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  • Mercoledì 24 settembre 2025

L’economia della Cina va bene o va male?

Si parla con sempre più meraviglia della sua tecnologia e delle sue auto elettriche, ma i dati raccontano una storia diversa

Persone in moto a Pechino nel 2022
Persone in moto a Pechino nel 2022 (AP Photo/Andy Wong)
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A scorrere i social media e i mezzi di informazione, sembra che esistano due versioni diametralmente opposte della Cina. Una è quella proiettata verso il futuro delle automobili elettriche, dei grattacieli illuminati a led, delle megalopoli, dei droni e dei treni ad alta velocità. È una Cina capace di costruire infrastrutture imponenti e di fornire – almeno ai propri cittadini più benestanti e urbani, che comunque sono centinaia di milioni – servizi che rivaleggiano o in alcuni casi superano quelli di cui gode chi vive in Occidente.

L’altra Cina è quella dei dati economici sempre più deludenti. Nel 2024 il paese ha avuto una crescita del PIL del 5 per cento, la più bassa da decenni se si esclude il periodo della pandemia da coronavirus. Se guardiamo per esempio ai dati di agosto, più o meno tutti gli indicatori economici, dalle vendite al dettaglio ai prezzi alle esportazioni, sono cresciuti meno di quanto atteso. La disoccupazione giovanile è al 18,9 per cento, il dato più alto da quando, l’anno scorso, il governo cambiò il metodo di calcolo per ottenere percentuali più positive.

Queste due immagini della Cina sembrano in contraddizione fra di loro, ma sono invece il risultato di alcune scelte precise fatte dalla leadership del Partito Comunista, che sta portando avanti una transizione economica epocale e dai risultati ancora incerti, che amplifica le contraddizioni che ci sembra di vedere.

– Ascolta Globo: Guiderai un’auto cinese

La transizione è resa necessaria dal fatto che il modello di crescita che la Cina aveva adottato dagli anni Ottanta e che aveva reso possibile il “miracolo economico cinese” degli ultimi decenni è entrato in crisi. Questa crisi era stata ampiamente prevista. Già nel 2007 l’allora primo ministro Wen Jiabao diceva che l’economia cinese era «instabile, sbilanciata, scoordinata e insostenibile».

Gli economisti, sia dentro sia fuori dalla Cina, sono generalmente concordi su quali misure dovrebbero essere adottate per far svoltare l’economia, e su quale tipo di transizione dovrebbe essere messa in atto. Lo stesso presidente Xi Jinping sa piuttosto bene che cosa dovrebbe fare per superare le difficoltà economiche del suo paese.

Ma quello che Xi dovrebbe fare è molto diverso da quello che vuole fare.

Xi Jinping nel 2022

Xi Jinping nel 2022 (AP Photo/Mark Schiefelbein)

Cosa dovrebbe fare
Semplificando, dopo decenni di crescita eccezionale, spesso sopra il 10 per cento all’anno, la Cina è arrivata a un momento di rallentamento. Questo è in parte fisiologico, perché tutti i paesi rallentano la crescita dopo aver raggiunto un certo livello di sviluppo, e in parte è provocato da fattori esterni ed errori di pianificazione economica.

Il più grande è stato la crisi immobiliare, cominciata nel 2021. La bolla scoppiò dopo che per anni le banche di stato e i governi locali avevano finanziato e sostenuto una speculazione immobiliare esagerata, che aveva spinto le aziende di sviluppo immobiliare e i compratori a indebitarsi eccessivamente. Quando queste grandi aziende non erano più riuscite a ripagare i propri debiti, tutto il mercato era crollato, con gravi perdite per milioni di persone. Il governo ha messo in atto varie misure per risanare il settore, ma l’economia risente ancora del crollo. Dal 2021 i prezzi delle case sono in calo e il settore immobiliare, che nei primi anni Duemila era arrivato a contribuire a un terzo della crescita totale del PIL, oggi è un fattore di rallentamento dell’economia.

