Come il governo vorrebbe cambiare il diritto di famiglia
In un modo molto simile a quello già tentato con il "ddl Pillon", che attirò molte critiche
di Giulia Siviero

Da marzo la commissione Giustizia del Senato sta esaminando un disegno di legge (o ddl, il numero 832) che introduce una serie di modifiche al Codice civile, al Codice di procedura civile e al Codice penale sul diritto di famiglia, sulla separazione e sull’affido condiviso dei e delle minori. È stato proposto da un gruppo di senatori dell’attuale maggioranza di governo, il primo firmatario è Alberto Balboni di Fratelli d’Italia.
La riforma stabilisce l’obbligo per i genitori di provvedere in modo paritetico alla cura, all’educazione, all’istruzione e all’assistenza morale dei figli. Di conseguenza, in caso di separazione – e qualora il giudice non decida, con un provvedimento motivato, per l’affido a uno solo dei genitori – prevede una paritetica assunzione di responsabilità, di impegni e una pari opportunità di frequentazione, con una ripartizione sostanzialmente aritmetica del tempo dei figli con ciascun genitore, stravolgendo le disposizioni finora valide sull’assegnazione della casa familiare. In caso di affido condiviso viene introdotto l’obbligo di doppio domicilio presso entrambi i genitori. Ma sono solo alcune delle molte cose che questo ddl vorrebbe riformare.
Di fatto il ddl 832 è molto simile a un altro ddl presentato nel 2018 dall’allora senatore della Lega Simone Pillon, uno degli organizzatori del Family Day e uno dei portavoce delle principali battaglie dell’integralismo cattolico. E come il “ddl Pillon” è altrettanto contestato in tutti i suoi punti da avvocati e avvocate, associazioni che si occupano di minori, centri antiviolenza, movimenti femministi. Ma è stato criticato anche dall’interno, dalla Garante per l’infanzia e l’adolescenza nominata dal governo di Giorgia Meloni, Marina Terragni, che durante la sua audizione del 9 aprile in commissione ha espresso un parere contrario su molti suoi punti.

L’ex senatore della Lega Simone Pillon (ANSA/MASSIMO PERCOSSI)
La commissione Giustizia se ne sta occupando in sede redigente, una procedura per accelerare il percorso di approvazione delle leggi: prevede che la commissione deliberi sul testo articolo per articolo, mentre all’aula spetterà soltanto la votazione finale. Toccherà poi alle camere esaminarlo, ma è evidente che a quel punto, visti i numeri della maggioranza, potrebbe essere approvato facilmente in via definitiva.
Affidamento dei figli alla madre o affidamento condiviso
L’obiettivo dichiarato della riforma è rendere effettivo il principio della bigenitorialità, cioè che entrambi i genitori debbano esercitare la loro responsabilità anche se separati o divorziati, nell’interesse del figlio o della figlia. Secondo i proponenti, al momento questo principio «appare riconosciuto solo formalmente».
Negli ultimi decenni le questioni relative all’affidamento dei figli e delle figlie minori nei casi di separazione dei genitori sono state riformate in modo significativo, soprattutto con la legge n. 54 del 2006. Da lì in poi, come mostrano i dati dell’ISTAT, il principio della bigenitorialità e dell’affido condiviso in casi di separazione ha percentuali prevalenti: nel 2005 più dell’80 per cento dei minori nelle separazioni e nei divorzi veniva affidato alla madre, mentre già nel 2007 in più del 72 per cento delle separazioni veniva stabilito l’affido condiviso.
Chi ha proposto il ddl 832 sostiene però che i dati non mostrino la realtà e che l’affidamento dei figli minori dopo una separazione sia un «problema ancora irrisolto nonostante la riforma del 2006».
Pariteticità e logica adultocentrica
Per quanto il ddl esibisca di voler rendere effettiva la bigenitorialità, gli aspetti principali per cui viene criticato riguardano proprio il fatto che questo principio verrebbe accantonato: perché sostituito con quello della pariteticità, che prevede l’uguaglianza giuridica dei due genitori, e perché non si curerebbe adeguatamente dell’interesse dei e delle minori (come vorrebbe la bigenitorialità), concentrandosi sugli adulti.
