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  • Lunedì 26 maggio 2025

Israele è ancora una democrazia?

La risposta breve è: insomma. Quella lunga dipende da cosa – anzi, da dove – si sceglie di guardare

di Eugenio Cau

Una donna con una bandiera israeliana a Gerusalemme, il 6 maggio 2024
Una donna con una bandiera israeliana a Gerusalemme, il 6 maggio 2024 (AP Photo/Ohad Zwigenberg)
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È frequente sentir parlare di Israele come dell’«unica democrazia del Medio Oriente». L’idea è che, mentre nel resto della regione dominano regimi autoritari o semiautoritari, in Israele c’è una democrazia liberale di stampo occidentale dove i diritti politici e civili sono rispettati. Questa definizione viene periodicamente ridiscussa e criticata, ed è messa sempre più in dubbio negli ultimi anni: sia per le numerose azioni antidemocratiche del governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu, sia per la condizione non democratica in cui si trovano i territori occupati, cioè la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. A questo, ovviamente, si aggiunge la guerra a Gaza.

Se guardiamo alle classifiche internazionali (che sono uno strumento piuttosto criticato ma utile per fare confronti), Israele è un paese libero. La rispettata classifica di Freedom House dà a Israele un punteggio di libertà di 73 su 100. Non molto sotto l’Italia, che ha 89 su 100, e gli Stati Uniti, che hanno 84 su 100. Ma anche Freedom House specifica che questo buon punteggio vale soltanto per i territori internazionalmente riconosciuti di Israele, e non per quelli occupati militarmente. Lì la situazione è completamente diversa.

Una questione all’origine
La prima grossa caratteristica che rende Israele diverso da tutti gli altri paesi è che nasce nel 1948 come stato esplicitamente “ebraico”, luogo di rifugio degli ebrei scampati alla Shoah e a secoli di persecuzioni. Nell’idea dei fondatori dello stato come David Ben Gurion, il primo capo di governo, Israele avrebbe dovuto essere uno “stato per gli ebrei” che però garantisse anche ai non ebrei gli stessi diritti e le stesse opportunità.

– Luca Sofri: Non è una democrazia

In realtà come dice Arturo Marzano, docente di Storia e Istituzioni dell’Asia presso l’Università di Pisa, questa promessa fu tradita fin dall’inizio: al momento della fondazione dello stato i palestinesi che non subirono la Nakba, cioè l’esodo forzato e violento dalle loro terre, ottennero la cittadinanza israeliana, ma fino al 1966 furono sottoposti alla legge marziale: «Per spostarsi da un posto all’altro i palestinesi di Israele dovevano avere un permesso, non potevano di fatto iscriversi ai sindacati o fondare propri partiti politici». Le cose per i palestinesi con cittadinanza israeliana sono migliorate soltanto in seguito.

Per cercare di mantenere assieme la propria identità ebraica e democratica, Israele ha dovuto fare compromessi impensabili per altri stati democratici, per esempio sulla laicità dello stato.

Come ha scritto la giornalista Anna Momigliano nel suo saggio Fondato sulla sabbia, in Israele vige un sistema di gestione tra stato e religioni mutuato dall’Impero ottomano e chiamato millet. Prevede che ciascuna leadership religiosa gestisca internamente le questioni civili legate ai propri seguaci, come i matrimoni, i divorzi e in parte l’eredità. Se due persone ebree vogliono sposarsi in Israele, devono ricevere il permesso dalla leadership religiosa ebraica, cioè il rabbinato. Se una persona ebrea e una araba vogliono sposarsi, devono ricevere il permesso dalle loro leadership religiose di appartenenza, cosa che non avviene quasi mai. Per questo i matrimoni tra persone di religione diversa in Israele vengono fatti quasi tutti all’estero, e poi riconosciuti in seguito.

Questa dicotomia tra identità ebraica e democratica è diventata evidente nel 2018, quando il governo di Benjamin Netanyahu fece approvare una legge costituzionale che definiva Israele come uno stato esclusivamente ebraico. La legge prevedeva che soltanto gli ebrei potessero godere del diritto di autodeterminazione (cioè del diritto di un popolo ad avere uno stato). Inoltre, se prima ebraico e arabo erano considerate entrambe lingue ufficiali dello stato, l’arabo fu retrocesso a lingua con uno «status speciale».

