Così tanto Spazio in una volta sola non l’avevamo mai visto

È quello visibile nelle prime immagini realizzate dal nuovo potente osservatorio Vera Rubin in Cile

di Emanuele Menietti

La Nebulosa Trifida e la Nebulosa Laguna (NSF–DOE Vera C. Rubin Observatory)
La Nebulosa Trifida e la Nebulosa Laguna (NSF–DOE Vera C. Rubin Observatory)
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Dieci milioni di galassie in un’unica immagine, ottenuta combinando più di mille fotografie, fanno parte della prima serie di immagini diffuse dall’Osservatorio Vera C. Rubin in Cile, che utilizza uno dei telescopi più grandi mai costruiti e che nei prossimi anni produrrà un’intera panoramica del cielo australe ogni tre notti, secondo gli esperti rivoluzionando il modo di fare astronomia. La costruzione dell’osservatorio è terminata da poco e l’enorme quantità di dati che sarà raccolta tornerà utile per l’identificazione degli asteroidi, lo studio del ciclo vitale di alcuni tipi di stelle e per verificare le ipotesi sull’esistenza della “materia oscura”, una delle componenti più sfuggenti di tutto l’Universo.

A parte alcune stelle in primo piano appartenenti alla Via Lattea, i puntini luminosi visibili nell’immagine rappresentano circa 10 milioni di galassie, cioè solo lo 0,05% dei circa 20 miliardi che il telescopio Rubin osserverà nei prossimi 10 anni. L’osservazione si concentra sulla regione meridionale dell’Ammasso della Vergine, a circa 55 milioni di anni luce da noi: è il più vicino grande ammasso di galassie e mostra una grande varietà di oggetti celesti, dalle stelle brillanti alle galassie a spirale blu vicine fino a gruppi di galassie rosse più distanti. Tra una galassia e l’altra è visibile una miriade di altri corpi celesti e di remote galassie, molte delle quali non erano mai state osservate o studiate prima.

(NSF–DOE Vera C. Rubin Observatory)

Il livello di risoluzione è tale da non poter essere mostrato in una sola immagine sullo schermo attraverso cui state leggendo questo articolo, in compenso un video mostra la complessità dell’immagine.

In una settimana di attività per verificare gli strumenti e la loro affidabilità, l’osservatorio ha scoperto oltre 2mila asteroidi che non erano mai stati osservati prima, anche in questo caso in una porzione molto ridotta dell’intero cielo australe che sarà mappato negli anni. La possibilità di osservarne così tanti apre nuove opportunità non solo per lo studio degli asteroidi, ma anche per le attività di controllo per identificare più velocemente quelli a maggior rischio di scontrarsi con la Terra.

Nel set di immagini diffuse oggi pomeriggio c’è anche un’osservazione di Trifida e Laguna, nebulose fotografate in grande dettaglio, come si nota dalle sottili nubi di gas e polvere e dai numerosi giochi di luce creati dagli oggetti celesti alle loro spalle. La Nebulosa Trifida (Messier 20) è una delle strutture più spettacolari del cielo: a circa 5.000 anni luce nella costellazione del Sagittario, si distingue per la grande combinazione di elementi al suo interno con più nebulose colorate e stelle in formazione; sotto la Trifida c’è la Nebulosa Laguna (Messier 8).

(NSF–DOE Vera C. Rubin Observatory)

La costruzione dell’osservatorio fu proposta nel 2001 ed è stata finanziata dagli Stati Uniti, con la posa della prima pietra nell’aprile del 2015 sul Cerro Pachón, una montagna alta 2.682 metri nel Cile settentrionale con scarsissimo inquinamento luminoso e cieli limpidi quasi tutto l’anno, quindi ideale per fare osservazioni astronomiche. Il telescopio con la struttura che lo sorregge ha una massa di 350 tonnellate, e ciclicamente deve ruotare di qualche grado su sé stesso, scattare una fotografia del cielo, muoversi di nuovo e scattarne un’altra, fino a realizzare una intera panoramica del cielo australe (cioè quello visibile dall’emisfero opposto al nostro). È un’attività che richiede estrema precisione e soprattutto la capacità di far muovere rapidamente un sistema grande quanto una casa di sei piani e poi arrestarlo completamente, tutto in cinque secondi.