Secondo l’avvocata Concetta Gentili, esperta di diritto di famiglia, la riforma impone «una visione proprietaria della genitorialità che mira a spartirsi la vita dei figli e delle figlie, seguendo principi astratti, rigidi e matematici: in una parola, salomonici». È anche per questo che il disegno di legge in alcune petizioni e sintesi giornalistiche è stato rinominato “ddl Salomone”, con riferimento al celebre episodio biblico in cui il re Salomone propone provocatoriamente a due madri che si contendono un figlio di dividerlo a metà per affidarne una parte a ciascuna.
Il disegno di legge prevede per i genitori l’obbligo di provvedere in modo paritetico alla cura, all’educazione, all’istruzione e all’assistenza morale dei figli stabilendo di conseguenza una divisione del tempo dei figli con ciascun genitore, elimina il concetto di “residenza abituale del minore”, cioè il posto in cui abita stabilmente (art.3), stravolge le disposizioni finora valide in materia di assegnazione della casa familiare (art.8) e stabilisce l’obbligo di doppio domicilio presso entrambi i genitori in caso di affido condiviso.
I problemi specifici di ciascuna di queste modifiche, secondo chi critica il ddl, sono diversi: la divisione dei tempi per esempio si applica ai minori senza alcuna valutazione e considerazione della loro età, compresi quindi anche i minori ancora non “svezzati” ed eventualmente allattati al seno dalla madre. Sul doppio domicilio, già previsto dal ddl Pillon, si erano già espressi molti giuristi, che avevano ravvisato profili di incostituzionalità per il rischio di un’ingerenza eccessiva dello Stato nella vita dei cittadini, e lo avevano giudicato potenzialmente in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) del 1950, secondo cui «ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza» (articolo 8).
Anche con la riforma, poi, ai fini burocratici i minori dovrebbero avere in ogni caso una sola residenza, pur avendo di fatto due domicili, «con potenziali ricadute in ambito scolastico, sanitario, fiscale e anagrafico», spiega l’avvocata Ilaria Boiano dell’associazione Differenza Donna. Finora la residenza abituale aveva avuto la funzione di affermare il diritto dei minori di restare a vivere nell’ambiente domestico in cui erano, senza dover subire le conseguenze della separazione dei genitori e senza dover pagare il prezzo di essere allontanati dalle consuetudini valide per loro fino a quel momento. L’abrogazione delle disposizioni finora valide sull’assegnazione della casa familiare faranno poi aumentare, secondo chi critica il ddl, le controversie rispetto al godimento di tale abitazione: quale coniuge dovrà restare a vivere nella casa coniugale o familiare in caso di comproprietà?

Alberto Balboni, primo firmatario del disegno di legge, durante la Conferenza programmatica di Fratelli d’Italia, Pescara, 26 aprile 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
In generale, il concetto di bigenitorialità contenuto nel ddl non corrisponderebbe a quello espresso dalla giurisprudenza o a quello contenuto in sentenze e raccomandazioni internazionali in materia, dove la bigenitorialità è sì stabilita come principio generale, ma sempre subordinato all’interesse del minore che, viene detto esplicitamente, è superiore rispetto a quello degli adulti: le valutazioni devono insomma essere individualizzate, tenere conto della situazione specifica di quel minore e del contesto familiare, e devono essere predisposte caso per caso anche in considerazione della sua età e della sua volontà. Affido condiviso e bigenitorialità non coincidono necessariamente con eguali tempi di permanenza con ciascun genitore dovendo piuttosto il giudice, in ciascuna situazione, verificare quale sia la soluzione che meglio realizzi l’interesse del minore.
Mantenimento
Nel ddl 832 la pariteticità viene applicata anche al mantenimento. Il ddl, spiega Boiano, elimina l’assegno di mantenimento per i figli e disciplina che, salvo diversi accordi tra le parti, ciascun genitore provveda al mantenimento diretto attraverso l’individuazione di «capitoli di spesa» in misura proporzionale alle proprie risorse economiche: introduce dunque un mantenimento basato su un mini bilancio che ciascun genitore dovrà presentare. Stabilisce poi che «quale contributo diretto» il giudice debba valutare anche «la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore, previa eventuale compensazione» e dice infine che se necessario a rispettare il principio di proporzionalità «il giudice può stabilire la corresponsione di un assegno perequativo periodico».
