Come gli israeliani si assuefecero alla violenza
Anni prima della guerra di oggi a Gaza: lo spiega Anna Momigliano in un libro sulla società e sulla storia di Israele, "Fondato sulla sabbia"

La lunga storia della Palestina e di Israele che oggi va avanti con la guerra nella Striscia di Gaza è molto complicata e difficile da capire e negli ultimi mesi sono stati pubblicati vari libri scritti con l’intento di aggiungere spiegazioni e approfondimenti. Uno di questi è Fondato sulla sabbia di Anna Momigliano, un saggio agile sulla società e la storia di Israele uscito da poco per Garzanti. Momigliano è stata ospite della puntata di Globo del 7 maggio e qui pubblichiamo un estratto del libro. Racconta come l’attuale società israeliana si assuefece a nuove forme estreme di violenza dopo la fine della Seconda Intifada, la grande rivolta armata dei palestinesi, tra il 2000 e il 2005.
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La Seconda Intifada è finita nel 2005, con gli accordi di Sharm el-Sheikh, in Egitto, che segnarono la ripresa dei negoziati diretti tra israeliani e palestinesi: da quel momento, qualche tentativo di rilanciare il processo di pace c’è stato, ma senza portare a passi avanti concreti. Il terrorismo palestinese continuò a farsi sentire, ma con un’intensità più bassa, anche perché Israele, nel frattempo, aveva iniziato a costruire, proprio in quegli anni, una “barriera di separazione” (in ebraico Geder Ha-Hafrada) per tenere lontani i palestinesi della Cisgiordania, e dunque rendere più difficile compiere attentati: è il famoso “Muro” di cui si sente spesso parlare, che in alcuni casi è davvero un muro di cemento, in altri è composto da una rete metallica, e che non ricalca la Linea Verde che separa Israele dalla West Bank, ma ingloba parte di essa dal lato, per così dire, “israeliano.”
Volendo riassumere per sommi capi quello che è successo con la fine della Seconda Intifada, si potrebbe dire che per gli israeliani la vita è ripresa, ritornando a uno stato di quasi-normalità: dico “quasi” perché il terrorismo è continuato, così come è continuato, e anzi aumentato, il lancio di razzi palestinesi sulle città israeliane (di questo parleremo più tardi), senza contare che ci sono state guerre, però il periodo più buio, quello in cui la vita quotidiana era resa impossibile dagli autobus esplosi, sembrava lasciato alle spalle. Dunque, gli israeliani sono tornati alle loro vite, anzi la loro qualità della vita è migliorata, perché l’economia si è molto sviluppata, al punto che il reddito pro-capite ha superato quello di Paesi europei come Italia e Regno Unito. E questo senza l’avanzare di un processo di pace, mentre per i palestinesi l’Occupazione continuava, e anzi si faceva più dura, con l’aumento delle colonie e dei posti di blocco, e, col passare degli anni, sembrava sempre più destinata a diventare permanente.
Uno dei risultati è quella che Yehuda Shaul, il fondatore di Breaking the Silence, definisce «l’illusione che il conflitto potesse essere gestito, anziché essere risolto». Il suo ragionamento, che mi ha spiegato quando ci siamo incontrati a Gerusalemme nel 2024, è questo: per anni la sinistra favorevole al processo di pace, aveva sostenuto che porre fine all’Occupazione era una necessità, sia per ragioni di sicurezza che per ragioni economico-diplomatiche, e che se l’Occupazione fosse proseguita Israele sarebbe andato incontro a un disastro; ma poi, quando questa cosa non si è verificata, una parte del pubblico israeliano si è convinta che, tutto sommato, si può vivere bene anche senza la pace. L’idea di fondo, per buona parte del campo pro-Oslo, era che Israele aveva bisogno di fare la pace per convincere i palestinesi a porre fine al terrorismo e anche perché, essendo l’Occupazione illegale e anti-democratica, c’era il rischio di venire isolati a livello internazionale e, di conseguenza, subire anche conseguenze economiche.
«Ci avevano detto che sarebbe arrivato uno tsunami diplomatico, ma poi quello tsunami non è arrivato e anzi l’economia è esplosa», mi ha detto Yehuda.
