5 cose emerse da quest’edizione del festival di Cannes

Non ci sono stati i filmoni degli ultimi anni, le produzioni sudcoreane interessano meno, e MUBI si è fatta notare

di Gabriele Niola

(Lewis Joly/Invision/AP)
(Lewis Joly/Invision/AP)
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Il festival di Cannes di quest’anno seguiva due edizioni molto importanti, i cui film si erano poi rivelati tra quelli più importanti dell’annata: le cose sembrano essere andate diversamente, stavolta. Benché la vita commerciale dei film presentati a Cannes quest’anno inizi adesso che il festival è finito, e c’è la possibilità che qualcuno diventerà tra i più importanti dell’anno, sembra chiaro che nessuno è uscito dal festival tra grandi plausi ed entusiasmi. Né c’erano film che erano particolarmente attesi prima, escluso Mission: Impossible – The Final Reckoning.

Nel 2023, invece, erano stati presentati al festival Anatomia di una caduta, Perfect Days, La zona d’interesse e Killers of the Flower Moon. Nel 2024 invece Anora, The Apprentice, Emilia Perez, Megalopolis, The Substance, Il seme del fico sacro e Furiosa: A Mad Max Saga. La differenza tra le dimensioni di quei film e quelli presentati quest’anno è stata piuttosto evidente. Ci sono comunque alcune cose successe durante il festival e al mercato collegato che sono probabilmente destinate a influenzare una parte dell’annata di cinema.

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Il “Grande Slam” dei festival di Jafar Panahi
La Palma d’oro vinta dal film Yek tasādof-e sāde, tradotto in inglese come It Was Just an Accident, rende il regista iraniano Jafar Panahi il secondo nella storia del cinema ad aver vinto il primo premio nei quattro principali festival di cinema europei: Venezia, Cannes, Berlino e Locarno. Panahi ha vinto il Pardo d’oro a Locarno nel 1997 con Lo specchio, il Leone d’oro a Venezia nel 2000 con Il cerchio, l’Orso d’oro a Berlino nel 2015 con Taxi Teheran e ora la Palma a Cannes. Prima di lui era riuscito nell’impresa solo Michelangelo Antonioni con Il grido, La notte, Deserto rosso e Blow-Up. Nessuno fino a ora è riuscito ad aggiungere a questi quattro riconoscimenti anche il premio Oscar, che non è espressione di un festival ma una premiazione nazionale (statunitense), nonché il segno di un successo extra europeo.

E It Was Just an Accident potrebbe riuscire nell’impresa di vincere almeno un Oscar, perché Neon, la società che ha comprato i diritti di distribuzione negli Stati Uniti e quindi curerà la campagna Oscar, è la stessa che negli ultimi anni ha portato diversi vincitori di Palma d’oro a essere premiati negli Stati Uniti. Con una costanza e un intuito che hanno pochi precedenti, dal 2019 Neon riesce ad acquistare per la distribuzione negli Stati Uniti il film che poi vince la Palma d’oro, e a costruire campagne Oscar efficaci. Iniziò con Parasite, che vinse quattro Oscar tra cui quello al miglior film, e si è poi ripetuta con Anatomia di una caduta (Oscar alla miglior sceneggiatura) e quest’anno con Anora, che ha vinto cinque premi tra cui miglior film. It Was Just an Accident non è però il solo film in concorso a Cannes acquistato da Neon: anche Sirat, Sentimental Value e L’agente segreto saranno distribuiti da loro, e si può immaginare saranno portati in modi diversi agli Oscar.

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Un’edizione senza filmoni
Non è stata un’edizione di Cannes con molti titoli che possono incassare bene. Rispetto all’anno scorso, in cui Anora, The Substance ed Emilia Perez avevano mostrato da subito delle qualità commerciali, quest’anno solo L’agente segreto, il film brasiliano che ha vinto sia il premio per il miglior attore, andato a Wagner Moura (noto per aver interpretato Pablo Escobar nella serie Narcos), sia quello per la miglior regia, andato a Kleber Mendonça Filho, sembra poter interessare un pubblico più ampio.

Tuttavia, anche considerando solo il pubblico dei più appassionati, non è stata un’edizione di grandi consensi per nessun film, escluso il vincitore. Sentimental Value di Joachim Trier, Sirat di Oliver Laxe e Two Prosecutors di Sergei Loznitsa sono stati i film più apprezzati.

