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  • Mercoledì 21 maggio 2025

Con Leone XIV il ruolo del Vaticano sulla guerra in Ucraina sta cambiando

Ma è ancora molto presto per capire se davvero potrà ospitare a breve colloqui di pace tra Putin e Zelensky

Leone XIV riceve Volodymyr Zelensky in Vaticano il 18 maggio 2025 (Vatican Media/LaPresse)
Leone XIV riceve Volodymyr Zelensky in Vaticano il 18 maggio 2025 (Vatican Media/LaPresse)
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Lunedì sera, dopo aver parlato al telefono con Vladimir Putin e dopo aver riferito dell’esito di questo colloquio agli alleati europei, Donald Trump ha pubblicato sul suo social network Truth un post in cui annunciava che «Russia e Ucraina inizieranno immediatamente i negoziati verso un cessate il fuoco». Il post si concludeva così: «Il Vaticano, come detto dal Papa, ha dichiarato che sarebbe molto interessato a ospitare i negoziati. Che il tutto abbia inizio». Questo riferimento così diretto ed esplicito al Vaticano ha sorpreso un po’ i governi europei e gli stessi diplomatici della Santa Sede.

Non perché l’ipotesi non sia stata effettivamente considerata: ma perché – ne è convinto tra gli altri anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani – sarebbe stato opportuno tenere riservata la notizia e non esporre già in questa fase preliminare, e in modo tanto evidente, il papa e il segretario di Stato Pietro Parolin (che agisce per il Vaticano come una specie di primo ministro con un’ampia delega agli esteri). Anche Giorgia Meloni in realtà ha dato un certo risalto alla cosa, spiegando in un comunicato che «è stata considerata positivamente la disponibilità del Santo Padre ad ospitare i colloqui presso il Vaticano».

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È presto per dire se le cose andranno così, se insomma davvero è lecito attendersi che nel giro di qualche settimana Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin si parlino direttamente in Vaticano. Ma è una possibilità che sembrava piuttosto inverosimile fino al mese scorso e ora non lo è più, in gran parte per il nuovo ruolo che sta avendo la diplomazia vaticana da quando è diventato papa Robert Francis Prevost, Leone XIV.

Il primo segnale in questo senso il papa lo ha dato durante la sua prima udienza, il 14 maggio. Parlando della necessità di promuovere la pace, ha detto: «Perché questa pace si diffonda, io impiegherò ogni sforzo. La Santa Sede è a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi». Quelle parole sono state recepite dalle diplomazie occidentali come un fatto notevole. Questa convinzione è stata poi confermata dai colloqui che il vicepresidente JD Vance e il segretario di Stato americano Marco Rubio hanno avuto in Vaticano col papa stesso, con Parolin e col cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana.

Zelensky, ricevuto da Prevost subito dopo la messa di intronizzazione domenica scorsa, ha auspicato che questa mediazione con la Russia avvenga presto.

Anche il governo italiano ha intensificato i colloqui con la diplomazia della Santa Sede. Negli ultimi giorni sono stati piuttosto frequenti: sia i più stretti collaboratori di Meloni, sia il ministro Tajani, hanno verificato l’effettiva praticabilità di questa soluzione, anzitutto con Parolin. Poi se ne sono fatti promotori nei colloqui avuti con gli alleati occidentali.

Il Vaticano ha una straordinaria rete diplomatica e una capacità di influenza sui governi occidentali, e non solo, probabilmente ineguagliabile: da sempre i governanti statunitensi ne sono affascinati e anche un po’ spaventati. Negli Stati Uniti si ricorda spesso una vecchia massima attribuita a Hugh Wilson, ambasciatore in Germania e in Svizzera negli anni Trenta, secondo cui «il Vaticano è il più efficiente servizio segreto d’Europa».

Per l’Italia e per Meloni vale invece quel che diceva il democristiano Giulio Andreotti, forse il politico italiano che nel secondo Novecento ebbe le relazioni più solide col Vaticano: diceva che avere ottimi rapporti col Vaticano era un buon modo per garantirsi centralità nella diplomazia, visto che col papa prima o poi tutti vogliono o devono parlarci. Meloni infatti ha accolto con entusiasmo la possibilità che i colloqui vengano ospitati in Vaticano per mostrare di avere un’importanza nelle trattative diplomatiche in corso, dopo le critiche ricevute per il suo mancato coinvolgimento in alcuni importanti colloqui tra i leader europei, Trump e Zelensky.

