Nostalgie di un telefonatore fisso
Dicono che i cellulari ci hanno cambiato il cervello, ma soprattutto hanno spazzato via trepidanti attese, risposte insperate e infinite chiacchiere

Da qualche anno mi sono intestardito a vivere in campagna, dove un’antipatica triangolazione rende la ricezione dei cellulari parecchio loffia. Per sperare di non perdere la linea devo schiacciarmi contro i vetri di porte o finestre, o uscire in terrazza. In estate, o con il bel tempo, non è mai un problema, ma lascio immaginare quando piove, o negli invernali giorni di tramontana. In ogni caso, anche in terrazza, il segnale salta: talvolta così, perché decide di perdere un paio di tacche; talvolta invece perché, arbitrariamente, passa dal 4G al vecchio GSM.
Per evitare questa serie di fastidi ho, nel corso degli anni, continuato a usare la rete fissa. Man mano che le linee fisse cadevano in disuso e le poche superstiti venivano occupate da seccatori pubblicitari, ricevere una telefonata è diventato sempre più fastidioso, per non dire snervante quando vedevi arrivare il messaggio della telefonata mancata, o perfino infuriante quando quel messaggio arrivava due o tre giorni dopo.
La procedura era dunque diventata la seguente: fissare un’ora e avvertire che avrei chiamato io previa condivisione del numero, o rispondere appiccicandomi al vetro e dire a chiunque mi stesse chiamando che avrei richiamato subito dal fisso. In uscita invece – tranne quella manciata di santi che si erano segnati i miei vari numeri fissi, cambiati non poche volte per le mancanze di diversi operatori telefonici e facendomi assomigliare a Dick di Provaci ancora, Sam – chiamavo, non mi veniva risposto, mandavo un messaggio dicendo che ero io, aspettavo l’«ah, ok», o l’emoji con il sorriso, e finalmente richiamavo. Anche il tono nelle risposte è costantemente mutato: dal buon vecchio “pronto”, diverso per ognuno di noi, ma, per così dire, aperto, a una sua versione più sospettosa, al non rispondere affatto o con l’aria già decisamente scocciata.
Poi, qualche mese fa, è apparsa sullo schermo del cellulare – in alto a sinistra, tra l’operatore e il ventaglio del segnale internet – una minuscola scritta bianca: WiFiCall. Avrei forse immaginato qualcosa di più roboante, o romantico, per l’ennesimo grande addio della mia esistenza. Lo devo ammettere: in un primo momento ho accolto la comparsa della scritta con gioia, e per qualche giorno ho chiamato un sacco di persone, godendomi il lusso, mentre parlavo, di camminare in giro per casa o farmi un caffè.
Fin quando più di recente, un pomeriggio, seduto nel mio studio tentando di trovare una posizione comoda per tenere all’orecchio questo noioso parallelepipedo che ci portiamo sempre dietro, mi è cascato l’occhio sulla cornetta del telefono che riposava in un angolo della mia scrivania, già coperta da un lieve velo di polvere, e ho capito che, nell’eccitazione per il nuovo prodigio tecnologico, non mi ero reso conto di perdere uno dei più importanti compagni della mia vita.
C’è un quadretto a cui sono molto affezionato, e che mia mamma tiene nel suo studio: mi ritrae a tre anni, la testa che supera di poco il ripiano della scrivania che tenevamo in cucina. Indosso un pigiama bianco, con sul petto due stilizzate figure blu che camminano lungo un sentiero, ai piedi ho due buffi mocassini imbottiti di pelliccia. Il sopra del pigiama è infilato nei suoi pantaloni, come per qualche ragione usavo fare. Ho un gomito appoggiato sul ripiano in legno della scrivania, con l’altra mano tengo all’orecchio la cornetta di un telefono grigio a disco della SIP. Chissà con chi parlavo. Ciò di cui non mi ero mai reso conto è quanto quel quadretto fosse la profezia di un destino.

Ritratto di Pietro Grossi bambino (foto di Pietro Grossi adulto) (dipinto di Marnie Nidiaci)
Ho adorato tutto, dello stare al telefono. Adoravo tenere la cornetta incastrata tra orecchio e spalla, adoravo scarabocchiare mentre ascoltavo, adoravo mettere i piedi sul tavolo, giocare con il filo seduto sul divano. Adoravo passare improvvisamente da un discorso all’altro, fare facce che nessuno avrebbe visto, esultare in silenzio quando ricevevo una bella notizia, fare segreti passi di danza quando mi sentivo innamorato, o non dovermi preoccupare troppo della mia espressione quando invece andavo incontro a una delusione.
Ripensandoci, credo che proprio questo ho amato così tanto dello stare al telefono: la riduzione delle varianti. O dell’esposizione, mettiamola come ci pare. Non dovermi preoccupare del pericoloso carosello di gesti, facce, sguardi, movimenti. Sarà che sono sempre stato affascinato dalle parole, e dai dialoghi, ma ecco tutto ciò di cui ci si doveva preoccupare, al telefono: le parole. Tutt’al più, anche, toni e volume. Niente occhiate, niente gesti inconsulti da mascherare, nessun preoccupante tic nervoso. Potevi permetterti tutto, al riparo della tua stanza: dall’altra parte sarebbe arrivato soltanto il distillato delle tue parole.