Più in generale, ormai da tempo è diventato chiaro che, come diceva Wen Jiabao, il modello di crescita della Cina è insostenibile. Finora il motore della crescita sono sempre stati gli investimenti, sia pubblici sia privati, come quelli nel settore immobiliare. Questo è normale per i paesi in via di sviluppo, dove il grosso della crescita viene dalla costruzione di nuove fabbriche, nuovi edifici, nuove infrastrutture: il paese deve essere costruito, e questo richiede appunto investimenti.

Nelle economie mature, dove il paese è già stato costruito, il grosso della crescita arriva dai consumi privati interni, cioè dalle persone che comprano beni e servizi. I consumi costituiscono oltre il 70 per cento del PIL degli Stati Uniti, il 60 per cento di quello dell’Italia e della Polonia, il 55 per cento di quello della Germania e della Francia. Questi numeri sono indicatori di un livello di benessere diffuso. In Cina, invece, i consumi sono il 37 per cento del PIL.

Per anni la maggior parte degli economisti, sia fuori sia dentro la Cina, aveva dato per scontato che siccome la crescita generata dagli investimenti stava rallentando, il paese avrebbe dovuto sostituirla con quella generata dai consumi privati, cambiando il suo sistema economico di conseguenza.

Quando Xi Jinping fu nominato leader del Partito Comunista nel 2012 e presidente della Cina nel 2013, tutti diedero per scontato che sarebbe stato lui a guidare questa transizione. Già di per sé sarebbe stato piuttosto complicato, perché storicamente sono ben pochi i paesi che sono riusciti a passare da un modello all’altro senza cadere nella cosiddetta “trappola del reddito medio” (semplificando, è la situazione in cui un paese, arrivato a un certo livello di reddito, entra in una fase di stagnazione).

Negli ultimi anni, però, sembra che Xi Jinping abbia cambiato idea.

L'Auto show di Shanghai, 2021

L’Auto Show di Shanghai, 2021 (AP Photo/Ng Han Guan)

Cosa vuole fare
Secondo le interpretazioni più accreditate, Xi Jinping ha deciso che le priorità della Cina devono essere altre. Il presidente cinese è convinto che il percorso economico seguito dall’Occidente abbia portato a società deboli, divise e deindustrializzate, troppo basate sulla finanza e dipendenti dal commercio con l’estero per la propria sopravvivenza.

Xi Jinping ha invece un obiettivo storico e politico: trasformare la Cina in un paese capace di gareggiare, ed eventualmente prevalere, nella competizione epocale con gli Stati Uniti. È disposto a farlo anche a costo di provocare storture nell’economia, e anche a discapito della prosperità immediata del paese e dei suoi cittadini.

Il modello di crescita voluto da Xi si basa sulle «nuove forze produttive di qualità», un’espressione che circola ormai da qualche anno e che descrive le industrie tecnologicamente avanzate che la Cina ritiene strategiche per il futuro, come l’intelligenza artificiale, le automobili elettriche, i pannelli solari, le tecnologie per la transizione energetica, i droni, le biotecnologie e così via.

Per Xi le «nuove forze produttive di qualità», e non i consumi, devono diventare il motore della crescita economica cinese. Per questo anziché ridurre gli investimenti, la Cina li ha aumentati. Anziché limitare gradualmente l’importanza della manifattura in favore dei servizi, ha continuato a dare impulso alle proprie industrie.

Questo ha generato anzitutto un problema di sovrapproduzione: stimolate dagli incentivi e dalle pressioni politiche, le industrie hanno prodotto molti più beni di quelli che il mercato (i cui consumi sono depressi) è in grado di assorbire. Nella speranza di disfarsi della produzione in eccesso, e di conquistare maggiori quote di mercato, alcune aziende hanno abbassato i prezzi, competendo tra loro per il prezzo più basso. Questo fenomeno lo si vede molto bene nel settore delle automobili elettriche, dove è in corso una “guerra dei prezzi”: i principali produttori vendono le auto a margini ridottissimi, o perfino in perdita, in una competizione che ha costretto decine di aziende a chiudere e a licenziare i propri dipendenti.

