Lo sport è sempre stato un mezzo per altri fini
È così da millenni, ma solo da una decina d'anni si è diffuso il termine sportwashing: che a molti non piace, perché troppo generico e parziale
di Valerio Moggia

Da qualche anno la parola sportwashing è usata sempre più spesso in riferimento all’uso dello sport da parte di governi autoritari. Si parlò di sportwashing a proposito dei Mondiali di calcio in Qatar del 2022, se ne è parlato dopo l’assegnazione all’Arabia Saudita di quelli del 2034 e, più di recente, per contestare la squadra di ciclismo Israel Premier-Tech. Il termine sportwashing rappresenta un concetto antico ma esiste da circa dieci anni: prima usato in ambito accademico e poi anche altrove. E il suo uso è spesso problematico, perché tende a essere a volte generico e a volte troppo selettivo.
In breve, lo sportwashing (che sui media anglosassoni è spesso scritto sportswashing) è l’insieme delle strategie con cui i governi autoritari cercano di sfruttare lo sport per ricavarne un ritorno d’immagine positivo a livello internazionale. Il termine esiste dal 2015, quando venne usato per la prima volta da Rebecca Vincent, un’attivista della campagna Sport for Rights. Vincent lo usò per denunciare l’organizzazione dei primi Giochi Europei (una versione continentale delle Olimpiadi) da parte dell’Azerbaijan.
Il regime dittatoriale di Ilham Aliyev puntava molto sull’evento per aumentare la visibilità internazionale dell’Azerbaijan, presentandolo come un paese moderno e ordinato. Per l’occasione fu costruito uno stadio da 70mila posti nella capitale Baku, che in seguito ha ospitato gli Europei di calcio Under-17 del 2016, la finale di Europa League del 2019, e quattro partite degli Europei di calcio del 2021.
Il termine sportwashing è nato come un calco di altri termini simili usati nell’ambito dell’attivismo politico, come greenwashing, pinkwashing o rainbow-washing. Termini in genere usati per parlare di come si cerchi – spesso con azioni di facciata – di mostrarsi attenti a certi temi: nel caso del greenwashing, i temi green, ambientali. Sono quasi sempre termini ideati e diffusi tra gli attivisti, che sono poi entrati nel gergo giornalistico. A differenza di queste altre espressioni, e seppur con qualche eccezione, lo sportwashing non riguarda aziende private, bensì stati e governi.
Se il termine è moderno, il concetto è senza dubbio molto più antico. I Mondiali di calcio del 1978, giocati nell’Argentina della giunta militare e dei desaparecidos, e i Giochi Olimpici di Berlino 1936, organizzati dalla Germania nazista, sono spesso citati come esempi di sportwashing ante litteram. Nel 2022 lo storico Paul Christensen spiegò che qualcosa di simile avveniva addirittura già nell’Antica Grecia: nel 416 a.C. l’ateniese Alcibiade investì per esempio grandi somme di denaro per far competere diversi carri ateniesi nelle corse dei Giochi Olimpici, ottenendo un primo, un secondo e un quarto posto. Quella mossa servì a dimostrare la forza e la prosperità di Atene durante una fase critica della Guerra del Peloponneso.

Adolf Hitler alle Olimpiadi di Berlino del 1936 (AP Photo)
Tornando a questo secolo, oltre che da parte degli attivisti e dei giornalisti il termine sportwashing è stato usato, discusso e criticato anche in contesti accademici: alcuni studiosi invitano a usare molta cautela; altri sono proprio contrari al suo utilizzo. Nicola Sbetti, storico dello sport e ricercatore in Storia contemporanea all’Università di Bologna, lo ritiene «totalmente inaccettabile» in ambito accademico. Secondo Sbetti la definizione di sportwashing è connessa a un giudizio morale negativo nei confronti dell’uso che un governo, in genere autoritario, fa dello sport, e pertanto «non ha senso utilizzarla in ambito accademico, dove si cerca di capire e descrivere la realtà, non di giudicarla e piegarla a interessi politici».
Sbetti aveva già affrontato questo argomento in un articolo pubblicato nel 2022 su The Sport Light, in cui evidenziava la connotazione etnocentrica del concetto di sportwashing. Basta osservare in quali paesi si fa ricorso a questa parola (principalmente quelli occidentali) e verso quali altri paesi è riferita. È molto difficile, per esempio, sentirla nei confronti degli Stati Uniti di Donald Trump, sebbene il recente Mondiale per Club di calcio abbia mostrato un chiaro uso propagandistico dello sport.