Come ha notato Marina Terragni, al paritarismo generale su cui si basa l’intero ddl «non corrisponde il riconoscimento di una semplice parità di opportunità». Mettendo sullo stesso piano il padre e la madre dal punto di vista del contributo economico per il mantenimento dei figli, non si tiene cioè conto della disparità di genere a livelli di occupazione e di retribuzione, spesso a svantaggio della madre. Si potrebbero avere livelli di vita e di consumi più alti da una parte, anche questo in violazione del superiore interesse del minore e a vantaggio dell’adulto economicamente più forte. La neutralità apparente della pariteticità nel mantenimento nasconde insomma un potenziale indebolimento della parte già più debole.
Un altro problema è rappresentato dal fatto che la previsione dei capitoli di spesa «rischia di obbligare le famiglie ma anche i tribunali a fare calcoli che non sono solo di difficile quantificazione monetaria, ma che sono anche non prevedibili perché legati alla crescita del minore: si pensi per esempio al vestiario e all’acquisto di generi alimentari. Si impone praticamente di rivolgersi continuamente all’autorità giudiziaria», spiega l’avvocata Boiano. E rischiano di incentivare i contenziosi in tribunale anche le compensazioni e i “ripristini” che il giudice può stabilire in caso di inadempienze genitoriali perché sono «difficili da provare in giudizio».
Parto e mantenimento di lei
L’articolo 4 del ddl dice che se i due futuri genitori non sono sposati o non convivono l’uomo «è tenuto a condividere con la madre ogni spesa relativa al parto». Dice anche che l’uomo è tenuto «a provvedere al mantenimento di lei per un periodo di tre mesi nel caso in cui non sia provvista di sufficienti risorse economiche». Introduce infine il mantenimento da parte del genitore più forte economicamente a favore del più “fragile” fino ai tre anni del figlio.
Questa parte risulta molto problematica, spiega Boiano, innanzitutto perché «dà riconoscimento giuridico al “padre” e al “nascituro” già prima del parto con il rischio che tale padre, avendo degli obblighi, possa rivendicare dei diritti sul nascituro, cioè sostenere di avere un interesse giuridicamente rilevante alla gravidanza stessa». In potenza può dunque interferire, ostacolare, o agire nei confronti della donna che decide di interrompere la gravidanza «scardinando un principio cardine della legge 194 che tutela l’autodeterminazione della donna in quanto unica titolare del diritto a decidere sulla prosecuzione della gravidanza, gravidanza che se passasse il ddl diventerebbe oggetto di regolazione bilaterale». Queste norme, presentate come tutele per la futura madre non sposata e non convivente, mirano nei fatti, per Boiano, a riportare le donne in condizioni di dipendenza dal padre del nascituro, anche in assenza di una relazione o, addirittura, in presenza di violenza. E aprono, di nuovo, la strada a ricorsi, istanze, opposizioni: a «pretese da parte di uomini che vogliono essere padri contro la volontà della donna».

Un cartello a una manifestazione di Non Una Di Meno, Roma, 25 maggio, 2024 (Ansa/GIUSEPPE LAMI)
Il ddl farebbe in questo punto anche confusione tra due istituti distinti e separati, il mantenimento per il minore e il mantenimento del o della “partner” che viene ora vincolato alla sua condizione di genitore, e che è subordinato a un periodo massimo di tre anni.
La violenza che non c’è, nel ddl
Il ddl, come già previsto dal ddl Pillon, introduce agli articoli 13, 14 e 15 alcune procedure di ADR, un acronimo che vuol dire Alternative Dispute Resolution: sono metodi stragiudiziali di risoluzione delle controversie alternativi al tribunale, e ne fanno parte sia la mediazione familiare che la coordinazione genitoriale. Il ddl rende la mediazione obbligatoria «in tutti i casi di disaccordo nella fase di elaborazione di un affidamento condiviso». Prevede che sia gratuito solo il primo incontro, mentre gli altri sono a carico delle due persone che si stanno separando. Si dice anche che il procedimento di mediazione familiare è riservato e che «nessun atto o documento prodotto da una parte durante le diverse fasi della mediazione può essere acquisito nell’eventuale giudizio. Il mediatore familiare e le parti, nonché gli eventuali soggetti che li hanno assistiti durante il procedimento, non possono essere chiamati a testimoniare in giudizio su circostanze relative al procedimento di mediazione svolto».