Il telescopio sovrastato dalla cupola che lo protegge, in una fase di test nell’aprile 2025 (RubinObs/NSF/DOE/NOIRLab/SLAC/AURA/Hernan Stockebrand)

Per farlo il telescopio utilizza motori elettrici ad alta precisione realizzati in Italia da Phase Motion Control, che ha anche provveduto ai sistemi per il movimento della grande cupola che protegge il telescopio insieme a EIE, altra azienda italiana. Ad avvenire molto velocemente non deve essere solo la rotazione del telescopio, ma anche la sua stabilizzazione per evitare che le osservazioni siano sfocate o disturbate. In altre parole, appena la rotazione finisce il telescopio deve essere immobile per scattare una fotografia a lunga esposizione, che altrimenti verrebbe mossa.

Solitamente con i telescopi di grandi dimensioni si attende qualche minuto prima di iniziare a fare osservazioni, perché bisogna dare il tempo alle componenti ottiche (lenti e specchi) di smettere di oscillare, in modo da avere lo strumento a fuoco. Per ridurre il tempo a pochi secondi, i progettisti del Vera C. Rubin hanno ridotto il più possibile la lunghezza del telescopio, in modo da attenuarne fortemente le oscillazioni, senza rinunciare all’ampiezza dello strumento (in generale, più è grande il diametro di un telescopio più luce raccoglie il sensore, rendendo possibili immagini dettagliate e nitide anche dei corpi celesti meno luminosi).

Per questo motivo il telescopio Vera C. Rubin usa tre specchi invece dei due solitamente utilizzati negli strumenti di questo tipo. Lo specchio primario ha un diametro di 8,4 metri ed è una sorta di grande anello: la luce lo colpisce, viene riflessa e raggiunge lo specchio secondario che è appeso sopra a quello primario. La luce viene nuovamente riflessa dal secondario e raggiunge lo specchio terziario, che si trova al centro dello specchio primario, nel buco dell’anello in sostanza. Alla fine la luce passa attraverso le lenti e raggiunge la più grande fotocamera mai costruita con un sensore da 3,2 gigapixel (una risoluzione pari ad almeno 65 volte quella della fotocamera di un iPhone) che produce l’immagine digitale.

Il funzionamento dei tre specchi, in una rappresentazione schematica (Vera Rubin Observatory)

A pieno regime il telescopio produrrà 20 terabyte di dati ogni notte e si stima che in un anno di attività ne avrà raccolti più di quanti ne siano stati prodotti in tutta la storia delle osservazioni del cielo con i telescopi. In dieci anni i gruppi di ricerca avranno quindi a disposizione una gigantesca quantità di dati da utilizzare per i loro studi. Confrontando le panoramiche del cielo ad alta definizione realizzate nel tempo, potranno per esempio notare la presenza di asteroidi mai osservati prima (alcuni dei quali potrebbero costituire una minaccia per la Terra), la nascita e la morte di alcuni tipi di stelle e le interazioni tra le galassie. E proprio a questi insiemi di pianeti, stelle e polveri interstellari, l’osservatorio deve in un certo senso il proprio nome.

Quando ne fu avviata la progettazione, si sarebbe dovuto chiamare LSST dalla sigla in inglese “Large Synoptic Survey Telescope”, letteralmente “Grande telescopio sinottico per le campagne osservative”. In astronomia, una campagna osservativa ha lo scopo di mappare una porzione del cielo, raccogliendo dati su una grande quantità di corpi celesti: non si punta quindi un singolo oggetto che si vuole studiare, ma una porzione più ampia di cielo per studiarla nel suo contesto (“sinottico” è quindi inteso come “veduta d’insieme”). Nel 2019 fu però proposto di dedicare l’osservatorio a Vera Cooper Rubin, una delle più grandi astronome nella storia del Novecento e tra le principali studiose della materia oscura (viene ancora informalmente chiamato LSST e il telescopio in sé si chiama Simonyi Survey Telescope, dal nome dei primi finanziatori del progetto).