Donald Trump, in mezzo ai giocatori del Chelsea, il 13 luglio 2025 a Rutherford, New Jersey, Stati Uniti (Chris Brunskill/Fantasista/Getty Images)
A gennaio il portale brasiliano Copa Alem da Copa, focalizzato sugli intrecci tra sport e politica, si domandava se non si potesse parlare di sportwashing anche nel caso della Norvegia. Il paese scandinavo sta vivendo una grande crescita negli sport, non più solo in quelli invernali, ma anche nel calcio maschile, nel tennis (con Casper Ruud) e negli scacchi (grazie a Magnus Carlsen). È per gran parte la conseguenza di importanti investimenti nello sport, finanziati dal fondo sovrano norvegese, uno dei più ricchi al mondo grazie ai proventi del petrolio e del gas naturale.
Anche la vicinanza personale tra il calciatore Mesut Özil e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sui media occidentali è stata giudicata con toni molto più critici rispetto all’amicizia tra il calciatore Kylian Mbappé e il presidente francese Emmanuel Macron, sebbene entrambe abbiano comportato un simile ritorno d’immagine positivo per i due politici.
Sbetti spiega che chi usa il termine sportwashing in genere «si pone in una posizione di superiorità morale» e «finisce per favorire una visione manichea del mondo, mentre nello sport non ci sono solo “buoni” o “cattivi”, ma anche molte zone grigie».
C’è però chi ha provato a definire con maggiore precisione cosa sia lo sportwashing da una prospettiva accademica. Già nel 2022 il professore della Pacific University Jules Boykoff parlò per esempio della differenza tra lo sportwashing e il concetto di soft power, che nel 2004 il politologo statunitense Joseph Nye definì come «far desiderare agli altri ciò che tu desideri». Più antico e diffuso rispetto a sportwashing, soft power è un termine anche molto più ampio, legato alle attività e alle scelte culturali, economiche e politiche di uno stato. Secondo Boykoff, una grande differenza è che lo sportwashing è spesso rivolto anche ai propri cittadini, mentre il (o la) soft power guarda solo all’estero.
Più di recente questo punto è stato ripreso anche da Simon Chadwick, professore di Eurasian Sport Industry presso la EmLyon Business School. Nella sua newsletter GeoSport, Chadwick ha scritto che lo sportwashing è «una storia che i paesi raccontano ai propri cittadini come strumento di distrazione o sottomissione».
Secondo il ricercatore danese Stanis Elsborg, però, a causa di eccessive semplificazioni e generalizzazioni non si riesce «a cogliere la complessità delle politiche sportive molto sofisticate di molti regimi autoritari». Ciò che viene chiamato sportwashing non serve più solo a distrarre l’opinione pubblica, interna o esterna, rispetto alle violazioni dei diritti umani da parte di un paese, ma può perseguire scopi ben più ampi e complessi.
Lo dimostra bene il progetto Vision 2030 dell’Arabia Saudita, che coinvolge numerosi obiettivi che vanno al di là di quelli di una semplice propaganda. In primo luogo l’emancipazione della propria economia dalla produzione di petrolio; ma anche la costruzione di un senso di identità nazionale condiviso, lo sviluppo urbano e infrastrutturale al di fuori delle poche grandi città attuali, e la modernizzazione sociale, soprattutto per favorire le giovani generazioni (il 63% della popolazione saudita ha meno di 30 anni).
«Si vuole utilizzare a tutti i costi l’espressione sportwashing per descrivere un fenomeno complesso come l’uso politico dello sport, che ha mille sfaccettature» dice ancora Sbetti, che spiega come l’uso politico dello sport sia, di per sé, un concetto neutro, che di conseguenza accomuna sia i governi autoritari che quelli democratici. Quel che cambia sono gli scopi a cui si rivolge. Il Mondiale di rugby, organizzato in Sudafrica nel 1995, fu usato da Nelson Mandela come strumento di riconciliazione nazionale dopo la fine del lungo regime dell’apartheid, e ancora oggi è ricordato e celebrato come un importante e nobile uso dello sport per fini più grandi. L’uso politico dello sport è simile a quello dietro i Mondiali in Qatar del 2022, quel che cambiano sono gli obiettivi.

Il presidente sudafricano Nelson Mandela e Francois Pienaar, capitano della nazionale sudafricana di rugby, nel 1995 in Sudafrica (Media24/Gallo Images/Getty Images)