L’articolo 15 introduce una mediazione di secondo livello nel caso in cui la prima mediazione non abbia avuto un buon esito: prevede che le parti, con l’aiuto di un coordinatore genitoriale, compilino un «piano genitoriale» che «riporta il regime di vita precedente dei figli e dettaglia le regole della loro futura gestione».
Sulla mediazione familiare insisteva anche il ddl Pillon e proprio al tempo della sua discussione le relatrici speciali delle Nazioni Unite sulla violenza e sulla discriminazione contro le donne, Dubravka Šimonović e Ivana Radačić, avevano scritto una lettera preoccupata al governo italiano indicando tra i punti critici proprio l’obbligo di mediazione. I contenuti della lettera restano validi ancora oggi e sono stati ribaditi nelle diffuse critiche al ddl.
Molte critiche riguardano il fatto che funzionando su soluzioni standard, il ddl 832 “dimentica” i casi in cui le separazioni sono dovute a violenza domestica costringendo la vittima a negoziare con il proprio aggressore e rendendo invisibile la violenza stessa: sostanzialmente privatizza la violenza spostandola in un ambito in cui vale l’obbligo di riservatezza. Se durante il percorso di mediazione dovessero verificarsi o emergere degli abusi, in nome della riservatezza di fatto non risulterebbero, cancellando la possibilità del giudice di avere piena contezza del perché la mediazione sia fallita: non perché le parti non abbiano “collaborato”, ma perché non c’era collaborazione possibile. L’obbligo di segretezza, poi, limita il potere dell’autorità giudiziaria dando potere a figure che non sono altrettanto garantiste e riducendo l’attività stessa dell’autorità giudiziaria a mera ratifica.
Come ha spiegato Marina Terragni durante la propria audizione continua a prevalere l’idea, in ossequio all’osservanza del principio della bigenitorialità perfetta, che anche un genitore violento possa essere un buon genitore, che un conto sia la violenza e un altro la capacità genitoriale. Eppure numerose sentenze, trattati internazionali e normative nazionali affermano «che un genitore violento non può essere un buon genitore».
Alienazione parentale
All’articolo 6 il ddl dice che «in ogni caso il giudice può per gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona, preferibilmente dell’ambito familiare o, nell’impossibilità, in una comunità di tipo familiare». La norma non chiarisce innanzitutto quali siano i «gravi motivi» a cui fa riferimento, ma nella relazione introduttiva si parla di «situazioni ostative costruite ad arte». In molte e molti, compresa Terragni, hanno denunciato come dietro questa espressione «continui ad aleggiare il fantasma della cosiddetta PAS, la sindrome da alienazione parentale», ritenuta esistente nel momento in cui i bambini non vogliono più vedere uno dei due genitori. Si tratta di una costruzione più volte stigmatizzata dalla Cassazione come ascientifica, vietata dalle Nazioni Unite e che, nonostante questo, viene presa in considerazione già molto spesso nelle aule dei tribunali.
Soprattutto nelle situazioni di maltrattamento, l’alienazione viene infatti utilizzata in maniera strumentale dai padri, per screditare le donne che in sede di separazione richiedono protezione a favore dei figli che si rifiutano di incontrare i padri con comportamenti violenti. Il ricorso all’alienazione finisce dunque per non riconoscere il trauma dei bambini e delle bambine e per colpevolizzare invece la madre (già vittima di violenza), ritenendola responsabile di comportamenti inadeguati. Un richiamo all’Italia in questo senso è stato presentato anche dal Comitato CEDAW (la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne) delle Nazioni Unite.
Aumento dei contenziosi
Il ddl secondo chi lo critica porterà a un aumento generale dei contenziosi non solo per i motivi visti fino a qui, ma anche perché non si limita più a punire penalmente, come già avviene oggi, l’inadempimento dell’obbligo economico (non pagare l’assegno, non contribuire alle spese ordinarie e straordinarie), ma ogni condotta “difforme” dall’assetto previsto in materia di affidamento condiviso. La norma non dice più “chi non versa quanto dovuto”, ma “chi viola gli obblighi economici” e “quelli di affidamento” individuando anche queste ultime violazioni come un reato specifico. Questo significa includere tutte quelle situazioni, conclude Boiano, «interpretabili come scostamento dai doveri derivanti dal regime di affidamento che può voler dire anche un ritardo, un cambio turni, un disaccordo: si carica insomma penalmente il conflitto e si produce un effetto di intimidazione giudiziaria».