La “guerra dei prezzi” ha contribuito a un’eccezionale diffusione dei veicoli elettrici o ibridi, che nel 2024 sono stati circa la metà di tutti i veicoli venduti nel paese. Soprattutto nelle città più ricche le auto elettriche sono la maggioranza, e i visitatori europei e americani si stupiscono di quanto le strade siano diventate più silenziose ora che le auto con motore a scoppio sono rare. Ma al tempo stesso il fatto che molte aziende operino in perdita e altre abbiano chiuso è un peso per la crescita economica generale.

Per far fronte alla sovrapproduzione altre aziende hanno puntato sulle esportazioni, per spostare sul mercato estero quello che i consumi interni non riescono ad assorbire. Davanti al rischio di essere inondati da beni cinesi prodotti a costi più bassi, però, molti paesi stanno usando dazi e altre barriere commerciali. Ci sono ovviamente gli Stati Uniti, che hanno in corso una guerra commerciale con la Cina. Anche l’Unione Europea ha imposto i propri dazi sulle auto elettriche cinesi. Ma perfino paesi di solito accoglienti nei confronti degli investimenti cinesi, come il Messico, la Turchia, il Brasile e altri, hanno imposto dazi per evitare che le loro industrie siano penalizzate dalla concorrenza della Cina.

Pechino, agosto 2024

Pechino, agosto 2024 (AP Photo/Ng Han Guan)

Questo insieme di fenomeni (aziende che producono troppo e che non sanno come smaltire la propria produzione, e le “guerre dei prezzi”) rischiano di produrre deflazione, cioè quella condizione in cui i prezzi si abbassano perché l’economia è poco dinamica. Il paese negli ultimi anni ha avuto vari momenti di deflazione piuttosto preoccupanti.

Ma in Cina ha cominciato a circolare una parola che probabilmente definisce meglio il momento economico: nèijuǎn, involuzione. Viene usata per descrivere quel fenomeno in cui una competizione eccessiva porta a rendimenti decrescenti. In pratica la competizione, anziché rendere l’economia più vivace e produttiva, finisce per sfiancarla.

“Involuzione” viene usata a livello personale, soprattutto dai giovani che si vedono costretti a condizioni di lavoro massacranti in cambio di prospettive economiche e di vita sempre meno allettanti; ma anche a livello dell’intera economia, che in un certo senso sta girando a vuoto: l’aumento della produzione non è determinato da un aumento della domanda, ma dagli stimoli statali e politici.

Il governo cinese è perfettamente consapevole di tutti questi problemi. Lo stesso Xi in vari discorsi negli ultimi mesi ha parlato di nèijuǎn e messo in guardia contro la «competizione disordinata». Lo stato è intervenuto per alleviare le “guerre dei prezzi” più pericolose, come quella nel settore delle auto. Si preoccupa anche di sostenere i consumi quando calano eccessivamente. Ma al tempo stesso il governo continua ad alimentare la dinamica generale, e a promuovere un modello di sviluppo che si basa sugli investimenti, sulla manifattura e sull’aumento della produzione.

L’idea è che questi cicli massacranti di competizione, in cui le aziende cinesi sono spinte a farsi una concorrenza estrema, consentiranno loro di superare in efficienza e in innovazione le aziende occidentali, e alla Cina di ottenere il controllo sulle tecnologie più importanti per il futuro. La Cina sta in un certo senso addestrando le sue aziende a diventare più competitive, più innovative e più pronte a dominare i mercati internazionali. Le storture economiche che ne derivano, anche se rallentano la crescita, sono ostacoli temporanei da sopportare per raggiungere il più importante obiettivo politico.

Di fatto la contraddizione attorno alle due immagini della Cina viene da qui: da un lato un sistema che produce e investe in modo eccessivo, generando una notevole sovrabbondanza di beni e di servizi; dall’altro un’economia che, paradossalmente, sta rallentando, perché gira a vuoto. La scommessa della Cina è di raggiungere i propri obiettivi prima che le difficoltà dell’economia diventino insostenibili.