Un paese in guerra
Israele si è sempre considerato e si considera tuttora un paese in guerra, dove sono in vigore leggi marziali ed emergenziali che non esistono nei paesi democratici e che indeboliscono la democrazia del paese. Per esempio nel paese vige la censura militare, che limita parzialmente quello che i giornali israeliani possono scrivere sulle questioni di sicurezza nazionale.

Proteste contro Netanyahu a Tel Aviv, gennaio 2023

Proteste contro Netanyahu a Tel Aviv, gennaio 2023 (AP Photo/ Tsafrir Abayov)

Netanyahu
La lunga leadership di Benjamin Netanyahu (primo ministro tra il 1996 e il 1999, e poi quasi ininterrottamente dal 2009) ha indebolito la democrazia israeliana. Con la legge di riforma della magistratura proposta dal suo governo nel 2023, Netanyahu ha tentato di aumentare l’influenza dell’esecutivo sui giudici, e di ridurre il potere della Corte Suprema del paese, principale contrappeso alle azioni del governo. La proposta ha provocato enormi reazioni e manifestazioni antigovernative ed è stata poi accantonata, soprattutto a causa dell’inizio della guerra. Da tempo però il governo tenta di far ripartire la discussione sulla legge.

«Il ruolo di Netanyahu nell’indebolimento della democrazia israeliana è stato molto influente», dice Enrico Campelli, docente di Diritto pubblico comparato all’Università Lumsa di Roma. «Ha provocato un conflitto diretto con la Corte Suprema, ha deteriorato le istituzioni democratiche israeliane, non ha mai portato avanti con convinzione i negoziati di pace e ha sdoganato al governo le forze politiche più estremiste e razziste». Il riferimento è ai partiti di Itamar Ben Gvir e di Bezalel Smotrich, due fondamentalisti ebraici ed estremisti di destra il cui sostegno è oggi fondamentale per il governo di Netanyahu.

Negli anni Netanyahu ha indebolito la democrazia israeliana in molti modi, per esempio concedendo incarichi pubblici a persone a lui vicine, costringendo alle dimissioni persone critiche verso di lui, favorendo i media amici. Il governo ha anche approvato leggi contro le ong che ricevono finanziamenti dall’estero: in teoria queste leggi dovrebbero servire a limitare le interferenze straniere in Israele, ma secondo i critici servono a ridurre la possibilità di dissenso.

Se abbiamo detto che secondo Freedom House Israele è un paese “libero”, è vero però che la sua posizione in classifica continua a scendere. L’anno scorso, inoltre, ha attirato molta attenzione il fatto che V-Dem, un’altra grossa organizzazione che classifica la democraticità dei paesi, per la prima volta abbia declassato Israele da “democrazia liberale”, la categoria migliore, a “democrazia elettorale”, cioè una democrazia dove il diritto di voto è garantito ma molti altri sono messi in dubbio.

“Apartheid”
Tutto quello che abbiamo detto finora vale per i cittadini israeliani che vivono all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti del paese. Nei territori palestinesi occupati, in particolare la Cisgiordania, la democrazia israeliana si annulla: i diritti e le libertà valgono soltanto per i circa 600 mila coloni israeliani che vivono in insediamenti illegali in quel territorio, e non per i suoi 3,5 milioni di abitanti palestinesi.

Israele occupò militarmente la Cisgiordania nel 1967. All’inizio degli anni Novanta, a seguito degli accordi di pace di Oslo, Israele riconobbe l’amministrazione civile dell’Autorità palestinese su una piccola porzione della regione (circa il 18 per cento del territorio, più un altro 22 per cento in gestione congiunta), ma mantenne il controllo militare degli aspetti legati alla sicurezza. Questo significa che in tutta la Cisgiordania l’esercito israeliano può arrestare le persone, limitarne la libertà di movimento, cacciarle dalle loro case quando ritiene che siano un pericolo per la sicurezza, chiudere le strade e gli uffici, e così via.

Soprattutto, Israele applica in Cisgiordania due diversi sistemi legali: i palestinesi sono sottomessi alla legge militare, cioè la legge che si applica ai territori sotto occupazione. Ma i coloni israeliani che hanno costruito insediamenti nella regione, pur trovandosi fuori dal territorio di Israele, godono appieno dei diritti e delle garanzie della legge israeliana. Mentre i palestinesi sono processati nei tribunali militari, gli israeliani che vivono in Cisgiordania godono di tutte le garanzie dei tribunali civili; i coloni possono votare nelle elezioni israeliane, mentre i palestinesi no.