L’unico film italiano in concorso è piaciuto soprattutto agli italiani
L’unico film italiano in concorso, Fuori di Mario Martone, è stato apprezzato dalla critica italiana ma meno da quella straniera. Il critico americano di IndieWire David Katz ha spiegato bene le ragioni di questa disparità di giudizio nell’introdurre la sua recensione positiva del film: scrive che nonostante le molte partecipazioni a grandi festival di Martone, «spesso i critici anglofoni nel recensire i suoi film, affascinanti e intellettualmente densi, sono rimasti perplessi. È un regista che condensa bene il localismo del cinema italiano (o per meglio dire la sua pertinenza su temi che incrociano politica, religione e questioni regionali), la cosa può essere catartica per gli spettatori del suo paese ma rimane oscura per tutti gli altri».

Sono finiti gli anni d’oro delle produzioni sudcoreane?
Al mercato dei film di Cannes che si svolge in contemporanea al festival si comprano e vendono la maggior parte dei film che poi saranno distribuiti nel resto dell’anno. È considerato un buon indicatore di come cambiano gli equilibri cinematografici del mondo, e a giudicare da quello di quest’anno sembra che sia finito il periodo d’oro dei film sudcoreani.

Nel 2019 la vittoria di Parasite era stata al tempo stesso l’apice di un lungo processo di crescita in riconoscimenti, valore e prestigio dei film fatti in Corea del Sud, grazie a una nuova generazione di registi che iniziarono a cavallo del 2000 a partecipare ai festival. Fu anche il lancio di un periodo in cui le produzioni sudcoreane erano molto richieste e comprate, specialmente in Europa.

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Secondo Screen International invece quest’anno ci sono stati alcuni venditori di film coreani che non hanno venduto niente all’Europa, nemmeno un film, e alcuni paesi, come la Francia e la Germania, non hanno comprato nulla da nessun venditore sudcoreano. Il fatto che per la prima volta in 12 anni non ci fosse un film sudcoreano nella selezione ufficiale di Cannes (il complesso di tutte le sezioni del festival) ha sicuramente contribuito, visto che la sola partecipazione a Cannes aumenta l’interesse per un film. È un grosso problema per le società sudcoreane, che al momento hanno rimediato puntando di più sui mercati asiatici.

MUBI è stata molto attiva
Al contrario la società che si è fatta più notare al mercato è stata MUBI. Essendo una piattaforma di streaming, MUBI acquista diritti per alcuni territori, poi spesso si accorda con altre società per distribuire i suoi film nelle sale e dopo quel passaggio li rende disponibili per i suoi abbonati nei paesi per i quali ha i diritti. A differenza di Netflix e Prime Video, infatti, MUBI raramente possiede i diritti dei propri film per tutti i paesi del mondo, ma ha cataloghi diversi a seconda dei territori.

MUBI ha acquistato diritti per alcuni paesi del mondo di alcuni dei film più costosi presentati quest’anno a Cannes, come Die, My Love con Robert Pattinson e Jennifer Lawrence (pagato molto: 24 milioni di dollari), The History of Sound con Josh O’Connor e Paul Mescal, L’agente segreto, Sentimental Value e Sirat. Secondo i giornali che seguono il mercato quest’anno MUBI è stata molto muscolare, offrendo cifre che altri non possono permettersi.

È una tendenza che fa il paio con l’aggressività delle piattaforme di streaming maggiori nei confronti del cinema commerciale. Come Netflix, Prime Video o Apple TV+, anche MUBI, nel suo ambito, sembra usare una disponibilità economica superiore ai distributori tradizionali per attirare film importanti, e comprare così tanto da affermarsi come l’interlocutore principale per le produzioni maggiori di carattere cinefilo.

I dazi preoccupano, ma fino a un certo punto
Nel complesso il mercato sembra essere andato bene, specialmente considerate le premesse: si temeva infatti che l’annuncio di Donald Trump di possibili dazi ai film in entrata negli Stati Uniti avrebbe potuto cambiare molti equilibri. Per chi vende film gli Stati Uniti sono un territorio importante, e la paura di dover pagare dazi del 100% per qualsiasi film poteva inibire gli affari. Non è stato così. Il mercato, sempre secondo Screen International, ha ignorato queste preoccupazioni, e tutto si è svolto più o meno come al solito.

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Ma a un’analisi più approfondita di quanto avvenuto negli incontri, negli eventi e nelle trattative sembra che si stia strutturando un rapporto diverso tra Europa e Stati Uniti. A gennaio su Le Figaro era comparsa una lettera indirizzata alle istituzioni culturali dell’Unione europea firmata da 27 ministri della cultura europei (tra cui l’italiano Alessandro Giuli), in cui veniva chiesto un sostegno maggiore ai film europei e alle coproduzioni continentali.

È un’iniziativa che rientra in un più ampio piano per supplire all’eventuale fine di un buon rapporto commerciale con gli Stati Uniti. Emma Rafowicz, vicepresidente della commissione cultura e istruzione dell’Unione europea, è venuta a Cannes durante il festival e ha parlato chiaramente dell’esigenza di «prendere posizione contro il nazionalismo culturale americano».