Quello che successe a Srebrenica, 30 anni fa
La storia del primo genocidio in Europa dalla Seconda guerra mondiale

Uno dei video più noti della guerra in Bosnia Erzegovina mostra un uomo di mezza età in piedi in un campo, in un giorno d’estate. È magrissimo. Insieme a lui ci sono altri uomini: indossano abiti civili e sono seduti sull’erba, sorvegliati e minacciati da un soldato in mimetica. L’uomo sta chiamando il figlio, Nermin, che insieme a molte altre persone si è nascosto nel bosco, sulle colline. «Vieni Nermin, sono quaggiù!», grida l’uomo: «Venite tutti!». Una voce fuori campo gli ordina, con tono canzonatorio: «Digli con chi sei». L’uomo, portandosi le mani alla bocca, inizia nuovamente a chiamare: «Sono con i serbi, venite giù, è sicuro!». Nel frattempo si sentono alcuni spari.
L’uomo si chiamava Ramo Osmanović. Lui, e suo figlio Nermin, furono tra le migliaia di bosgnacchi (bosniaci musulmani) che vennero uccisi dai soldati serbi bosniaci a Srebrenica, e attorno a Srebrenica, dopo che questi riuscirono a conquistare la città, l’11 luglio del 1995. I loro corpi vennero identificati e sepolti solamente nel 2008 in un grande cimitero memoriale a Potočari, qualche chilometro a nord di Srebrenica, nella Bosnia Erzegovina orientale.
Il video è talmente conosciuto in Bosnia Erzegovina che all’episodio, e a Ramo Osmanović, è stata dedicata anche una piccola statua in centro a Sarajevo. Il monumento è intitolato proprio «Nermine, dođi!», e cioè «Vieni, Nermin!».
Nel luglio 1995 la guerra in Bosnia Erzegovina stava andando avanti da quasi tre anni. Il paese era abitato principalmente da tre gruppi nazionali, differenziati soprattutto dalla religione: i bosgnacchi musulmani, i serbi ortodossi e i croati cattolici. All’epoca nessuno era la maggioranza.
Per diversi decenni la Bosnia Erzegovina aveva fatto parte della Jugoslavia socialista, e i rapporti tra persone di nazionalità diverse erano stati in generale buoni. Quando la Jugoslavia cominciò a disgregarsi la situazione peggiorò rapidamente. Bosgnacchi e croati che vivevano in Bosnia Erzegovina volevano l’indipendenza, mentre i serbi volevano rimanere nella Jugoslavia (che a quel punto era formata solo da Serbia e Montenegro, perché gli altri paesi avevano già ottenuto l’indipendenza). Per riuscirci i serbi bosniaci crearono una propria regione autonoma dentro la Bosnia Erzegovina, chiamata la Republika Srpska. Nella primavera del 1992 la Bosnia Erzegovina dichiarò l’indipendenza e iniziò la guerra.
I serbi bosniaci, con il sostegno della Serbia, attaccarono le persone non serbe che vivevano nel territorio sotto il loro controllo. Una delle prime aree dove avvenne questa persecuzione, e in cui fu più violenta, fu proprio attorno a Srebrenica (la pronuncia è “Srèbrenitsa”), cioè la valle della Drina, una delle regioni più rurali della Bosnia Erzegovina, al confine con la Serbia. Era un’area abitata quasi esclusivamente da serbi e bosgnacchi.
Dall’aprile del 1992 l’esercito della Republika Srpska e squadre paramilitari serbe attaccarono i bosgnacchi che ci vivevano, compiendo molti crimini di guerra.
Dopo qualche settimana i bosgnacchi cominciarono a organizzarsi per creare una forza di difesa e resistere alle violenze. Srebrenica, insieme ad altre piccole cittadine dell’area (Žepa e Goražde), era sotto il controllo della Difesa territoriale locale, forza in seguito integrata nell’esercito di Bosnia Erzegovina. Dal momento che era una delle poche parti del territorio a non essere controllate dai serbi, migliaia di bosgnacchi scacciati dalle loro case si rifugiarono a Srebrenica, in cerca di un luogo sicuro.
La vita a Srebrenica era difficilissima. La città aveva subito pesanti danni e ci vivevano molte più persone di quante fosse fisicamente possibile accogliere: tante restavano semplicemente in strada. In più, era circondata dai serbi, che continuavano ad attaccarla. Un fotografo tedesco che visitò Srebrenica all’epoca e scattò diverse foto per documentare come si viveva, Philipp von Recklinghausen, raccontò anni dopo che in città aveva visto «l’apocalisse».
