi a disposizione del Senato.

Secondo Banca d’Italia va valutato attentamente il rapporto tra i costi e i benefici dell’autonomia in relazione all’efficienza economica. È vero infatti che le regioni hanno maggiore conoscenza delle particolarità locali e delle caratteristiche sociali dei loro territori, quindi potrebbero fare scelte più accorte sulla gestione delle risorse. E questo potrebbe innescare anche un processo virtuoso di responsabilizzazione dei politici: se chi decide come spendere i soldi è più vicino ai cittadini su cui quelle decisioni ricadono direttamente, questi ultimi saranno poi verosimilmente più in grado di comprendere e valutare ciò che di giusto o di sbagliato quell’assessore o quel presidente di regione ha fatto, e votare poi di conseguenza.

Dall’altro lato, però, ci sono alcune controindicazioni. Scrive Banca d’Italia: «Un assetto istituzionale estremamente differenziato potrebbe risultare poco trasparente per i cittadini, accrescendo i costi di coordinamento e indebolendo l’accountability dei diversi livelli di governo», cioè quel principio per cui i decisori politici possono essere chiamati a rendere conto delle scelte che prendono. Questo produrrebbe effetti negativi anche su imprese e lavoratori, specie quelli che operano a livello sovraregionale o che si spostano da un’area all’altra del paese, che sarebbero obbligati a districarsi tra norme regionali differenti, vedendosi costretti a chiedere un numero elevato di autorizzazioni e certificazioni specifiche. Il tutto renderebbe meno accessibili i vari mercati, compromettendo i principi di concorrenza, e nel complesso danneggerebbe la produttività dell’Italia, che è già peraltro da anni una delle più basse dell’Unione Europea.

In questo panorama, Banca d’Italia osserva come su alcune delle competenze che le regioni possono rivendicare ci sia in generale una necessità di coordinamento a livello quantomeno nazionale, inconciliabile con il trasferimento dei poteri alle singole regioni. Le materie in questione sono in tutto 23, cioè tutte quelle indicate come «materie di legislazione concorrente» dalla Costituzione, nel terzo comma dell’articolo 117. Si va dai rapporti internazionali al commercio estero, da tutela e sicurezza del lavoro all’istruzione, dalla ricerca scientifica all’alimentazione, dalla salute allo sport, dai trasporti alla gestione dei beni culturali, e altre ancora. Banca d’Italia spiega appunto che su alcune di queste materie «è richiesta una capacità di azione tempestiva e di coordinamento, a livello nazionale e spesso sovranazionale». Cita le politiche energetiche e ambientali, ma si sofferma poi anche su quella che è probabilmente la più importante delle 23 materie esaminate, e cioè la sanità.

«La recente esperienza della pandemia ha ad esempio messo in luce la dimensione sempre più globale della tutela della salute, evidenziando come la rapidità e la qualità dei processi decisionali possano risentire della frammentazione delle competenze su più livelli di governo», si legge nella relazione. Banca d’Italia cita alcune ricerche pubblicate su Lavoce.info o su Politica economica per convalidare la tesi secondo cui l’esistenza di diversi modelli regionali sulla medicina territoriale, e la confusione normativa tra ordinanze regionali e misure decise dal governo nazionale, abbiano influenzato negativamente la capacità di limitare la diffusione del contagio durante la pandemia da coronavirus.

I ministri leghisti Calderoli e Giorgetti parlano al Senato, il 23 novembre 2023 (ETTORE FERRARI/ANSA)

Anche sulla base di queste considerazioni, Banca d’Italia ha criticato il fatto che il disegno di legge promosso dal ministro Calderoli non pone «alcuna condizione per l’accesso all’autonomia differenziata» per le regioni, e consiglia invece di prevedere almeno «un’istruttoria per ciascuna materia». Bisognerebbe insomma produrre ogni volta un’analisi scientificamente affidabile per dimostrare che il decentramento su quella specifica competenza produce effettivamente dei vantaggi sia per la regione che ne fa richiesta sia per il resto del paese.

