Nell’economia della Toscana la farmaceutica è sempre più rilevante
Anche più di tessile e pelletteria, i due settori per cui la regione è tradizionalmente riconosciuta
di Francesco Gaeta

A Sesto Fiorentino, nella periferia nord di Firenze, la multinazionale farmaceutica statunitense Eli Lilly produce un’insulina che viene usata dai malati di diabete in sessanta paesi. Eli Lilly ha uno stabilimento in Toscana da più di mezzo secolo, e secondo il suo presidente per l’Italia Elias Khalil intende restarci a lungo, visto che ci sta investendo 750 milioni di euro, ma non è un caso isolato.
Negli ultimi anni infatti la Toscana è diventata un ambiente ideale per le aziende farmaceutiche, per almeno due motivi: perché ci sono tredici centri di ricerca sul farmaco e tre università molto competitive nelle aree di medicina, biologia, chimica farmaceutica; e perché si riesce a trasferire molta di questa ricerca alle imprese, cosa che non avviene facilmente in Italia, dove non sempre l’accademia ha molti punti di contatto con il mondo del lavoro.
Negli ultimi anni il comparto farmaceutico è diventato sempre più centrale nell’economia della Toscana. Nel 2024 le esportazioni di farmaci dalla regione hanno avuto un valore di 11 miliardi di euro (in crescita del 33 per cento rispetto al 2023), cioè superiore a quello di settori tradizionali come tessile e pelletteria, per i quali le aziende toscane sono note e apprezzate nel mondo. Per avere un termine di paragone più concreto, 11 miliardi costituiscono un quinto dell’intero export farmaceutico italiano.
L’export italiano è inoltre tutt’altro che trascurabile. Il settore farmaceutico oggi è una voce fondamentale del cosiddetto “made in Italy”, insieme a moda, meccanica e agroalimentare, e le esportazioni sono cresciute notevolmente negli ultimi anni. Questa crescita è principalmente sostenuta dalla Toscana, appunto, e dal Lazio, l’unica regione che esporta di più.
Nella farmaceutica toscana ci sono aziende che hanno storie molto diverse, per dimensioni e specializzazioni. C’è una prima fascia di imprese che gli specialisti chiamano “motrici”, cioè che in un determinato distretto fanno da traino alle altre. Oltre a Eli Lilly, c’è la britannica GSK, che a Siena ha un grosso stabilimento per produrre vaccini, e la Menarini, la più grande azienda farmaceutica italiana, che tra Firenze e Pisa lavora su alcuni dei farmaci oncologici più promettenti per il carcinoma al seno, i mielomi e alcune forme di leucemia. Queste tre imprese hanno fatturati miliardari, centri di ricerca e rapporti consolidati con le università di Pisa, Siena e Firenze. Nel tempo sono state capaci di spostarsi da aree di mercato più sicure ma sempre meno redditizie, come gli antibiotici o gli antidolorifici, ai trattamenti di patologie emergenti, come l’obesità, le malattie del sistema immunitario, quelle neurologiche e i tumori.
Tra le multinazionali c’è anche chi ha scelto di localizzare in Toscana solo un segmento della sua filiera. Il gruppo giapponese Takeda, che nel 2024 ha fatturato 25 miliardi di euro, a Pisa confeziona l’albumina, proteina usata per trattare diverse patologie del fegato. Qui trova più facilmente che altrove il personale giusto per le lavorazioni sterili, che sono fondamentali per quel confezionamento.
Tutti questi grossi gruppi scontano però un limite strutturale: la logistica. I flussi di distribuzione passano da Milano e Roma, dove la farmaceutica ha avuto storicamente un ruolo rilevante e dove esistono poli di logistica già strutturati. Per chi produce in Toscana questo significa costi più alti e tempi di spedizione più lunghi, con conseguenze sui farmaci più deperibili. Per risolvere il problema, nel 2018 era stato avviato il progetto di un hub logistico-digitale da realizzare a Guasticce, vicino a Livorno. Il progetto sarebbe costato circa 60 milioni di euro e avrebbe gestito i flussi farmaceutici da tutta la regione, in una collaborazione tra pubblico e privato che coinvolgeva aziende come Eli Lilly, Abiogen, Aboca, Molteni e Galenica Senese, insieme a operatori dei trasporti come DHL e Maersk.
Nel marzo 2024 però Eli Lilly, che da sola avrebbe garantito la metà delle operazioni, si è ritirata dal progetto e questo ha fatto saltare tutto quanto. La cosa ha anche avuto un seguito giudiziario, perché a fine 2024 un operatore logistico che avrebbe partecipato, cioè BCUBE, ha citato in giudizio le aziende produttrici per mancato rispetto di obblighi precontrattuali.
Oltre alle multinazionali, in Toscana ci sono alcune imprese familiari che multinazionali lo sono diventate di recente. La Kedrion, per esempio, è stata fondata dalla famiglia Marcucci e oggi è controllata da un fondo britannico e dal fondo sovrano di Abu Dhabi. Fa ricerca sui plasmaderivati, ottenuti dal plasma umano che è la parte liquida del sangue, e sui cosiddetti “farmaci orfani”, che curano malattie rare su cui l’industria farmaceutica di solito investe poco per via degli scarsi ritorni economici. Lo scorso anno l’azienda ha superato il miliardo e mezzo di fatturato, e ha aumentato del 40 per cento la spesa in investimenti.
