Fateli voi dei film così belli in Iran

Nonostante arresti e dure limitazioni, i registi dissidenti hanno da anni enorme successo di critica e di pubblico: si è visto anche a Cannes

Jafar Panahi alla conferenza stampa del suo film a Cannes (Andreas Rentz/Getty Images)
Jafar Panahi alla conferenza stampa del suo film a Cannes (Andreas Rentz/Getty Images)
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Da circa quindici anni l’Iran è il paese in cui è più rischioso in assoluto fare film. Dal 2009 infatti il regime persegue i registi che non rispettano le numerose regole imposte dalla censura nazionale. In questi anni il cinema iraniano clandestino è diventato uno tra i più vitali e premiati del mondo, anche se ai suoi registi più apprezzati è spesso vietato lasciare il paese, in alcuni casi gli viene vietato girare film, e comunque questi non vengono distribuiti in patria. In queste difficili condizioni è nata una nuova corrente di film che hanno fatto il giro del mondo.

Quest’anno a Cannes sono in concorso due registi iraniani. Uno è il più importante dei nostri anni, simbolo stesso della resistenza, definito da Hollywood Reporter “il regista dissidente più acclamato del mondo”, Jafar Panahi. L’altro si è affermato più di recente ma è stato anche lui perseguitato e punito dal regime: Saeed Roustaee. Entrambi hanno realizzato film considerati capolavori in condizioni e con difficoltà impensabili per qualsiasi altro regista, rischiando la propria libertà e incolumità. I film che hanno portato quest’anno a Cannes non fanno eccezione e sono considerati tra i migliori in concorso.

Jafar Panahi, per la prima volta in quindici anni, è uscito dall’Iran e ha potuto andare fisicamente a un festival. Nel 2009 gli era stato proibito di lasciare il paese per essere andato al funerale di un ragazzo morto durante le proteste del Movimento Verde. Nel 2010 fu arrestato perché insieme a un altro regista noto, Mohammad Rasoulof, stava girando un documentario sulle proteste di quel movimento. I due furono incarcerati.

Panahi rimase in carcere quindici giorni durante i quali fu più volte interrogato con la faccia rivolta verso il muro. Dopo il rilascio gli fu imposto il divieto di girare film per vent’anni. In quel momento Panahi era già uno dei registi più importanti del paese: aveva vinto il Leone d’oro a Venezia nel 2000 con Il cerchio e aveva ricevuto un premio a Cannes con Il palloncino bianco nel 1995. Subito, nel 2011, il festival di Berlino lo invitò come giurato per mostrare al mondo che il governo non gli avrebbe permesso di uscire. In quell’edizione la sedia da giurato di Panahi rimase sempre vuota e la questione fu molto discussa.

Jafar Panahi (il quinto da sinistra) col cast del suo film, in questi giorni a Cannes (Daniele Venturelli/WireImage)

Da quando il governo gli ha imposto il divieto di realizzare film ne ha comunque girati sei, tutti contrabbandati fuori dall’Iran e presentati in grandi festival internazionali. Uno di questi ha vinto l’Orso d’oro a Berlino (Taxi Teheran), un altro il premio speciale della giuria a Venezia (Gli orsi non esistono). La sua determinazione a continuare a girare film nonostante il divieto gli è costata un secondo arresto, nel 2022. L’occasione fu una sua protesta per il secondo arresto dell’amico e collega Rasoulof.

Questa volta fu trattenuto in carcere per sei mesi e liberato dopo uno sciopero della fame e la vendita della sua casa per poter pagare la cauzione. Più il regime lo ha represso, più ha girato film che hanno vinto premi, ottenuto riconoscimenti e portato attenzione sulla sua condizione. In certi casi li ha diretti dal carcere attraverso intermediari. E nonostante molti registi come lui siano fuggiti dal paese, Panahi ha più volte dichiarato di non avere alcuna intenzione di farlo, ma di voler continuare a fare film a modo suo in Iran. Data anche la sua statura artistica questo suo agire è divenuto un esempio per gli altri.