Il principio su cui insiste Banca d’Italia, infatti, è quello dell’interesse per lo Stato nel suo complesso, e non per le singole amministrazioni locali. Il disegno di legge di Calderoli prevede infatti che sia ciascuna regione interessata a negoziare col governo il passaggio delle competenze sulle materie desiderate (che possono essere tutte e 23 oppure solo alcune). Il tutto con un vincolo finanziario molto rigido, perché questo processo non dovrà comportare «nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica», cioè non dovrà costare di più allo Stato.

Tuttavia l’attuazione dell’autonomia potrebbe, nel concreto, rendere molto più problematica la gestione delle finanze pubbliche.

Lo Stato perderebbe infatti il controllo di una parte rilevante della spesa, e questo potrebbe intaccare la sua capacità di fare programmazione in maniera virtuosa, cioè di prendere decisioni che favoriscano la crescita e contrastino gli effetti nefasti di una crisi o di un periodo di rallentamento dell’economia globale. Inoltre, le regioni hanno al momento minori strumenti e anche minori obblighi di rispettare i vincoli di bilancio previsti dalla Costituzione e dai trattati europei, e in caso di gestione non positiva delle risorse lo Stato potrebbe dover intervenire per sistemare le cose. Per questo secondo Banca d’Italia «il rischio che da tale processo possano derivare maggiori oneri per il bilancio pubblico […] non può essere trascurato», dato che «la spesa complessiva potrebbe risentire della frammentazione nell’erogazione dei servizi pubblici, oltre che di maggiori costi dovuti a diseconomie di scala».

Questo delle economie (e delle diseconomie) di scala è un concetto che ricorre spesso quando si parla di federalismo e di autonomia regionale. Il principio dell’economia di scala, in soldoni, consiste nel fatto che realizzare tanti prodotti uguali in un solo processo produttivo (quindi magari nello stesso impianto), o fornire servizi su ampia scala, sia più economico: cioè costi meno a chi offre quei prodotti e servizi di quanto non lo sia realizzare in diversi stabilimenti lo stesso numero di oggetti, o dividere l’erogazione dei servizi in vari segmenti.

Per dirla ancora più facile: se un imprenditore deve produrre 10 cucchiai al giorno per rifornire un venditore di cucchiai, avrà bisogno di comprare una macchina che fa cucchiai, pagare la bolletta della corrente che alimenta quella macchina, assumere del personale e via così, sostenendo dunque costi iniziali significativi. Per questo, se il venditore di cucchiai dovesse poi aver bisogno del doppio dei cucchiai al giorno per soddisfare le richieste dei suoi clienti, anziché avere un secondo imprenditore che compra una nuova macchina e riparta da zero nella produzione del secondo gruppo di dieci cucchiai, sarà più conveniente che sia l’imprenditore che ha già quegli strumenti e quelle competenze ad aumentare da 10 a 20 il numero dei cucchiai prodotti in un giorno.

Con la spesa pubblica funziona un po’ allo stesso modo: è tendenzialmente più economico avere pochi centri di produzione di beni e servizi che funzionino ad alto regime, piuttosto che frammentare questi processi decisionali e produttivi in tante diverse aree del paese o in diversi settori della pubblica amministrazione. Perché così facendo le spese per il personale e per i dirigenti pubblici chiamati a occuparsi di quei processi aumentano, i tempi di decisione si allungano e il coordinamento tra le varie strutture si fa più difficoltoso.

Per questo Banca d’Italia esprime perplessità sull’effettiva convenienza di questo disegno di legge sull’autonomia differenziata per l’intero paese. Sono dubbi simili a quelli espressi, tra gli altri, dalla Commissione Europea nelle sue raccomandazioni all’Italia del maggio scorso. Scrive la Commissione: «Nel complesso, la riforma prevista dalla nuova legge quadro rischia di compromettere la capacità delle amministrazioni pubbliche di gestire la spesa pubblica, con un conseguente possibile impatto negativo sulla qualità delle finanze pubbliche dell’Italia e sulle disparità regionali».