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  • Domenica 22 giugno 2025

Cosa potrebbe succedere ora

Qualche cautissima ipotesi dopo l'attacco degli Stati Uniti ai siti del programma nucleare iraniano, messa in ordine

Le difese israeliane intercettano missili iraniani nel cielo di Tel Aviv, Israele, il 21 giugno 2025 (AP Photo/Leo Correa)
Le difese israeliane intercettano missili iraniani nel cielo di Tel Aviv, Israele, il 21 giugno 2025 (AP Photo/Leo Correa)
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Il bombardamento su larga scala degli Stati Uniti contro tre importanti siti del programma nucleare iraniano, avvenuto nella notte fra sabato e domenica, arriva alla fine di dieci giorni di attacchi senza precedenti di Israele contro diversi siti del programma nucleare e missilistico iraniano – oltre che uccisioni mirate di scienziati e leader militari, e bombardamenti su strutture civili – e di bombardamenti di ritorsione sulle città israeliane da parte dell’Iran.

Già nei giorni scorsi eravamo in un territorio inesplorato, sul piano degli scenari possibili: dopo l’attacco di domenica mattina è ancora meno chiaro cosa potrà succedere nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Moltissimo dipenderà innanzitutto da cosa sceglierà di fare il regime islamista che governa l’Iran.

Nelle ore successive all’attacco, diversi leader iraniani hanno usato parole molto dure e minacciose sia contro gli Stati Uniti sia contro Israele. Le loro dichiarazioni però non sono un indicatore affidabile di cosa potrebbe succedere, dato che fin dall’inizio del regime, nel 1979, la retorica contro Israele e i paesi occidentali è sempre stata durissima. Meglio concentrarsi su qualche precedente concreto, seppure di scala diversa.

– Leggi anche: Com’è (o com’era) fatto il sito nucleare di Fordo

L’Iran potrebbe scegliere una ritorsione che salvi la faccia al regime ma che non comporti un’ulteriore escalation: nuovi bombardamenti sulle città israeliane – oltre a quelli già compiuti su Haifa e Tel Aviv domenica mattina dopo gli attacchi statunitensi – o attacchi contro le navi commerciali legate a Israele o più in generale occidentali che passano per il mar Rosso, parzialmente controllato dalle milizie yemenite degli Houthi, loro alleati.

Dopo l’uccisione del potentissimo generale iraniano Qassem Suleimani da parte della prima amministrazione Trump, all’inizio del 2020, l’Iran usò una retorica durissima ma alla fine bombardò un paio di basi militari statunitensi in Iraq, senza causare morti o danni particolari: già allora si disse che l’attacco servì principalmente per ragioni di facciata, e non ebbe alcuna conseguenza tangibile sulla presenza statunitense in Medio Oriente.

Una manifestazione in ricordo di Qassem Suleimani tenuta a Sana’a, nello Yemen, nel dicembre del 2024 (Mohammed Hamoud/Getty Images)

Peraltro l’Iran si trova in una posizione ancora più debole rispetto ad allora: dal 2020 a oggi sono stati pesantemente indeboliti o sconfitti diversi suoi alleati internazionali, fra cui i gruppi radicali Hezbollah e Hamas, e il regime siriano di Bashar al Assad. La Russia sembra troppo impegnata nella guerra in Ucraina per potere garantire un qualche tipo di supporto. L’economia iraniana è giudicata da mesi vicina al collasso, per via delle pesanti sanzioni economiche che l’Occidente impone ormai da anni.

L’Iran poi ha un arsenale missilistico piuttosto limitato, già in parte utilizzato nei giorni scorsi per i bombardamenti sulle città israeliane: non sembra avere le capacità militari, insomma, per sostenere una guerra a lungo termine.

Un’altra delle opzioni, invece, è che l’Iran scelga di reagire con un attacco di scala superiore: per esempio prendendo di mira più aggressivamente le basi militari statunitensi nella regione – solo in Medio Oriente sono circa una ventina – oppure le navi militari o commerciali di passaggio nel Golfo Persico, un tratto di oceano Indiano sul quale si affacciano sia l’Iran sia vari paesi alleati degli Stati Uniti, come l’Arabia Saudita.

Sul Guardian il giornalista Julian Borger fa notare che mentre il regime sta esaurendo le sue riserve di missili balistici, con cui nei giorni scorsi ha bombardato le città israeliane, «ha ancora un arsenale formidabile di missili a corto raggio e droni», che potrebbe usare per colpire obiettivi statunitensi. Il Washington Post stima che oggi siano presenti in Medio Oriente «decine di migliaia di soldati statunitensi». È possibile però che nei giorni scorsi l’esercito statunitense abbia evacuato diverse delle proprie basi, in previsione dell’attacco sui siti nucleari iraniani.

Nel caso l’Iran riuscisse ad attaccare basi o navi statunitensi e a ferire o uccidere dei cittadini statunitensi, toccherà agli Stati Uniti decidere cosa fare: se cioè proseguire gli attacchi, come Trump ha minacciato esplicitamente di fare in caso di una ritorsione del genere, oppure a sua volta compiere una ritorsione di facciata. Dipenderà probabilmente anche dalla scala dell’eventuale attacco iraniano e delle sue conseguenze: dovessero esserci statunitensi uccisi, è plausibile che Trump risponda con ancora più forza.

Oltre alle ritorsioni militari, l’Iran potrebbe deciderne di economiche. Secondo i media iraniani, il parlamento ha autorizzato la chiusura dello stretto di Hormuz, che per diventare effettiva dovrà essere approvata anche dal Consiglio supremo di sicurezza iraniano. Lo stretto divide l’Iran dalla penisola araba e ci passa un quarto del petrolio mondiale.

Per questo l’eventualità di una sua chiusura, oltre al fatto che l’Iran è uno dei principali paesi produttori di idrocarburi, ha già causato timori legati all’approvvigionamento di petrolio e fatto aumentare il suo prezzo sui mercati. Se effettiva, però, la chiusura danneggerebbe anche l’Iran, visto che le esportazioni di idrocarburi sono una fonte importante di entrate per il regime.

Altre opzioni sembrano per ora piuttosto improbabili: sia un rinnovato impegno dell’Iran a riprendere i negoziati sul proprio programma nucleare (che stavano andando avanti da settimane prima che Israele decidesse di compiere un enorme attacco contro l’Iran, giovedì 12 giugno); sia una sollevazione dei leader militari o della popolazione iraniana contro il regime, di cui al momento non c’è alcuna avvisaglia.

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