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  • Martedì 14 ottobre 2025

La repressione di Hamas contro i clan ribelli a Gaza

Ci sono state fucilazioni e gambizzazioni per sottomettere i possibili rivali per il controllo della Striscia

di Daniele Raineri

Uomini di Hamas a Khan Yunis, mentre scortano gli autobus con i prigionieri palestinesi liberati dalle prigioni israeliane, 13 ottobre
(AP Photo/Jehad Alshrafi)
Uomini di Hamas a Khan Yunis, mentre scortano gli autobus con i prigionieri palestinesi liberati dalle prigioni israeliane, 13 ottobre (AP Photo/Jehad Alshrafi)
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Lunedì Hamas ha costretto sette prigionieri palestinesi a inginocchiarsi e li ha fucilati davanti a una piccola folla. Il gruppo armato palestinese ha annunciato che ci saranno altre esecuzioni. La rappresaglia, che è stata filmata da alcuni spettatori, fa parte di una serie di operazioni che Hamas ha cominciato per eliminare o sottomettere alcune grandi famiglie palestinesi e alcune milizie rivali più piccole e nate di recente nella Striscia di Gaza.

Le famiglie – come la al Majaida, che vive nel quartiere chiamato appunto al Majaida a Khan Yunis (nel sud della Striscia), oppure la Dughmush nella città di Gaza (a nord) – possono contare centinaia di persone. Gli uomini sono armati, sono fedeli al legame clanico tra loro e spesso mal tollerano Hamas, che interferisce con i loro affari. Avevano anche legami con Fatah, il partito palestinese rivale di Hamas. Nel 2007 i miliziani di Fatah furono cacciati dalla Striscia di Gaza oppure uccisi da Hamas.

Lo screenshot di un video che mostra l’esecuzione di lunedì

Famiglie rivali e milizie sono diventate un potere alternativo a quello di Hamas in alcune zone della Striscia di Gaza, sfruttando il caos creato da due anni di bombardamenti israeliani devastanti. Hanno anche organizzato piccole parate militari per farsi pubblicità. Qui la tribù Tarabin a Rafah il 29 settembre, qui le «Forze del nord dell’esercito del popolo» il 4 ottobre e qui la famiglia Abu Zaid, nel centro della Striscia, che il 26 giugno minacciava Hamas dopo l’uccisione di un loro membro.

Hamas considera queste forze palestinesi una minaccia, soprattutto adesso che fra i venti punti del piano di pace del presidente americano Donald Trump si parla anche del disarmo di Hamas e del fatto che Hamas non farà parte del futuro governo di Gaza, dopo vent’anni di dominio incontrastato. 

Hamas accusa i gruppi ribelli di essere formati da collaborazionisti di Israele. Mentre può essere vero per alcuni, come la milizia di Yasser Abu Shabab, è possibile che l’accusa infamante di essere collaborazionisti sia un modo spiccio per giustificare la repressione di chi prova a resistere. 

Le esecuzioni compiute da Hamas in pubblico non sono una novità. Il 22 settembre era uscito il video della fucilazione, sempre in ginocchio, di tre palestinesi. Quest’anno sui social sono stati pubblicati numerosi video di miliziani di Hamas che gambizzano persone. Gambizzare è un verbo che risale agli anni del terrorismo in Italia, vuol dire sparare alle gambe. C’è un’unità specializzata del gruppo palestinese, la Sahem, che in arabo vuol dire “freccia”, che dà la caccia ai palestinesi che collaborano con Israele oppure che si ribellano all’autorità di Hamas e si occupa di queste operazioni.

Lo screenshot di un video di una gambizzazione, pochi giorni fa

Ad agosto, sostiene la ricostruzione fatta dal giornale arabo Asharq al Awsat, Hamas ha ferito un uomo della famiglia al Majaida. Il clan ha risposto con il sequestro di due miliziani di Hamas: uno era la ex guardia del corpo del leader Yahya Sinwar, ucciso da Israele nell’ottobre del 2024 (a proposito di Sinwar: anche lui finì in un carcere israeliano per l’omicidio di quattro palestinesi accusati di essere collaborazionisti). Da lì è nata una faida, con rapimenti e uccisioni, culminata venerdì 3 ottobre in una spedizione punitiva di Hamas. Il gruppo palestinese stava facendo irruzione in forze nelle case della famiglia, ma un drone israeliano ha notato i movimenti, ha bombardato i miliziani e secondo fonti locali ne ha uccisi diciannove. 

Lunedì la famiglia al Majaida, forse persuasa dal video della fucilazione in piazza, ha scritto un comunicato di resa per dire che «ogni arma non diretta contro l’occupazione», quindi contro Israele, è un’arma sprecata e che quindi per senso di responsabilità consegna tutte le sue armi alle forze di sicurezza, quindi Hamas, e dichiara il proprio sostegno al governo di Gaza, che è sempre Hamas. 

Anche la milizia di Yasser Abu Shabab, che aveva creato un’enclave nella zona di Rafah, nel sud, sarebbe assediata oppure già sciolta, secondo voci che però non possono essere ancora confermate.

L’11 ottobre Hamas ha cominciato un’altra operazione contro il clan Dughmush. Questa volta contava sul fatto che era già cominciato il cessate il fuoco e quindi non ci sarebbero stati bombardamenti israeliani. Aveva già ucciso uno dei capi del clan a marzo del 2024, per rafforzare il suo controllo sulla Striscia. Uno dei Dughmush sostiene che a settembre prima di invadere la città di Gaza gli israeliani avevano offerto al clan Dughmush di restare, invece che evacuare come tutti gli altri palestinesi, e di formare una milizia locale anti Hamas. Ma il clan aveva rifiutato. Piuttosto che collaborare con gli israeliani, aveva detto, è meglio dormire per strada. 

Sabato gli uomini di Hamas si sono avvicinati alle case del clan Dughmush nel quartiere al Sabra di Gaza a bordo di alcune ambulanze per non farsi scoprire e hanno ucciso venticinque uomini, alcuni che non c’entravano nulla e avevano solo il cognome Dughmush, secondo la denuncia del clan postata su Facebook. Il clan accusa Hamas di avere usato anche i mortai e i cecchini sui tetti, che hanno trasformato le case «in tombe». I sette che sono stati portati in piazza e fucilati erano stati convinti a consegnarsi, secondo una fonte del clan che denuncia Hamas su Facebook, con la promessa che non sarebbero stati uccisi. 

Lunedì il clan ha pubblicato il comunicato mostrato qui sotto e che in sintesi è un atto di resa.

Afferma che centinaia di uomini Dughmush sono stati uccisi dagli israeliani, quindi respinge l’accusa di lavorare per Israele, e cerca di ridurre lo scontro con Hamas a una disputa fra individui. Inoltre dice di non avere nulla a che fare con la morte del giornalista Saleh al Jafarawi, ucciso due giorni fa in una sparatoria mentre era assieme a un gruppo di miliziani di Hamas. Accusa alcuni capi di Hamas di essere feroci e di usare la scusa del tradimento filoisraeliano per dei regolamenti di conti che non c’entrano con la causa palestinese. E però ribadisce il sostegno «all’onorevole resistenza», che è un modo per dire: ci sottomettiamo.