L’ultimo segnale è stato un inconsueto comunicato, pubblicato dallo staff di Meloni martedì sera, nel quale si dava notizia di una telefonata di poche ore prima tra la presidente del Consiglio e il papa per discutere dei «prossimi passi da compiere per costruire una pace giusta e duratura in Ucraina»: Meloni prova insomma ad avere un po’ il ruolo della mediatrice tra il Vaticano e il resto dell’Occidente.

In ogni caso il cambio di atteggiamento del Vaticano sulla guerra in Ucraina rispetto a quando c’era papa Francesco al momento è evidente: sia nell’orientamento, sia nel metodo con cui vengono gestite le relazioni. Papa Francesco aveva tenuto una posizione piuttosto equidistante tra la Russia e l’Ucraina, attirandosi anche delle critiche per alcune dichiarazioni avventate.

Bergoglio era fortemente critico nei confronti dell’imperialismo statunitense. Questo orientamento, già emerso nei primi anni del suo pontificato, è diventato manifesto dopo l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo nel febbraio del 2022. Aveva condannato con toni non proprio perentori l’aggressione da parte della Russia, e fin dall’inizio aveva condiviso analisi che in modo più o meno esplicito tendevano a spiegare, se non a giustificare, la decisione di Putin alla luce di un presunto espansionismo della NATO.

Fin dall’inizio papa Francesco si era detto disponibile a visitare Kiev, ma specificando che lo avrebbe fatto solo se prima avesse avuto l’opportunità di andare a Mosca per parlare con Putin: e non avendo mai ottenuto questa autorizzazione, ha sempre rifiutato l’invito di Zelensky.

Papa Francesco incontra il patriarca Kirill nell’aeroporto dell’Avana, a Cuba, il 12 febbraio 2016 (Gregorio Borgia/Ap Photo)

Papa Francesco ha sempre mostrato una certa freddezza nei confronti di Zelensky. I due incontri avuti in Vaticano durante la guerra – nel maggio del 2023 e nell’ottobre del 2024 – oltre al colloquio riservato avuto durante il G7 a Borgo Egnazia, nel giugno del 2024, furono tutti segnati da toni abbastanza tesi, e non valsero granché a smuovere il Vaticano a prendere una netta posizione a favore dell’Ucraina.

Nel maggio del 2023, papa Francesco nominò come mediatore del Vaticano tra Russia e Ucraina il cardinale Matteo Zuppi. Zuppi ha interpretato questo ruolo con generosità, parlando un po’ con tutte le parti in causa e facendosi ricevere a Kiev, a Mosca e a Washington: la sua azione però non ha prodotto grandi risultati diplomatici, anche per via dell’anomalia del suo ruolo, che si sovrapponeva un po’ con quello di Parolin, cioè colui che secondo la prassi vaticana sarebbe stato titolato a compiere queste mediazioni per conto del papa.

Papa Francesco è sempre stato abbastanza insofferente alle prassi della Curia romana, il governo del Vaticano. E infatti finiva col definire di volta in volta la posizione del Vaticano con dichiarazioni estemporanee, che spesso generavano grosso clamore e grossa confusione. Come quando nel maggio del 2023 alluse a una missione segreta in corso per favorire la pace tra Russia e Ucraina, senza fornire altri dettagli. O come quando nel marzo del 2024, durante un’intervista alla Radiotelevisione svizzera, esortò l’Ucraina ad avviare dei negoziati di pace, pronunciando in quel contesto una frase che venne interpretata da tutti gli osservatori come una presa di distanze piuttosto netta da Zelensky: «Credo che è più forte quello che vede la situazione, pensa al popolo e ha il coraggio della bandiera bianca».

Anche per questo i diplomatici ucraini sono tra quelli che mostrano maggiore apprezzamento per i primi segnali di Leone XIV, che a loro sembrano in netto contrasto rispetto all’approccio precedente. Ciò che sembra cambiato è la volontà del Vaticano di mettersi a disposizione dei negoziati, dialogando in modo più costruttivo e rispondendo alle consuetudini diplomatiche coi governi occidentali.

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