Per sopravvivere, gli abitanti facevano affidamento su scarsissimi aiuti umanitari e, anche, sulle razzie compiute dalle proprie forze di difesa, che spesso attaccavano le cittadine vicine, abitate da serbi, per procurarsi cibo e armi. Raramente alcune persone riuscivano a uscire dalla città e a essere trasferite in aree sotto il controllo dell’esercito di Bosnia Erzegovina, soprattutto nei campi per rifugiati vicino alla città di Tuzla, nel centro del paese.

Una donna bosgnacca cammina insieme ai figli nel centro di Srebrenica, nel 1993 (AP)
Nell’aprile 1993 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò una risoluzione per dichiarare Srebrenica (insieme a Žepa, Goražde, e alle città di Sarajevo e Bihać) «area sicura» sotto la protezione dell’Onu. La risoluzione chiedeva, tra le altre cose, di fermare gli attacchi sulla città, e il ritiro delle truppe serbe.
Fu una decisione complessa, che per molti versi venne accelerata dall’iniziativa personale del generale francese che in quel momento comandava il contingente Onu in Bosnia Erzegovina, Philippe Morillon. Morillon aveva deciso di visitare Srebrenica un mese prima, in marzo, frustrato dall’inazione della comunità internazionale, che aveva un atteggiamento molto passivo nei confronti dei crimini commessi nell’area. Una volta arrivato in città, gli abitanti gli impedirono di ripartire e chiesero la protezione diretta delle Nazioni Unite. Morillon, per forzare le cose, tenne un discorso un po’ improvvisato da un palazzo in città, in cui annunciò che la popolazione di Srebrenica sarebbe stata messa «sotto la protezione dell’Onu».
Fin da subito però fu chiaro che la decisione di dichiarare Srebrenica un’area protetta sarebbe stata difficile da mettere in pratica, hanno ricostruito, tra gli altri, i giornalisti britannici Laura Silber e Allan Little nel libro The Death of Yugoslavia. Un po’ per la resistenza dei governi occidentali, che non erano disposti a mettere a disposizione il numero di soldati che sarebbe effettivamente servito ad assicurare la protezione dell’area. Un po’, anche, per preservare lo status di neutralità dell’Onu: proteggere Srebrenica avrebbe significato infatti rispondere agli attacchi dei serbi, che continuavano nonostante la risoluzione, e nonostante la difesa di Srebrenica avesse consegnato all’Onu molte delle armi di cui disponeva.
«Le ‘aree sicure’ erano in realtà alcune delle aree meno sicure al mondo. […] Cercando una soluzione di breve termine per risolvere una crisi di lungo termine, l’Onu si assunse una responsabilità che non era pronta a onorare», hanno scritto Silber e Little.
Nei primi giorni del luglio 1995 l’esercito della Republika Srpska iniziò un’offensiva per conquistare Srebrenica. In quel momento la città era sotto la protezione di un piccolo contingente di soldati nederlandesi delle Nazioni Unite, il Dutchbat, formato da poche centinaia di militari. Thom Karremans, il comandante del battaglione nederlandese, chiese più volte alla NATO (l’alleanza militare dei paesi occidentali) di intervenire per bombardare le posizioni serbe, ma le sue richieste non vennero accolte: l’11 luglio i soldati serbi, comandati dal generale Ratko Mladić, entrarono a Srebrenica, praticamente senza incontrare resistenza.
Un altro video famosissimo dell’epoca è quello che mostra l’ingresso di Mladić in città. Intervistato da una televisione, Mladić dice di voler offrire in regalo la città al popolo serbo (lui la chiama proprio la Srebrenica serba). Aggiunge anche che «è finalmente giunto il momento di vendicarci dei turchi [termine dispregiativo con cui i nazionalisti serbi si riferivano ai bosgnacchi] in questa regione».
Tra le circa 40mila persone che secondo le stime si trovavano a Srebrenica in quel momento, intanto, si era creata una situazione di caos. Migliaia di uomini, in particolare quelli che avevano partecipato alla difesa di Srebrenica, ma non solo, fuggirono nei boschi, temendo di essere uccisi dai serbi. Molti cercarono di attraversare le linee serbe e raggiungere il territorio controllato dall’esercito bosniaco, in condizioni disperate. Avere statistiche affidabili è complicato, ma si stima che da Srebrenica partirono tra i 10mila e i 15mila uomini: solo 3mila sopravvissero.
Praticamente tutte le altre persone, in gran parte donne, bambini e anziani, fuggirono verso nord e raggiunsero il quartier generale del Dutchbat, che si trovava nella località di Potočari, sperando nella protezione delle Nazioni Unite.