Questo stato di cose è stato spesso definito una forma di apartheid, dal nome del regime di discriminazione sistematica delle persone nere in Sudafrica che rimase in vigore fino al 1994.

Attorno alla condizione della Cisgiordania ci sono tendenzialmente due interpretazioni.

La prima è di chi ritiene che si possa distinguere la situazione di Israele nei suoi confini internazionalmente riconosciuti, dove il sistema è tutto sommato democratico, da quella dei territori occupati, dove vige una discriminazione sistematica e antidemocratica. Da un lato la democrazia in Israele, dall’altro l’apartheid in Cisgiordania: è più o meno quello che fa Freedom House, quando precisa che il punteggio democratico di Israele vale solo per il territorio entro i confini internazionalmente riconosciuti, e non per i territori occupati.

La seconda è di chi ritiene invece che questa distinzione sia impossibile, e che la democrazia di Israele vada valutata anche considerando i territori occupati: che non si possa dunque chiamare “democrazia” uno stato che occupa militarmente un altro territorio e ne discrimina gli abitanti. Tanto più che ormai la separazione tra Israele e territori occupati è sempre più labile: in Cisgiordania l’azienda che dà acqua ed elettricità ai coloni è la stessa che lo fa in Israele; il sistema bancario è unificato, così come molte delle infrastrutture. I due spazi sono sempre più intrecciati.

La questione dell’altro territorio occupato, la Striscia di Gaza, è ancora diversa: Israele occupò la Striscia di Gaza nel 1967, come la Cisgiordania, ma si ritirò unilateralmente dal suo territorio nel 2005. Ma Israele controlla ancora oggi i confini, lo spazio aereo e gran parte delle forniture che arrivano nella Striscia. Questo fa sì, secondo numerose interpretazioni, sostenute anche dall’ONU, che Israele sia ancora la “potenza occupante” della Striscia di Gaza. In quanto tale Israele avrebbe numerosi doveri come la protezione della popolazione civile e la facilitazione degli aiuti umanitari: doveri che non rispettava prima della guerra e ha smesso del tutto di sostenere a guerra iniziata.

7 ottobre
La guerra cominciata dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha fornito al governo di Netanyahu una motivazione per restringere ulteriormente gli spazi di dissenso: sia in Cisgiordania, dove il livello della violenza delle operazioni dell’esercito israeliano è molto aumentato, sia all’interno di Israele.

«La libertà individuale è stata compressa in questo anno e mezzo di guerra», dice il professor Marzano. «Per esempio nell’accademia, dove studiosi che hanno criticato la risposta militare sono stati silenziati, minacciati con campagne sui social e con provvedimenti disciplinari nei loro confronti». Anche alcune manifestazioni sono state represse con durezza: la più recente negli scorsi giorni, quando la polizia ha disperso con violenza una manifestazione contro la guerra di Standing Together, una delle principali associazioni pacifiste, e ha arrestato i leader dell’organizzazione.

Democrazia?
Più di dieci anni fa, in un’intervista ancora famosa, il parlamentare israeliano Ahmad Tibi disse: «Israele è [uno stato] democratico per gli ebrei, ed ebraico per gli arabi».

Intendeva dire che la doppia natura di Israele, quella ebraica e quella democratica, pesava diversamente sugli ebrei (che godevano dei benefici di uno stato democratico) e sui palestinesi israeliani (che subivano le conseguenze di vivere in uno stato etnico). Da allora le cose non hanno fatto che peggiorare.

Oltre 600 mila coloni israeliani si sono stabiliti in Cisgiordania, rendendo l’occupazione militare e lo stato di apartheid in cui vivono gli abitanti palestinesi un fatto quasi irreversibile. La guerra a Gaza ha reso sempre più difficile definire “democratico” uno stato che mette in atto sistematicamente quelli che con ogni probabilità sono crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Rispetto a quanto diceva Ahmad Tibi dieci anni fa, inoltre, a causa del governo Netanyahu per la prima volta si è ristretto lo spazio democratico non soltanto dei palestinesi, ma anche quello degli ebrei. Anche per questo, è sempre più difficile definire Israele una democrazia compiuta.