Perché Poste Italiane si è presa Tim

Con un'operazione sorprendente il governo spera di rilanciare una storica azienda italiana in crisi da anni, e tutto il settore delle telecomunicazioni

Matteo Del Fante, l'amministratore delegato di Poste Italiane, a marzo del 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
Matteo Del Fante, l'amministratore delegato di Poste Italiane, a marzo del 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
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La mossa con cui Poste Italiane è arrivata nel fine settimana a detenere quasi il 25 per cento di Tim, diventandone primo azionista e prendendone sostanzialmente il controllo, ha diverse ragioni che la rendono una delle operazioni più notevoli degli ultimi anni nel settore delle telecomunicazioni.

È una storia che riguarda la più importante azienda italiana del settore, Tim, in crisi da tempo; una società controllata dallo Stato che si chiama Poste ma da tempo si occupa anche di molto altro, oltre alle poste; il socio francese che le ha venduto le quote, cioè la società Vivendi, la cui esperienza da primo azionista di Tim è stata molto burrascosa. Più in generale, riguarda le telecomunicazioni: un settore importante ma sempre meno profittevole, e per questo oggetto di grandi cambiamenti.

I dettagli e i tempi di questa operazione di per sé raccontano già diverse cose.

Poste Italiane ha trovato sabato un accordo per comprare il 15 per cento delle azioni di Tim da Vivendi, dopo che solo qualche settimana fa aveva ottenuto un primo 9,81 per cento di Tim da Cassa Depositi e Prestiti, società pubblica che ha partecipazioni in molte aziende italiane per conto del ministero dell’Economia. Considerando che Poste Italiane ha investito ben 850 milioni di euro per acquistare queste quote, la sua posizione in Tim è stata costruita con una rapidità inusuale.

I motivi dell’operazione sono stati spiegati da Poste con un comunicato stampa in cui ha detto di voler essere un «azionista industriale di lungo periodo», che possa rilanciare Tim e integrarne le attività con quella di Poste. L’azienda ha da tempo attività in rami diversi da quello postale: tramite la controllata Postepay offre servizi finanziari, forniture di gas ed elettricità, e servizi di telefonia con il marchio PosteMobile. Proprio la telefonia, ovviamente, potrebbe fornire reciproci vantaggi alle due aziende.

L’amministratore delegato di Tim, Pietro Labriola (Cecilia Fabiano /LaPresse)

Poste ha già deciso che dal 2026 userà per i suoi utenti le infrastrutture e la rete mobile di Tim, al posto di quella di Vodafone che usa oggi. Tim potrebbe invece avvantaggiarsi della diffusa rete di uffici di Poste Italiane per pubblicizzare i suoi prodotti (una pratica però probabilmente scorretta sul piano della concorrenza, come ha già fatto notare l’Antitrust per i servizi energetici pubblicizzati agli sportelli di Poste). Ma ci sono comunque dei dubbi sulla convenienza economica dell’intera operazione per lo Stato.

Negli ultimi anni Poste è cresciuta molto, tanto da essere considerata un esempio virtuoso tra le società a controllo pubblico: il suo bilancio è considerato solido e il valore delle sue azioni è aumentato di più del 150 per cento negli ultimi dieci anni. Tanto che Poste oggi vale complessivamente tre volte Tim, che invece da anni è in declino. Tim infatti è ancora l’azienda di telecomunicazioni con la maggior quota di mercato in Italia, ma non si trova in una situazione facile.

Negli anni Novanta era una delle aziende di telecomunicazioni di maggior successo in Europa, ma oggi ha un ruolo marginale a livello internazionale: per decenni è stata gravata da un debito di decine di miliardi di euro che ne ha azzoppato investimenti e sviluppo. Per ripianare quel debito, Tim ha dovuto vendere parte della sua rete, in particolare l’infrastruttura di rete fissa. L’ha ufficialmente ceduta a giugno dell’anno scorso al fondo statunitense KKR, e una parte l’ha comprata il ministero dell’Economia.

I conti di Tim ora sono molto migliorati, ma l’azienda ha bisogno di rilanciarsi e da tempo gli addetti ai lavori ipotizzano collaborazioni tra Tim e altri operatori. Poste ha detto di essere favorevole a incentivare operazioni di questo tipo: l’ipotesi più concreta di cui si parla è una fusione di Tim con Iliad, operatore francese a basso costo attivo in Italia dal 2018, che ha recentemente manifestato interesse per questa operazione. Il settore delle telecomunicazioni è del resto interessato da tempo da una tendenza al cosiddetto “consolidamento”, cioè all’unione di aziende già esistenti – attraverso acquisti, fusioni, collaborazioni – per creare gruppi più grandi.

La sede centrale di Tim, a Rozzano, in provincia di Milano (AP Photo/Antonio Calanni)

Il consolidamento è necessario per avere aziende che abbiano la possibilità di competere, innovare e investire all’estero, dal momento che il settore europeo delle telecomunicazioni è particolarmente frammentato: in Europa ci sono 34 operatori di rete mobile contro i tre degli Stati Uniti e i quattro della Cina. Un esempio concreto di consolidamento è la futura fusione tra Vodafone Italia e Fastweb, coordinata dalla società svizzera Swisscom, che creerà un operatore unico direttamente concorrente di Tim. Soprattutto in Italia, il consolidamento delle aziende delle telecomunicazioni è considerato particolarmente urgente.

Il nostro settore, infatti, è considerato uno tra i più concorrenziali dell’Unione Europea e del mondo. È positivo per i consumatori, almeno a breve termine, perché beneficiano di tariffe più convenienti proprio per la concorrenza tra molti operatori; è negativo per lo sviluppo del settore a medio e lungo termine, visto che margini e guadagni ridotti non permettono di garantire innovazione e investimenti. Una conseguenza è che in Italia ci sono ancora importanti differenze territoriali nell’accesso alla rete e ai servizi di telefonia.

L’operazione di Poste quindi non serve al governo solo per il rilancio di Tim, ma anche per quello dell’intero settore delle telecomunicazioni, che in questi anni ha risentito della particolare condizione in cui versava Tim.

Vivendi era diventata azionista di Tim nel 2016, quando con una cosiddetta “scalata” – cioè comprando azioni direttamente sul mercato – ottenne quasi il 24 per cento del capitale dell’azienda. L’allora governo italiano, guidato da Paolo Gentiloni, scelse di usare il golden power, uno strumento che permette al governo di bloccare o condizionare operazioni finanziarie su aziende considerate strategiche per l’interesse nazionale.

In quel caso Vivendi non fu bloccata nell’acquisizione delle quote di Tim, ma le furono poste condizioni pesanti. Con la successiva cessione della rete di Tim a KKR, a cui Vivendi si era opposta, il valore dell’azienda si era molto ridotto. Vivendi ha fatto ricorso contro entrambe le decisioni, senza successo, subendo grosse perdite rispetto all’investimento iniziale; in questo momento fa ancora parte della società ma con una quota residuale del 2,51 per cento.

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