A partire dalla fine della Seconda Intifada – e ancora più a partire dal 2009, quando viene eletto per la seconda volta premier Benyamin Netanyahu – si apre un capitolo in cui il processo di pace svanisce gradualmente dalla politica israeliana. La destra era contraria già prima; un certo tipo di centrismo, che era sorto proprio a difesa del modello “terra in cambio di pace” sull’onda lunga di Oslo, svanisce; e la sinistra, che un tempo aveva fatto del modello Oslo uno dei suoi cavalli di battaglia, ora invece si concentra su tutt’altri temi. «A un certo punto, nasce una sinistra israeliana in cui praticamente il conflitto israelo-palestinese non esiste. I temi di sinistra diventano altri, come i diritti civili, i diritti delle donne o l’eguaglianza economica, ma per almeno una decade la sinistra non si è più occupata di Occupazione», commenta Yehuda.
Il movimento pacifista si è ridotto all’osso: «Ai tempi di Oslo, il campo anti-Occupazione era composto da una maggioranza che sosteneva il processo di pace per ragioni pratiche, quelli che vedevano l’Occupazione come una minaccia per la sicurezza israeliana, e da una minoranza che lo sosteneva per ragioni idealistiche, quelli che pensavano che l’Occupazione fosse un abominio e andasse smantellata per ragioni morali. Poi però l’alleanza è saltata e sono rimasti soltanto gli idealisti».
Se i Territori palestinesi spariscono dal radar della sinistra e del centro, lo stesso non si può dire della destra, che, col passare degli anni, diventa sempre più legata al movimento dei coloni, anche per ragioni demografiche, visto che gli israeliani che fanno riferimento al nazionalismo religioso, infatti, sono aumentati per numero e peso politico: «Il paradosso è che dei Territori occupati ha continuato a parlare solo chi voleva annetterli!», riassume, efficacemente, Yehuda. «Non c’era più un dibattito sui Territori, perché ormai si sentiva solo la campana del campo pro-annessione, il campo anti-Occupazione non contava più nulla. La destra ha monopolizzato il tema».
Molti israeliani, dunque, si convincono che l’Occupazione è un problema per i palestinesi, e non anche loro; si illudono che il conflitto possa essere gestito, anziché risolto; si abituano all’idea di vivere bene anche in assenza di una pace coi palestinesi. Circa nello stesso periodo, ovvero gli anni successivi alla fine della Seconda Intifada, gli israeliani iniziano ad abituarsi anche a un’altra cosa: bombardare la Striscia di Gaza.
Ripercorriamo i fatti precedenti: nel 2005 Israele si era ritirato unilateralmente dalla Striscia di Gaza, smantellando le colonie e la presenza militare, mantenendo però il controllo del mare, dei confini e dello spazio aereo e, due anni dopo, Hamas, che aveva vinto le elezioni parlamentari del 2006, ha preso il potere nella Striscia. Il golpe di Hamas a Gaza ha fatto di questo territorio un’entità a sé stante, separata dalla Cisgiordania, che era ancora governata dall’Autorità nazionale palestinese, e governato da un gruppo estremista, che rappresentava una minaccia concreta per Israele. Hamas e la Jihad islamica già prima avevano preso l’abitudine di lanciare razzi e missili contro il territorio israeliano, diretti soprattutto a zone confinanti, come le città di Sderot, Beer Sheva e Ashdod, ma in alcuni casi capaci di raggiungere anche Tel Aviv; tuttavia, a partire dal ritiro di Israele, i lanci si sono intensificati parecchio. Gli attacchi sono diventati talmente comuni che, per esempio, i parchi giochi di Sderot includono rifugi di cemento rinforzati per i bambini (in genere li si dipinge con colori vivaci e disegni di animali per travestirli, in qualche modo, da casette-giocattolo).
Israele ha reagito bombardando, ciclicamente, il territorio controllato da Hamas. Il copione è, spesso, anche se non sempre, lo stesso: i razzi lanciati da Gaza superano una certa soglia, l’aviazione israeliana lancia una massiccia campagna di bombardamenti, che indeboliscono le strutture di Hamas e Jihad islamica, che, a questo punto, sono costretti a ridimensionare il lancio di razzi. Poi, quando le due milizie hanno ricostruito i loro arsenali, ricomincia tutto da capo. Questa strategia è stata soprannominata “tagliare l’erba,” ricorrendo a una metafora di una crudezza impietosa: l’aviazione israeliana distrugge gli arsenali delle milizie palestinesi, ma poi va da sé che quegli arsenali di razzi saranno ricostruiti, come l’erba ricresce dopo essere stata tagliata, e Israele a quel punto bombarderà di nuovo.