Karremans, il comandante del battaglione nederlandese, si mise a trattare con Mladić per assicurare la sicurezza dei civili e dei propri soldati (tra le altre cose, i serbi bosniaci avevano anche preso in ostaggio diversi soldati del Dutchbat). Non ci riuscì, e in generale le truppe nederlandesi ebbero un ruolo molto controverso, ignorando violenze e uccisioni nei confronti dei profughi che già avvenivano nei pressi della loro base; e in alcuni casi collaborando con i soldati serbi bosniaci, che avevano iniziato a separare gli uomini da loro giudicati in età arruolabile dalle altre persone.
Thom Karremans (al centro) brinda con Ratko Mladić (a sinistra) durante i negoziati nei giorni successivi alla conquista serba di Srebrenica.
Donne, anziani e bambini vennero trasferiti nei campi per rifugiati nel territorio controllato dal governo bosniaco. In molti casi vennero fermati anche più volte a posti di blocco dell’esercito serbo bosniaco, subendo nuove violenze. Moltissime donne, dopo la conquista serba di Srebrenica, furono violentate dai militari serbi, che durante la pulizia etnica in Bosnia Erzegovina usarono lo stupro come arma di guerra nelle aree che controllavano. Migliaia di uomini che i serbi bosniaci avevano separato dalle persone che si erano rifugiate a Potočari, però, restarono prigionieri. Questi, insieme agli altri catturati tra quelli che erano fuggiti nei boschi, vennero uccisi nei giorni successivi, in modo sistematico e pianificato dalle autorità militari e civili della Republika Srpska.
Secondo il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia tra i 7mila e gli 8mila prigionieri bosgnacchi vennero uccisi in una settimana. Per il Centro memoriale di Srebrenica, le persone uccise in questo modo furono più di 8mila. I corpi vennero poi sepolti e occultati in diverse fosse comuni (in molti casi spostandoli più volte, tra diverse fosse comuni, fatto che poi ha reso più complicato identificare le vittime). Due tribunali internazionali, il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia e la Corte Internazionale di Giustizia, hanno stabilito che quei massacri furono un genocidio.
Alle uccisioni prese parte anche almeno un’unità paramilitare serba, quella degli Scorpioni: sebbene il governo della Serbia sostenesse i serbi bosniaci durante la guerra, il suo ruolo effettivo nei crimini commessi a Srebrenica è sempre stato molto dibattuto. Nel 2007 la Corte di Giustizia Internazionale stabilì che la Serbia era colpevole di non aver prevenuto il genocidio, ma escluse un suo ruolo diretto.
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Alcuni esperti del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia puliscono i corpi di dozzine di vittime del genocidio di Srebrenica, ritrovati in una fossa comune nel villaggio di Pilica nel 1996 (AP/Staton R. Winter)
Anche se fu chiaro fin da subito quali crimini erano stati commessi contro la popolazione di Srebrenica, la dimensione esatta delle uccisioni non emerse fino a qualche settimana dopo, quando foto satellitari dimostrarono la scala dei massacri. La notizia di quanto era avvenuto a Srebrenica ebbe conseguenze importanti sull’andamento della guerra: fu una delle ragioni che spinse la NATO a intervenire direttamente, con dei bombardamenti contro l’esercito serbo in Bosnia Erzegovina, dopo anni in cui i paesi occidentali erano stati molto restii all’idea di impegnarsi direttamente.
Dopo la fine della guerra, diversi rappresentanti dei serbi di Bosnia Erzegovina e militari dell’esercito di Republika Srpska furono condannati per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi anche durante la conquista di Srebrenica, inclusi Ratko Mladić e Radovan Karadžić, che all’epoca era presidente della Republika Srpska.
Per anni nella regione ci furono ritrovamenti di fosse comuni dove erano stati nascosti i corpi delle vittime del genocidio. A oggi, 94 fosse comuni sono state individuate a Srebrenica, e nell’area attorno alla città. Molto probabilmente, però, ce ne sono altre, che non sono ancora state scoperte.
Anche identificare i morti è stato un processo molto complicato. Per anni se n’è occupata la Commissione Internazionale per le Persone Scomparse (ICMP), incrociando il DNA estratto dalle ossa ritrovate con quello dei familiari delle persone dichiarate scomparse dopo l’11 luglio del 1995. Ogni 11 luglio i nuovi corpi identificati vengono sepolti nel grande memoriale che è stato costruito a Potočari, davanti all’edificio dove stazionava il Dutchbat, nel corso di una cerimonia per commemorare le vittime: quest’anno sono sette.
Circa 7mila vittime sono state identificate dalle autorità bosniache con il contributo dell’ICMP, spiega Saša Kulukčija, portavoce dell’ICMP: circa mille devono ancora essere ritrovate. «Stiamo continuando gli sforzi per cercare di localizzare le persone che mancano, anche se l’assenza di informazioni credibili sulla possibile ubicazione delle fosse comuni rimane un ostacolo».
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