Quest’anno le grandi aziende sponsorizzeranno di meno i Pride

Soprattutto negli Stati Uniti, dove il governo è fortemente contrario alle iniziative a favore della comunità LGBTQ+, ma anche in Italia

Il Pride di San Francisco nel 2022 (Arun Nevader/Getty Images)
Il Pride di San Francisco nel 2022 (Arun Nevader/Getty Images)
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Da quando l’amministrazione del presidente statunitense Bill Clinton l’ha designato ufficialmente come «mese dell’orgoglio lesbico e omosessuale» nel 1999, in molti paesi il mese di giugno è quello in cui si concentrano manifestazioni e celebrazioni per la visibilità e i diritti delle persone LGBTQ+, cioè persone gay, lesbiche, bisessuali, trans, queer, intersessuali, asessuali e che non si riconoscono nei ruoli di genere tradizionalmente intesi. Da una decina di anni, giugno è anche il mese in cui molte grandi aziende investono particolarmente per dare mostra di sostenere la comunità LGBTQ+. Lo fanno soprattutto finanziando i Pride, che sono gli eventi più attesi di questo periodo, sempre più spesso partecipati anche da chi non fa parte della comunità LGBTQ+, ma vuole mostrare di sostenerla.

È un’operazione che, finora, a queste aziende è servita soprattutto per attrarre clienti che fanno parte della comunità LGBTQ+ o che ne sostengono i diritti, in un contesto in cui i consumi personali vengono sempre più spesso accompagnati da riflessioni sul posizionamento sociale ed etico dell’azienda a cui si danno i soldi. Soprattutto negli Stati Uniti (dove la maggior parte di queste aziende ha la sede principale), questa cosa sta cambiando. Un po’ perché le aziende stanno riducendo le spese non essenziali in un momento di instabilità economica, ma soprattutto perché, politicamente, è più rischioso, considerata l’avversione dell’amministrazione di Donald Trump a qualsiasi iniziativa istituzionale o aziendale a favore di inclusione e diversità e la sua posizione sui diritti delle persone LGBTQ+.

In un sondaggio condotto dall’istituto di ricerca Gravity Research su decine di dirigenti aziendali statunitensi di vari settori, circa 2 intervistati su 5 hanno detto che nel 2025 la loro azienda ridurrà gli investimenti nel mese del Pride rispetto agli anni precedenti, sia per quanto riguarda gli eventi interni all’azienda, sia per quanto riguarda la sponsorizzazione di manifestazioni pubbliche.

Il presidente di Gravity Research Luke Hartig ha detto che «le reazioni dei conservatori sono il principale motore di questo cambiamento»: sei aziende su dieci hanno detto esplicitamente che sono preoccupate di subire ritorsioni da parte dell’amministrazione Trump. Tra le altre cose, negli ultimi quattro mesi, il governo federale ha ordinato la messa in congedo immediata di tutti i funzionari che si occupano di promuovere inclusione, diversità e rispetto dell’uguaglianza all’interno delle proprie agenzie, e Trump stesso ha definito queste iniziative «illegali e immorali». Bob Witeck, che si occupa specificatamente di marketing mirato alla comunità LGBTQ+, ha detto a NBC News che nella sua esperienza molte aziende sentono che, continuando a sostenere il Pride, si espongono ad «attacchi ingiusti e indesiderati». Quelle che lavorano per il governo federale attraverso contratti anche molto redditizi, poi, temono di perderli.

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Tre quarti dei dirigenti di aziende che vendono beni di consumo, poi, hanno detto a Gravity Research di aver paura delle reazioni negative da parte degli attivisti conservatori che potrebbero organizzare boicottaggi nei confronti dei loro marchi. Come era successo, per esempio, nel 2023 con il marchio di birra Bud Light, che aveva collaborato con l’influencer trans Dylan Mulvaney per una pubblicità.

Questi cambiamenti hanno un impatto soprattutto sui budget dei Pride, che negli ultimi anni si sono affidati molto a collaborazioni e finanziamenti di aziende e istituzioni per proporre eventi più elaborati, che attirano e riescono ad accogliere anche centinaia di migliaia di persone, offrendo anche musica, performance e la presenza di ospiti celebri.

Secondo Hartig, di Gravity Research, già l’anno scorso varie aziende avevano cominciato a ridurre i finanziamenti alle iniziative per il mese del Pride, «riconoscendo che quello dei diritti LGBTQ+ era diventato un tema politico controverso in vista delle elezioni presidenziali, e stava diventando più rischioso prendere posizione in qualsiasi modo come azienda».

Quest’anno, a circa un mese dalle manifestazioni (che, a seconda della città, si tengono nei vari weekend di giugno) molte persone che organizzano i vari Pride segnalano che alcuni dei propri sponsor storici hanno ridotto o del tutto eliminato il proprio contributo economico, e altri sponsor si stanno facendo attendere molto più a lungo del solito. Sta succedendo anche in Italia: su Wired, Daniele Biaggi ha scritto che Unicredit e Amazon non sponsorizzeranno più il Pride di Milano. Amazon, che negli anni scorsi aveva anche partecipato alla manifestazione con un carro da cui avevano suonato cantanti note come Paola e Chiara, quest’anno parteciperà soltanto con una delegazione di dipendenti.