Vera C. Rubin nel 1974 (NOIRLab/NSF/AURA via Wikimedia)

In un periodo in cui c’erano ancora poche opportunità per le donne per lavorare nella ricerca scientifica, Vera Rubin era diventata la prima donna a ricevere il permesso di fare osservazioni con il telescopio dell’osservatorio di Monte Palomar nella contea di San Diego, in California. Era il 1965 e, insieme all’astronomo Kent Ford, Rubin aveva messo a punto un sistema per osservare le stelle nelle aree periferiche e meno dense delle galassie, dove ce ne sono di meno e ci appaiono meno luminose.

La ricerca aveva lo scopo di mettere alla prova una delle teorie più dibattute sulle galassie a spirale, come la nostra, secondo cui le stelle girassero più velocemente in prossimità del centro galattico rispetto a quelle alla periferia. La convinzione più diffusa all’epoca era: visto che ci sono più stelle, quindi molta più massa, al centro di una galassia queste sono sottoposte a una maggiore gravità e quindi per non collassare devono girare più velocemente delle stelle verso l’esterno, dove ce ne sono di meno e di conseguenza meno massa (in generale più massa c’è più c’è gravità). Rubin voleva misurare se fosse effettivamente così, anche perché altre teorie mettevano in dubbio quella convinzione, ma servivano appunto dei dati.

Con il loro strumento per osservare le stelle meno luminose verso l’esterno delle galassie, Rubin e Ford fecero migliaia di osservazioni raccogliendo moltissimi dati sulla velocità relativa di innumerevoli corpi celesti. L’analisi dei dati portò a un risultato per molti inatteso: le stelle nelle parti periferiche delle galassie si muovevano a una velocità comparabile a quelle che erano più vicine al centro della galassia. Ma come era possibile se c’era molta meno massa alla periferia rispetto al centro galattico?

I dati raccolti da Rubin e Ford sembravano confermare le teorie sviluppate negli anni Trenta secondo cui c’era qualcos’altro a tenere insieme le stelle nelle parti esterne delle galassie, evitando che per via della loro velocità abbandonassero le galassie stesse. Quel qualcosa era stato chiamato “materia oscura” e il lavoro dei due astronomi sembrava confermarne l’esistenza. A distanza di decenni, la materia oscura è ancora oggi al centro di un grande confronto scientifico: la sua esistenza aiuterebbe a spiegare diverse cose dei modelli che sono stati elaborati per spiegare come fa l’Universo a stare insieme, ma l’impossibilità di osservarla e misurarla direttamente rende difficile la ricerca di conferme alla sua esistenza.

L’osservatorio Vera C. Rubin (Olivier Bonin / SLAC National Accelerator Laboratory)

Insieme ad altri progetti di ricerca, l’osservatorio dedicato a Vera Rubin potrà raccogliere dati molto importanti sul modo in cui le galassie cambiano e interagiscono tra loro nel tempo, offrendo probabilmente qualche indizio diretto sulla presenza della materia oscura. In uno dei propri lavori Rubin scrisse che ciò che si può osservare di una galassia «non è ciò che ottieni», facendo proprio riferimento al fatto che alcune sue caratteristiche non possono essere misurate dagli strumenti di cui disponiamo.

Vera Rubin morì il 25 dicembre 2016 dopo avere dedicato buona parte della propria vita non solo all’astronomia, ma anche alla promozione di iniziative per incentivare una maggiore presenza delle donne nella ricerca scientifica, in un periodo in cui questa possibilità non veniva contemplata o era proprio ostacolata dalle università e da molte istituzioni scientifiche. Fu l’artefice di un «cambiamento su scala copernicana» nella teoria cosmologica, come scrisse il New York Times, ma nonostante ciò non fu insignita del Premio Nobel per la Fisica, uno dei riconoscimenti più importanti per chi fa ricerca. La mancata assegnazione del premio a Rubin, così come a molte altre ricercatrici del Novecento, è stata al centro di un ampio dibattito sulla discriminazione di genere in ambito scientifico, non solo all’interno del comitato che decide i Nobel.

Oltre a ricordare il lavoro di una importante scienziata, il nuovo osservatorio potrà offrire nuovi dati e forse conferme alle teorie più discusse per spiegare il funzionamento dell’Universo, portando a nuove scoperte, ciò che davvero contava per Vera Rubin: «Non farti demoralizzare da qualcuno per motivi irrilevanti, come per esempio ciò che sei. E non preoccuparti dei premi o del successo. Il vero premio è scoprire qualcosa di nuovo là fuori».