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  • Lunedì 22 settembre 2025

Cosa vuol dire concretamente riconoscere la Palestina

È un gesto di grande importanza simbolica e politica, ma che nella pratica muove poco le cose e rischia di creare un'illusione

Un murale con una mappa della Palestina a Gaza nel 2013 (REUTERS/Mohammed Salem)
Un murale con una mappa della Palestina a Gaza nel 2013 (REUTERS/Mohammed Salem)
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Il riconoscimento dello stato di Palestina, che alcuni paesi occidentali stanno formalizzando in questi giorni, ha un significato soprattutto simbolico e politico, perché isola ulteriormente il governo di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Difficilmente però sposterà le posizioni di Israele sulla questione palestinese, o farà qualcosa nel breve termine per alleviare la situazione nella Striscia di Gaza.

Cosa significa riconoscere uno stato
Riconoscere uno stato è un processo più discrezionale di quanto si possa pensare: la decisione viene presa in modo autonomo dai singoli governi su basi anche molto diverse, e annunciata in vari modi, tra cui comunicati, dichiarazioni congiunte o lettere.

Per essere riconosciuto come tale un nuovo stato deve innanzitutto dichiarare l’intenzione di diventarlo. La Convenzione di Montevideo del 1933 ha elencato quattro criteri minimi da rispettare, che non sono vincolanti ma vengono spesso usati come riferimento: avere una popolazione permanente, un territorio definito, un governo e la capacità di intrattenere relazioni con gli altri stati. La Convenzione è stata sottoscritta da 19 paesi del continente americano, ma con il passare del tempo è stata accettata informalmente da molti altri.

Lo stato palestinese ha una situazione particolare, dato che non ha un governo unitario e gran parte del territorio è occupata illegalmente da Israele. Nonostante questo è riconosciuto da 151 paesi membri delle Nazioni Unite su 193 (il numero dovrebbe aumentare nei prossimi giorni), come misura principalmente simbolica e in virtù del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Cosa comporta riconoscere la Palestina
La conseguenza principale e più evidente del riconoscimento di un nuovo stato è lo scambio di rappresentanze diplomatiche, ossia l’apertura di ambasciate e consolati e l’invio di personale diplomatico.

Teoricamente solo i paesi che si riconoscono reciprocamente possono avere relazioni diplomatiche, ma ci sono eccezioni. Per esempio l’Italia non riconosce lo stato palestinese e il governo di Giorgia Meloni non ha espresso l’intenzione di farlo a breve, ma ha comunque un ufficio consolare a Gerusalemme che «cura le relazioni che il governo italiano intrattiene con le autorità palestinesi», come si legge sul suo sito. Anche gli Stati Uniti, che non riconoscono la Palestina, hanno avuto per anni un “ufficio per gli Affari palestinesi” all’interno dell’ambasciata in Israele (l’ufficio è stato chiuso lo scorso maggio).

A livello politico i paesi che decidono di riconoscere la Palestina hanno come interlocutore l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), l’entità parastatale che governa in modo semiautonomo alcune parti della Cisgiordania (ma non della Striscia di Gaza, che dal 2007 è sotto il controllo di Hamas). L’ANP è riconosciuta da gran parte della comunità internazionale come il governo legittimo del popolo palestinese, ma è anche inefficiente, corrotta, impopolare e in crisi da tempo: ci sono molti dubbi sul fatto che possa governare in modo efficace i territori palestinesi dopo la fine della guerra a Gaza.

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas a Beirut, in Libano, a maggio del 2025 (AP Photo/Hassan Ammar)

Il riconoscimento di un nuovo stato permette di avviare anche altre pratiche, come il riconoscimento dei visti, gli spostamenti tra i due paesi, le relazioni commerciali e così via. Da questo punto di vista è possibile che i paesi che riconoscono la Palestina debbano rivedere i propri accordi commerciali con Israele, per assicurarsi che questi non vìolino i diritti del nuovo stato palestinese: per esempio se riguardano l’importazione da Israele di prodotti agricoli coltivati nelle colonie israeliane in Cisgiordania.

– Leggi anche: Per Netanyahu la creazione di uno stato palestinese non è un’opzione

Infine, riconoscere uno stato apre la strada anche al suo ingresso nelle organizzazioni internazionali, come le Nazioni Unite. Dal 2012 la Palestina è un “osservatore permanente” all’ONU, cioè può partecipare all’Assemblea generale ma non ha i diritti che spettano ai paesi membri. Al momento tra l’altro la Palestina è riconosciuta da tre dei cinque paesi con diritto di veto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Regno Unito, Russia e Cina. La Francia dovrebbe aggiungersi oggi. Gli Stati Uniti rimarranno gli unici a non farlo.

Una manifestazione a sostegno della Palestina a Napoli, il 16 settembre 2025 (Ivan Romano/Getty Images)

Le critiche di chi pensa che il riconoscimento non basti
La decisione di molti paesi di riconoscere la Palestina ha ricevuto critiche anche da alcuni sostenitori della causa palestinese, perché la considerano una mossa troppo timida e arrivata troppo tardi. Per esempio il sito israelo-palestinese +972 Magazine ha pubblicato un duro articolo in cui dice che il riconoscimento crea «l’illusione di un’azione» da parte dei governi occidentali: «Se i paesi vogliono riconoscere lo stato palestinese, che lo facciano pure, ma non devono fingere che questo cambi la realtà».

In generale, al di là del riconoscimento, finora le iniziative concrete contro Israele sono state limitate e poco efficaci.

Ad agosto per esempio diversi paesi europei hanno partecipato al lancio di aiuti umanitari paracadutati sulla Striscia, operazione che però è stata inefficiente e già dal principio senza alcuna ambizione di essere una risposta al problema della grave malnutrizione causata dalle politiche di Israele. Anche le evacuazioni per ragioni sanitarie dalla Striscia di Gaza verso i paesi europei sono state pochissime ed enormemente inferiori rispetto al numero di persone in condizioni di vulnerabilità.

Di recente la Commissione Europea ha proposto di applicare sanzioni contro Israele, tra cui la sospensione di un trattato commerciale che dal 2000 annulla i dazi su parte delle merci scambiate con i paesi dell’Unione: sarà però molto difficile farle approvare, a causa dell’opposizione di vari stati tra cui Austria, Italia e Germania.

Alcuni paesi stanno provando a fare di più, ma muovendosi da soli le loro azioni hanno minore efficacia. Per esempio la Spagna, il paese europeo più critico con Israele, ha annunciato che vieterà la vendita e l’acquisto di armi da Israele, l’uso di porti o aeroporti spagnoli per il transito di qualsiasi carico che possa riguardare la guerra a Gaza, compreso il carburante, e l’importazione di prodotti che provengono dai territori palestinesi occupati.

– Leggi anche: La disobbedienza civile dei portuali contro il traffico di armi verso Israele