«Quest’anno alcune aziende che in passato ci hanno sostenuto hanno deciso di non rinnovare il supporto. Le motivazioni? Investiremo altrove, non abbiamo budget, sosterremo la diversity in altri modi», ha detto un rappresentante di Milano Pride a Wired. «Il Milano Pride è possibile grazie all’impegno di centinaia di volontari, ma è il contributo degli sponsor a rendere l’evento sostenibile e a finanziare il Rainbow Social Fund, che supporta servizi e progetti per la comunità LGBTQ+».

Mario Colamarino, che presiede l’organizzazione del Pride di Roma, ha invece detto al Post che finora tutti gli sponsor contattati che hanno risposto hanno confermato la propria partecipazione. «Forse la differenza principale è che negli anni scorsi ad aprile o inizio maggio era tutto definito, mentre ora i tempi decisionali sono molto più lunghi. Forse i passaggi decisionali interni alle aziende sono diventati più complessi. Ma i dati veri e propri li avremo soltanto dopo il Pride».

Negli Stati Uniti, l’impatto è stato decisamente maggiore. Kevin Kilbride, uno degli organizzatori del Pride di New York, uno dei più grandi al mondo, ha detto che quest’anno un terzo di tutte le aziende partner storiche dell’evento ha ritirato, ridotto o non ancora finalizzato i propri impegni di finanziamento. In tutto, rispetto agli anni scorsi si aspetta una perdita di almeno 350mila dollari di finanziamenti, su un budget complessivo solitamente di oltre 3 milioni. L’azienda di supermercati Target, peraltro, ha confermato il proprio sostegno economico, ma ha chiesto di essere un «partner silenzioso»: nella pratica vuol dire chiedere che il logo dell’azienda non figuri nella lista degli sponsor ufficiali dell’evento.

In base alle collaborazioni passate, il Pride di San Francisco quest’anno contava di raccogliere circa 2,3 milioni di dollari dalle sponsorizzazioni delle aziende, ma finora ne ha ottenuti solo 1,25. Tra le aziende che si sono ritirate ci sono Comcast (a cui appartiene la società di intrattenimento e informazione NBCUniversal), Diageo (che possiede marchi di alcolici come Guinness, Smirnoff e Tanqueray), Nissan e Anheuser-Busch (quelli della Bud Light). Suzanne Ford, direttrice dell’organizzazione del San Francisco Pride, dice che il problema vero non è la possibilità o meno di organizzare l’evento in sé: è che i finanziamenti servono anche per sostenere il lavoro delle associazioni locali che forniscono servizi importanti alla comunità LGBTQ+ della città tutto l’anno.

Per eventi grandi come quelli di New York e San Francisco, queste perdite ammontano a un 10 per cento circa del budget totale: nel caso di Pride più piccoli, però, le perdite superano spesso il 50 per cento. In questi casi, gli organizzatori stanno cercando di colmare quel vuoto chiedendo donazioni alle piccole aziende sul territorio e a singoli individui. Il Pride di St. Louis, in Missouri, ha perso la sponsorizzazione di Anheuser-Busch, che durava da trent’anni: il direttore dell’organizzazione ha detto di aver colmato quasi del tutto il buco nel bilancio grazie a una raccolta di donazioni individuali molto riuscita.

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Il Twin Cities Pride del Minnesota, che riunisce la comunità dell’area metropolitana di Minneapolis-Saint Paul, a inizio anno ha annunciato che avrebbe rifiutato la sponsorizzazione di Target dopo che l’azienda aveva tagliato i propri programmi interni in favore di inclusione e diversità. La somma avrebbe dovuto essere di 50mila dollari, ma dopo aver annunciato la decisione hanno raccolto 113mila dollari in donazioni individuali. A Philadelphia il problema non si è posto, perché già nel 2022 l’organizzazione aveva deciso di smettere di accettare qualsivoglia tipo di finanziamento da parte delle aziende.

Da anni, infatti, all’interno della comunità LGBTQ+ molte voci criticano la forte presenza aziendale e istituzionale agli eventi per il mese del Pride. Una delle ragioni è che i finanziamenti da parte delle grandi aziende allontanerebbero le manifestazioni dal loro significato politico originario, dato che i primi Pride erano stati organizzati come proteste contro la marginalizzazione socioeconomica delle persone LGBTQ+ e la limitazione dei loro diritti, ed erano spesso anche molto critiche nei confronti delle istituzioni.

L’altra accusa è che le aziende che finanziano e partecipano ai Pride volessero costruirsi un’immagine progressista e aperta nei confronti delle minoranze di genere, senza fare però qualcosa di concreto per loro nel resto dell’anno, e anzi spesso portando avanti pratiche aziendali nettamente in contrasto con i valori del Pride. «Quando quella LGBTQ+ era una causa popolare da un punto di vista politico, stavano tutti a inseguirci [per finanziare i Pride]», ha commentato Suzanne Ford, di San Francisco Pride. «Adesso stanno affrontando decisioni più difficili».

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