Perché in Italia gli stipendi aumentano ma non ce ne accorgiamo
Se avete un reddito inferiore ai 50mila euro è probabile che leggere questo articolo vi causi sconforto

L’aumento del costo della vita di questi ultimi anni ha incentivato un leggero aumento degli stipendi in Italia, ma è possibile che la grandissima parte delle persone coinvolte non se ne sia accorta: perché se i redditi crescono, aumentano anche le tasse da pagare. E non solo per il principio costituzionale della progressività delle tasse – più guadagni, più ne paghi – bensì per un fenomeno che si chiama “drenaggio fiscale”. La conseguenza è che gran parte degli aumenti finisce in tasse, soprattutto per chi ha redditi medi e bassi: la fascia di persone con più trattenute in busta paga. E le cose, secondo un rapporto dell’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB), da quest’anno potrebbero andare anche peggio.
Il principio del nostro sistema è, in teoria, che più si guadagna e più si deve contribuire al bilancio dello Stato. Ma in caso di inflazione, cioè quando i prezzi aumentano e con lo stesso reddito si possono fare o comprare sempre meno cose, si possono produrre distorsioni. In Italia ci sono tre aliquote, cioè le percentuali da applicare al reddito per calcolare le tasse: sui redditi del primo scaglione, cioè fino a 28mila euro, si paga il 23 per cento di imposte, che diventa il 35 per cento tra i 28 e i 50mila euro (secondo scaglione), e che cresce al 43 per cento sopra i 50mila euro (terzo e ultimo scaglione).
– Ascolta In Soldoni: Cosa sono le tasse?
Quando aumenta il costo della vita, gli stipendi tendono ad adeguarsi gradualmente (molto lentamente, di solito): da gennaio del 2021 a gennaio del 2025 i prezzi sono aumentati complessivamente del 16,8 per cento, mentre le retribuzioni dell’8,2 per cento, ancora meno della metà.
Questi aumenti, seppur ancora insufficienti, sono positivi: del resto chi non è contento di ottenere un aumento. È possibile però che non li abbiate percepiti realmente: non solo perché non hanno ancora recuperato del tutto l’inflazione – e quindi continuiamo a poter comprare e fare meno cose di prima – ma anche perché spesso portano a sforare le soglie entro cui si ha diritto a bonus o detrazioni, o anche la soglia dello scaglione successivo in cui si pagano aliquote più alte (solo per la parte di reddito che sfora).
Il drenaggio fiscale è questo: e in caso di inflazione comporta un tradimento del principio dell’equità del sistema fiscale, perché porta a pagare più tasse senza aver avuto davvero un miglioramento della propria situazione economica. Inoltre, il drenaggio fiscale agisce anche quando i redditi non aumentano: si continuano a pagare le stesse imposte a fronte di una condizione economica peggiore dovuta all’aumento dei prezzi.
Per com’è strutturato il sistema fiscale italiano, poi, il drenaggio fiscale è più accentuato sui redditi bassi e medi: senza entrare nei tecnicismi, è proprio nelle fasce di reddito iniziali che si rischiano di perdere bonus o detrazioni, a cui invece non hanno diritto quelli sopra i 50mila euro di reddito, la soglia più alta di tutto il sistema (equivalente più o meno a 2.400 euro netti al mese per 13 mensilità). La parte di reddito sopra questa soglia inoltre è sottoposta alla stessa aliquota a prescindere che sfori di mille euro o di un milione, col risultato che la progressività del sistema si riduce.
Ed è peraltro sui redditi medi che già pesa gran parte delle entrate dello Stato: nel 2024 chi ha dichiarato un reddito per l’anno precedente tra i 35 e i 70mila euro ha pagato quasi due terzi di tutta l’imposta sui redditi incassata dallo Stato, cioè l’IRPEF, che è soprattutto a carico dei lavori dipendenti, i quali non hanno possibilità di evadere (ogni anno i lavoratori autonomi evadono quasi il 70 per cento dell’IRPEF che dovrebbero pagare, secondo le stime).
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Dal drenaggio fiscale, insomma, quelli che ci perdono sono i lavoratori dipendenti della classe media; al contrario, lo Stato beneficia di entrate sensibilmente maggiori di prima. Una stima di lavoce.info indica in 17 miliardi di euro l’aumento delle imposte incassate dallo Stato nel solo 2024 a causa di questo fenomeno. Peraltro, proprio 17 miliardi è costato l’intervento del governo sulle imposte, che è stato quindi finanziato del tutto dal drenaggio fiscale, senza particolari sforzi: per il 2025 ha confermato e reso strutturale la nuova forma dell’IRPEF a 3 aliquote (fino al 2023 erano 4, e quella per i redditi tra 15 e 28mila euro era maggiore); ha fatto lo stesso col bonus deciso dal governo che veniva erogato ai lavoratori dipendenti sotto i 35mila euro di reddito. Proprio queste due misure faranno ancora danni sul fronte del drenaggio fiscale.
Lo dice il rapporto annuale dell’Ufficio parlamentare di bilancio, che mostra che combinate insieme le due misure portano nelle casse dello Stato 370 milioni di euro in più ogni anno, ipotizzando un 2 per cento di inflazione (le previsioni dicono che nel 2025 sarà intorno all’1,8 per cento): è il 13 per cento in più rispetto al sistema precedente, e peserà soprattutto sui lavoratori dipendenti.

La linea rossa mostra quanto aumenta l’incidenza del drenaggio fiscale sui redditi da lavoro dipendente, dal vecchio regime (a sinistra) a quello in vigore dal 2025 (Rapporto UPB)
L’UPB ha chiarito che gran parte di questo peggioramento deriva da com’è stato riformato il bonus di cui sopra, che ora è diventato una sorta di detrazione, addirittura riducendo lo stipendio netto per moltissime persone (l’abbiamo spiegato qui nel dettaglio). Gli economisti sono ormai concordi nel dire che i bonus sono troppo distorsivi, e che spesso finiscono per penalizzare invece che dare un beneficio. La stessa UPB, nel rapporto dell’anno scorso, spiegò che i bonus non funzionano anche a causa del drenaggio fiscale: dal 2021 al 2023 si sono persi del tutto i vantaggi dei diversi bonus erogati negli ultimi dieci anni (come gli 80 euro del governo di Matteo Renzi, per esempio).
L’unica soluzione al drenaggio fiscale sarebbe l’adeguamento degli scaglioni di reddito e delle diverse soglie dei bonus a nuovi livelli di reddito, cresciuti per il solo effetto dell’inflazione. Sarebbe però un intervento costoso, e per l’attuale governo significherebbe rinunciare all’aumento delle entrate che ha consentito in questi anni di mettere un po’ a posto i conti.
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