Per girare di nascosto Panahi ha usato una serie di espedienti da lui inventati, e ogni volta solo gli attori e pochi collaboratori conoscono la trama di ciò che si deve girare. Closed Curtain per esempio è un film interamente girato in casa (la sua), a tende chiuse; Taxi Teheran è un film in cui lui, nei panni di se stesso, guida per Teheran con una videocamera nascosta sul cruscotto, inquadrando sé stesso e i passeggeri, e facendo entrare e uscire dalla macchina gli attori per costruire una storia ricca di risvolti. In Gli orsi non esistono, in cui di nuovo interpreta sé stesso, mostra come riesca a girare scene d’ambientazione cittadina nonostante il divieto. Una troupe di fiducia esegue tutto mentre lui si trova in un luogo nascosto, prima di dare il ciak e registrare gli mostrano via Zoom le inquadrature, le scene, le luci, e lui approva.

Film girati in simili condizioni e con questa opposizione governativa verrebbero comunque selezionati dai festival, che sono interessati a sostenere e dare visibilità al cinema libero e di protesta. Quel che rende tutto fuori dal comune è che si tratta anche di film apprezzati, pieni di idee, inventiva, scrittura eccellente e straordinario spirito umano. Panahi, per esempio, è uno dei pochi ad aver vinto tre dei quattro premi europei più importanti (Orso d’oro a Berlino, Pardo d’oro a Locarno e Leone d’oro a Venezia).

Il film che ha portato a Cannes quest’anno, It Was Just an Accident, è stato anch’esso subito apprezzato. Come spesso accade nei film iraniani lo spunto iniziale dà vita a un intreccio molto coinvolgente: una famiglia con una bambina piccola, guidando di notte, investe per errore un cane. L’incidente innesca una serie di eventi che portano il padre a contatto con un uomo che riconosce in lui il suo carceriere; lo rapisce e si prepara a seppellirlo vivo per vendetta ma viene colto da un dubbio. Non è sicuro che sia davvero lui, e contatta altri ex detenuti per una conferma. Ne emerge una situazione paradossale, in bilico tra vendetta e comprensione, il tutto con un tono che difficilmente ci si aspetterebbe da chi ha vissuto due volte il carcere iraniano: la commedia.

La ragione per cui, per la prima volta in quindici anni, Panahi è presente a Cannes con il proprio film è che un cavillo legale ha annullato il divieto a girare e lasciare il paese. Inoltre, ha spiegato lui stesso, la coincidenza con le elezioni ha comportato un allentamento della pressione, visto che è il dissidente più in vista del paese. È dunque libero ma se volesse girare senza nascondersi dovrebbe accettare di sottoporre i suoi film alla censura di Stato. Come dice lui stesso non ne ha intenzione e quindi continua a lavorare come prima.

It Was Just an Accident è stato girato e fatto uscire dall’Iran di nascosto e infatti molte regole del regime vengono violate. Ad esempio le donne non indossano sempre il velo fuori casa, in linea con una consuetudine sempre più diffusa a Teheran e osteggiata dal governo. In una delle prime interviste date una volta fuori dal paese Panahi ha potuto anche smentire una voce che circolava da anni: e cioè che facesse uscire i film dal paese dentro chiavette USB nascoste nelle torte.

Saeed Roustaee e Parinaz Izadyar a Cannes (Monica Schipper/2025 Getty Images)

Il film di Roustaee in concorso invece è Woman and Child. Dopo aver ottenuto il maggiore incasso della storia del cinema iraniano per un film non comico nel 2019 con il poliziesco Metri šiš o nim, Roustaee ha girato Leila e i suoi fratelli, opera di grande successo internazionale presentata a Cannes nel 2022. Il suo rifiuto di tagliare alcune scene come richiesto dalla censura e l’invio del film a un festival senza autorizzazione gli hanno causato problemi con il regime.

La sua ostinazione nel sostenere le proprie ragioni poi ha portato a una condanna a sei mesi di reclusione nel 2023. La motivazione ufficiale sosteneva che il regista si fosse «schierato con i media dell’opposizione, influenzati dalla propaganda delle forze controrivoluzionarie» e che fosse colpevole di aver «intensificato la battaglia mediatica contro l’autorità religiosa, spinto dalla brama di fama e denaro». La pena è stata sospesa e Roustaee ha passato solo nove giorni in carcere. Tuttavia per i prossimi cinque anni dovrà frequentare un corso che gli insegni a realizzare film nel rispetto della morale nazionale. Nel frattempo è a Cannes in concorso.