L’aspetto peculiare del settore toscano è che molte imprese, di dimensioni di solito più ridotte ma ben radicate sul territorio, producono farmaci per altre aziende (“in conto terzi”) a cui magari mancano attrezzature adeguate, o che preferiscono ottimizzare tempi e costi. Quello che viene affidato a queste aziende è il collaudo produttivo, durante il quale per esempio si studiano purezza e composizione del principio attivo, e si avvia una produzione “pilota” in piccoli lotti. Per un’impresa farmaceutica di taglia media lavorare in conto terzi è un modo per ottimizzare l’utilizzo degli impianti e aggiungere fonti di ricavo alla produzione a marchio proprio. È la strada scelta da Abiogen, che a Pisa è specializzata in farmaci iniettabili per la terapia del dolore. Una porzione del suo fatturato, che nel 2024 è stato di 168,5 milioni, arriva da lì.
Secondo i ricercatori che hanno studiato il settore, il distretto toscano ha altre due particolarità: le imprese farmaceutiche hanno una dimensione elevata (205 addetti in media, contro i 190 del Lazio e i 145 della Lombardia) e c’è una bassa percentuale di start up. Tra questi due dati sembra esserci una relazione inversa, come se la presenza di aziende grandi e consolidate più che fare da traino ostacolasse la nascita di aziende più piccole. In realtà la spiegazione ha a che fare soprattutto con la finanza: gli investimenti per avviare una start up farmaceutica sono alti, e in Toscana il venture capital, cioè il capitale di rischio che finanzia chi non può offrire le garanzie richieste delle banche, è meno vivace rispetto a Lombardia e Lazio. In Toscana nascono meno imprese perché si fa fatica a finanziarle all’inizio.
Un impulso è arrivato di recente dal PNRR, con 110 milioni per rafforzare la ricerca applicata in campo farmacologico in regione. Per snellire le procedure di finanziamento, che con i fondi europei sono lunghe e complesse, è stato pensato un meccanismo di bandi definito “a cascata”, cioè il consorzio che gestisce tutto il finanziamento – si chiama Tuscany Health Ecosystem e vi partecipano le università toscane – lo divide pubblicando bandi di piccola taglia rivolti a start up, laboratori e aziende. I progetti selezionati poi ricevono contributi in tempi rapidi, e richiedono una rendicontazione limitata al singolo progetto.

Lo stabilimento GSK a Rosia, in provincia di Siena, dove si producono vaccini (GSK)
Un’altra cosa fatta per favorire la nascita di nuove imprese è stata rafforzare i “facilitatori di rete”. Sono quei soggetti che collegano imprese e università e consentono a chi fa ricerca di base di farla diventare ricerca industriale. La Fondazione Toscana Life Sciences, fondata per iniziativa della Regione, è un esempio. Nel suo campus a Siena offre laboratori e servizi per lo sviluppo di farmaci, vaccini e diagnostica. Oggi gestisce 21 progetti di ricerca con finanziamenti europei per 27 milioni di euro. In circa 20 anni sono nate alcune start up che oggi sono parte stabile del distretto.
Tra queste c’è VisMederi, che venne fondata nel 2009 da un gruppo di ricercatori senesi e in cui oggi lavorano 250 persone: è uno dei principali laboratori europei nel controllo di qualità dei vaccini e l’anno scorso ha avviato una nuova struttura di ricerca a Colle Val d’Elsa, in provincia di Siena. Un altro caso è Exosomics, start up attiva nella diagnostica oncologica avanzata che è stata di recente rilevata dalla multinazionale Lonza: sviluppa test basati sugli esosomi, minuscole vescicole rilasciate dalle cellule e utili per identificare tumori molto precocemente.
Secondo Farmindustria, l’organizzazione che raggruppa le aziende del settore, nelle imprese farmaceutiche toscane lavorano circa 8.000 persone. A queste se ne aggiungono altre 9.400 nell’indotto, cioè nei servizi e nelle attività complementari, dalla manutenzione dei macchinari al trasporto.
Spesso sono aziende molto avanzate sul piano tecnologico, specialmente quelle che si occupano di confezionare i farmaci, pratica che negli ultimi anni è molto cambiata. Per decenni le aziende avevano mandato i lotti finiti in grandi magazzini centralizzati, dove avvenivano etichettatura, riempimento e preparazione finale per la distribuzione. Oggi ci si sta orientando invece su soluzioni più vicine ai luoghi di produzione, perché i nuovi farmaci biologici, ottenuti a partire da organismi viventi (cellule, batteri, lieviti) o dai loro prodotti invece che da sintesi chimica tradizionale, devono arrivare sul mercato in tempi più rapidi. Servono cioè macchinari più flessibili, in grado di lavorare su formati differenti e adattarsi a una domanda più variabile. È l’esigenza da cui è nata per esempio Pharma Integration, un’azienda con sede a Siena che progetta e realizza sistemi di packaging robotizzati e modulabili, pensati per stare dentro o accanto agli stabilimenti di produzione.



