La pratica tutta italiana di mandare le squadre di calcio “in ritiro”
Roberto De Zerbi addirittura ha portato il Marsiglia a Roma: in Francia non capiscono

Questa settimana l’italiano Roberto De Zerbi, che allena la squadra di calcio del Marsiglia, ha deciso di portare i giocatori e lo staff a Roma, per farli stare alcuni giorni assieme lontano dalla Francia, in una situazione di semi-isolamento nella quale al termine dell’allenamento non tornano a casa propria. È il cosiddetto ritiro, una pratica diffusa nel calcio italiano da decenni, anche se oggi è molto cambiata e in buona parte attenuata, da non confondere con il ritiro estivo, quello per cui le squadre stanno via anche un mese e fanno la preparazione fisica in vista della nuova stagione.
La convinzione (non necessariamente fondata) da cui scaturisce l’esigenza di organizzare i ritiri è che in momenti particolarmente delicati, quindi quando la squadra sta andando male o quando ci sono partite importanti in vista, sia fondamentale “fare gruppo”, stare assieme 24 ore su 24 ed evitare contatti con l’esterno. Di solito le squadre non vanno all’estero, ma restano semplicemente a dormire nel loro centro sportivo. È una cosa soprattutto italiana: durante ogni stagione alcune squadre di Serie A, ma anche delle categorie inferiori, quando sono in difficoltà “vanno in ritiro”, come si dice in gergo, mentre nei campionati stranieri è piuttosto raro, a meno che appunto non siano allenatori italiani a proporlo.
Quando succede, i media stranieri sono talmente spaesati nei confronti di questa pratica che non sanno nemmeno con che parola definirla, e finiscono spesso per usare direttamente la parola “ritiro”, in italiano. Per spiegare la scelta di De Zerbi col Marsiglia, per esempio, il giornale francese Ouest-France ha dovuto pubblicare un articolo intitolato «Che cos’è il “ritiro”, questa pratica italiana importata da Roberto De Zerbi?».
Per queste ragioni, e per la notevole spesa economica che il soggiorno a Roma comporta per il club, in Francia la decisione di De Zerbi è parecchio chiacchierata. Il Marsiglia in questo momento è secondo in Ligue 1, il campionato francese, e si sta giocando un posto nella prossima Champions League: ha però perso quattro delle ultime sei partite, e la situazione tra De Zerbi e la squadra viene raccontata come piuttosto tesa e complicata. Per provare a rimediare, come molti allenatori e presidenti italiani prima di lui, De Zerbi ha optato quindi per il ritiro.
Un bel posto in cui andare in ritiro, in effetti
In Italia, si diceva, è una decisione che viene presa abitualmente, molte volte non dagli allenatori ma da dirigenti e proprietari, e che ha quasi sempre ragioni punitive: dopo una brutta sconfitta un presidente impone un ritiro, o addirittura i tifosi “chiedono” (e talvolta persino “invocano”!) il ritiro nella speranza, un po’ populista, che la squadra riacquisisca una certa compattezza (sempre ammesso che l’abbia persa).
Il presidente e proprietario del Napoli Aurelio De Laurentiis è ancora uno dei più affezionati a questa soluzione: tra il 2019-2020 e l’anno scorso il Napoli è andato in ritiro almeno una volta per stagione (solo nell’anno in cui vinse lo Scudetto non ci andò, perché le cose funzionavano bene). Nel primo di questi casi la squadra e l’allenatore di allora, Carlo Ancelotti, si rifiutarono di andarci: Ancelotti fu esonerato poco dopo e i calciatori multati per ammutinamento. Claudio Lotito, della Lazio, è un altro presidente che ricorre spesso al ritiro.
È in effetti una pratica piuttosto peculiare e non molto diffusa in altri ambienti: nel lavoro capita che i dipendenti di un’azienda restino a dormire fuori assieme per qualche giorno (oggi si chiama team building), ma questa cosa non avviene per punizione, e anzi se così fosse sarebbe mal vista e probabilmente illegale. Anche nel calcio, a dire il vero, il ritiro è considerato lecito quando è una scelta tecnica della società o dell’allenatore, quindi in teoria non potrebbe mai essere punitivo e infatti spesso viene fatto passare come un’occasione per migliorare lo spirito di gruppo. Di fatto, però, quasi sempre le squadre vanno in ritiro dopo una brutta sconfitta e sembra a tutti gli effetti una punizione.

Carlo Ancelotti con José María Callejón ai tempi del Napoli, nel 2019 (SSC NAPOLI/Getty Images)
L’intento e le modalità del ritiro sono comunque cambiate negli anni. Oggi semplicemente le squadre si allenano e restano assieme per qualche giorno consecutivo nel loro centro sportivo, evitando di parlare con i giornalisti. Una volta invece capitava che fossero ritiri quasi ascetici (e per questo venivano chiamati così), come quelli imposti da Romeo Anconetani, presidente del Pisa dal 1978 al 1994. «Con lui c’erano tre livelli di ritiri punitivi. Il peggiore a Volterra in inverno senza avere a disposizione neanche la tv. A Villa delle Rose a Pescia si stava un po’ meglio, ma non c’erano né la tv né le carte da gioco. Il ritiro classico era previsto invece in un hotel con campo di allenamento e la possibilità di guardare la televisione e fare una partita a carte», raccontava al Foglio l’ex calciatore Lamberto Piovanelli.
Fino ai primi anni Duemila era piuttosto comune in Italia (ma non altrove) che le squadre imponessero ai giocatori di dormire al centro sportivo la notte precedente alle partite, anche quando avrebbero giocato in casa. Si faceva per migliorare l’affiatamento e la conoscenza reciproca, ma anche per evitare che i calciatori si distraessero. Oggi questa cosa, a parte appunto nei casi del ritiro punitivo, non si fa più, anche perché è molto meno consueto che i calciatori escano a fare serata il giorno prima della partita. I calciatori sono quindi abituati a vivere a casa propria e andare al centro sportivo solo per allenarsi, come qualsiasi persona che va al lavoro, e solo in trasferta passano sere e notti tutti assieme; il ritiro viene quindi visto da molti come una cosa sempre più anacronistica.

Romeo Anconetani in una foto del 1980 (Alessandro Sabattini/Getty Images)
Alessandro Gaucci, dirigente e figlio dell’ex presidente del Perugia Luciano Gaucci, ha raccontato che nella stagione 1992-1993, quando era in Serie C1, la squadra andò per 15 volte in ritiro a Norcia, dove «tutti ormai ci conoscevano. Mio padre pensava che più i suoi giocatori sarebbero rimasti lontani dalle distrazioni, più avrebbero vinto». Un’altra volta invece, quando l’allenatore era Giovanni Galeone e la squadra giocava in Serie A, «mio padre si arrabbiò per una sconfitta e mandò la squadra in ritiro in un albergo di camionisti. Un ritiro più che punitivo».
Al giorno d’oggi, secondo molti osservatori, l’idea di fondo dei ritiri ha smesso di essere rilevante, perché è più complicato impedire ai calciatori di isolarsi quando sono in ritiro. Con gli smartphone e la tecnologia non sono infatti obbligati a socializzare e a stare assieme nei momenti in cui non si allenano, che è uno dei fattori ritenuti fondamentali per l’efficacia di un ritiro.