Non credo che finiranno per essere molte, le cose della vita di cui potrò dire di aver sperimentato quasi tutto. Il telefono fisso sarà una di queste. Sì, è vero, è stato inventato e sviluppato nella seconda metà dell’Ottocento, prima da Meucci poi da Bell, ma diciamocelo: da quando ha preso a infilarsi nelle nostre case al giorno in cui mia mamma ha scattato la foto del mio quadretto non è che ci fossero state chissà quali evoluzioni. Il primo grande salto fu passare dalla manovella per il centralino al cosiddetto disco combinatore. Questa epocale svolta delle telecomunicazioni impiegò ben trent’anni a realizzarsi, e risale ai primi del Novecento, gli anni del primo telefono a disco, il sistema Strowger della Automatic Electric di Chicago, inventato da Almon Strowger. Ecco, quando ho detto che del telefono ho sperimentato quasi tutto, intendevo questo: il quasi riguarda soltanto la manovella.
Per la gag di uno spettacolo a teatro l’ho un paio di anni fa ripreso in mano, uno dei telefoni grigi della SIP con cui sono cresciuto. Non sono riuscito a resistere: ho fatto subito il numero di mia nonna, nella casa dove abitava quando ero piccolo. La scansione dei ticchettii del disco, la particolare composizione di quelli rapidi del colpo del dito e quelli più lenti del ritorno in posizione, mi hanno catapultato immediatamente indietro nel tempo, e mi sono domandato se mi avrebbe risposto Laura, la nostra amata tata. Una sensazione talmente nitida, e talmente specifica, che se avessi abbastanza talento, e non lo avessero già fatto, proverei a scriverci una lunga opera sulla ricerca del tempo perduto.
Ma non è l’unico distillato che la linea fissa del telefono mi ha regalato. Ogni volta che si parla di nostalgia mi viene in mente la sera in cui, a un centro estivo, a undici anni, finii il sacchetto di gettoni mentre ero al telefono con mia mamma. Mi divertivo, a quei centri estivi: conobbi amici che mi stanno ancora accanto, ragazzine che avrei per anni tentato vanamente di conquistare. Eppure, l’improvviso troncarsi della conversazione con mia madre abbatté su di me un tale senso di paura e sconforto che dovetti correre al bagno per non farmi beccare a singhiozzare.
E il senso di trepidazione per la telefonata che aspettavi dalla tua cotta, il compulsivo alzare la cornetta per essere sicuro che la linea funzionasse, poi la frustrazione per la certezza che avesse chiamato proprio mentre avevi occupato la linea alzando la cornetta; la furente rabbia verso le mie sorelle quando aspettavi una di quelle telefonate e non chiudevano l’ennesima conversazione fiume con la loro compagna di classe, o con il fidanzato. Li dovevi premere uno per uno, i numeri di quei fidanzati, di quelle fidanzate.
Io ricordo ancora quello del mio primo amore, a tredici anni, di Milano. Erano otto numeri più il prefisso, già per questo mi pareva di aver conquistato un pezzo d’Europa. Non li recito qui per ovvi motivi. Sapevi che tenevi a qualcuno perché ricordavi il loro numero, sai che erano importanti perché li ricordi ancora oggi. E di quelli che non ricordavi tenevi una rubrica, cioè la tenevano i tuoi: con gli angoli spiegazzati, i numeri scritti a matita e spesso cancellati, quelli più importanti o di emergenza sull’interno della copertina. E chissenefrega se quando eri fuori il telefono non ce l’avevi: eri libero, e c’erano le cabine. Gialle, poi rosse. Quante volte ci hanno riparato dalla pioggia? Quanto ci abbiamo limonato dentro?
I gettoni, le duecento lire, le schede di plastica a cui staccavi l’angolo. I dolori allo stomaco per le risate degli scherzi al telefono, le ore passate sugli elenchi a studiare i più assurdi cognomi (non li riportiamo qui per rispetto dei loro proprietari, ma alcuni ti facevano domandare che razza di genitori avessero questi disgraziati per meritarsi l’abbinamento di quel nome con quel particolare cognome).
Che straordinario guazzabuglio di umanità erano, gli elenchi telefonici? E i primi cordless: il nostro era molto elegante, della General Electric, aveva il retro di finto legno, e un’antenna che pareva un CB. Ricordo ancora l’eccitazione del giorno in cui, sotto suggerimento di un nostro amico, potemmo cambiare il piccolo selezionatore sul fianco: smettere improvvisamente di sentire il lento ticchettio della selezione dei numeri e il nuovo, fantastico ventaglio di suoni dei dieci numeri, che sembravano proiettarti come un’astronave nel futuro, ma che anche, come sempre, ti imbambolavano, e ti impedivano di notare tutto ciò che avresti abbandonato.
Con quella cornetta attaccata all’orecchio ho pianto, ho riso, ho imparato a conoscere e qualche volta conquistato i miei più grandi amori, ho ricevuto le più importanti notizie e le più amare delusioni. Ho consolato, mi sono fatto consolare, ho ascoltato, mi sono fatto ascoltare, ho discusso, ho litigato, ho fatto pace, ho chiesto scusa. Ho amato. Dio, quanto ho amato per telefono. Ma, più di tutto, mi sono per ore calato in quel meraviglioso pasticcio di battute, risate, sfoghi, pensieri che chiamiamo chiacchierare.
Ecco ciò di cui finisco per sentire più la mancanza. Soprattutto al telefono. Non chiacchieriamo più. O chiacchieriamo molto meno. Ed ecco perché in tutto questo mio breve amarcord ho parlato al passato. Anche con i miei più strenui e cocciuti conversatori telefonici ho notato che ormai di rado allunghiamo la conversazione oltre qualche minuto. È come se le parole non ci bastassero più, e anche il tempo. A me però piacevano parecchio tutti e due.