Per i palestinesi di Gaza, questo ciclo di violenze è devastante, porta con sé una quantità di morti che non è paragonabile a quella delle fasi precedenti del conflitto israelo-palestinese. L’Operazione Piombo Fuso, che è durata meno di un mese, a cavallo tra il 2008 e il 2009, ha fatto quasi 1,400 morti. Nel 2012 c’è stata una nuova operazione militare, Colonna di Nuvola, più contenuta ma nel 2014 un’altra operazione, passata alla storia come Tzuk Eitan (termine difficile da tradurre, letteralmente “margine protettivo”), ne ha fatti oltre duemila in appena due mesi. Infine, nel 2021 c’è stata una quarta operazione, contenuta rispetto alla precedente, ma che ha pur sempre fatto centinaia di morti.
È una tragedia di proporzioni nuove, non paragonabile alla Seconda Intifada. Anche la sproporzione tra vittime israeliane e quelle palestinesi, che già era marcata, raggiunge livelli nuovi. Non che gli israeliani non soffrano, in tempo di guerra, ma i loro morti si contano nell’ordine di decine. Per gli israeliani, questo ciclo di violenze è molto meno doloroso rispetto alla Seconda Intifada, per i palestinesi di Gaza lo è molto di più.
Il conflitto israelo-palestinese entra in una nuova fase, terribile, in cui l’uccisione di migliaia di persone a Gaza è diventata un fatto ciclico. E, quando le tragedie diventano una routine, il brutto è che alla fine ci si abitua. Durante l’Operazione Piombo Fuso, il primo grande bombardamento della Striscia, ebbe molto risalto sui media la storia di Izzeldin Abuelaish, un medico di Gaza che lavorava all’ospedale Tel Hashomer di Tel Aviv, che era spesso ospite della televisione israeliana e che scoprì in diretta di avere perso tre figlie e una nipote sotto un bombardamento israeliano. La storia del dottor Abuelaish, un volto conosciuto, rispettato, che parlava bene ebraico, colpì le coscienze di molti israeliani. Ma da allora l’attenzione dei media di lingua ebraica alle vittime civili a Gaza è diminuita costantemente. Oggi, salvo qualche eccezione, i media israeliani difficilmente darebbero spazio a un ospite come il dottor Abuelaish.
Quello che abbiamo visto in questo capitolo è un’evoluzione, o meglio un’involuzione, all’interno della società israeliana, da una fase storica in cui il processo di pace sembrava avere chance di successo e una parte importante della popolazione e della politica era decisa a porre fine all’Occupazione, a una fase diversissima, in cui molti israeliani si erano abituati a vivere in (relativa) sicurezza, mentre l’Occupazione proseguiva in Cisgiordania e mentre a Gaza venivano uccise, periodicamente, migliaia di persone.
Quello che è successo a Gaza tra il 2023 e il 2024 rappresenta, in parte, il prodotto e la fine di questo equilibrio. Certo, i numeri delle vittime di Piombo Fuso e Tzuk Eitan impallidiscono rispetto a quelli dell’ultima campagna militare su Gaza, ma il fatto che i bombardamenti massicci erano già diventati una routine, come se si trattasse di “tagliare l’erba,” ha contribuito a renderli possibili. Eppure, quando Hamas ha attaccato a sorpresa Israele, il 7 ottobre, il Sud di Israele, massacrando in un solo giorno più di mille persone, in stragrande maggioranza civili, uomini, donne e bambini, stanandoli casa per casa nei kibbutz, nelle città, in un festival musicale, è svanita, tutto d’un tratto e nel peggiore dei modi, la grande rimozione del conflitto coi palestinesi. L’illusione che la questione palestinese potesse essere gestita, anziché risolta, si è sciolta come neve al sole.
© 2025, Anna Momigliano
© 2025, Garzanti S.r.l., Milano
Pubblicato in accordo con l’editore
– Ascolta anche la puntata di Globo: Come Israele è diventato così, con Anna Momigliano