Woman and Child, pur rispettando quasi tutte le regole della censura, è un film di grande tensione e oppressione. Nella storia una donna rimasta sola con due figli subisce una tragedia della quale incolpa vari uomini e inizia a cercare di punirli da sola. Questi, una volta compreso cosa sta accadendo, si coalizzano per punirla a loro volta. L’aspetto più impressionante del film è il modo in cui, pur restando dentro i limiti della censura, mostra le molteplici modalità con cui lo Stato e la legge penalizzano legalmente le donne, mentre il sistema a vari livelli favorisce gli uomini che intendono compiere le stesse azioni.

Come già in Leila e i suoi fratelli, anche qui lo stile e il look del film sono internazionali, con un ritmo narrativo, dialoghi e svolte continue di taglio commerciale. Al pari di Woman and Child si tratta di film che, oltre a ricevere attenzione per le condizioni politiche in cui sono stati realizzati, possiedono qualità di scrittura, recitazione e regia di altissimo livello, che li renderebbero eccezionali anche al di fuori delle difficoltà produttive.

In una situazione simile si trovano ovviamente molti altri cineasti come per esempio Ali Asgari, che ha studiato cinema in Italia e a cui, dopo aver diretto e portato a Venezia il film a episodi intitolato in Italia Kafka a Teheran, è stato vietato di girare film.

Altri registi iraniani di questa ondata si sono fatti notare con film che hanno raccolto consensi quasi unanimi, hanno avuto un’ampia distribuzione mondiale, e in alcuni casi hanno avuto la possibilità di fare film in altri paesi con attori e attrici molto noti. L’anno scorso fu presentato in concorso a Cannes Il seme del fico sacro, un film di Mohammad Rasoulof.

Il film racconta la storia di un padre, procuratore dello Stato, a cui scompare la pistola d’ordinanza. La cosa è molto grave e lui sospetta della moglie e delle figlie, al punto da sequestrarle e interrogarle. Anche qui, come in tutti questi film iraniani degli ultimi quindici anni, accade qualcosa di cui non è chiara la dinamica o le forze in campo, questo evento che unisce personaggi diversi, ciascuno con una versione differente, in un appassionante tentativo di capire la verità. Rasoulof, che dal carcere aveva diretto Il male non esiste, un film a episodi che nel 2020 vinse l’Orso d’oro alla Berlinale, era stato condannato alla fustigazione e a otto anni di prigione. Non appena ha potuto è fuggito dall’Iran e ora vive e lavora in Germania.

Come si intuisce nonostante questi film siano opera di registi diversi con stili e personalità differenti, ciò che li accomuna è il fatto che raccontano tutti l’impossibilità di affermare con certezza qualcosa, in un paese in cui il governo fabbrica quotidianamente la propria verità e la impone. Il più grande interprete di questa strategia è anche il regista iraniano più famoso al mondo: Asghar Farhadi.

Fu il primo di questa ondata a farsi notare nel 2011, con il film Una separazione. Vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino e poi l’Oscar per il miglior film straniero, avvicinando molti spettatori al cinema iraniano grazie al ritmo concitato e alla scrittura appassionante. Il successo di quel film gli permise di girare Il passato in Francia, con attori francesi come Berenice Bejo, e poi Tutti lo sanno in Spagna, con Javier Bardem e Penélope Cruz. Dopo queste esperienze è tornato a fare film in patria, riscuotendo ancora grande successo internazionale. A differenza di altri Farhadi non viola le regole della censura ma si muove intorno a esse, rendendo le storie impossibili da valutare, come se prendesse in giro la censura stessa.

Nei suoi film c’è sempre un evento che non vediamo, attorno al quale i personaggi si scontrano, ciascuno con una propria teoria o un proprio fine. In Una separazione per esempio il nodo è una spinta che forse un uomo ha dato a una donna, facendola cadere dalle scale. Lei dice che è avvenuto, lui nega. Questa accusa scatena una serie spettacolare di voltafaccia, scoperte e capovolgimenti di fronte. Il punto centrale del film quindi è se l’uomo abbia o meno toccato la donna, e il risultato è che la realtà è inconoscibile fino in fondo, dunque tecnicamente non c’è violazione della regola del non contatto tra uomini e donne stabilita dalla censura.

Nel 2022 Farhadi è stato accusato di plagio da una sua studentessa a cui, sostiene lei, avrebbe rubato l’idea per il suo film Un eroe. La pena sarebbero stati tre anni di detenzione. Dopo due anni di battaglia legale nel 2024 è stato assolto. In seguito all’evento si è trasferito fuori dall’Iran e ha dichiarato che non farà più film in Iran.