La pandemia ha cambiato davvero il modo di lavorare?
Ha mostrato che lo si poteva fare in un posto diverso dalla sede aziendale, anche se dopo l'emergenza l'impulso straordinario allo smart working è un po' rientrato

Lo scorso giugno la giornalista Jerusalem Demsas ha scritto sull’Atlantic che oggi il dibattito pubblico attorno al lavoro da casa è spesso appiattito sulla dicotomia “i capi lo odiano e i lavoratori lo amano”. In realtà però, come scrive la stessa Demsas, le sfumature sono molte di più e anche le variabili che condizionano il ricorso allo smart working sono parecchie. È un discorso che vale anche per l’Italia, dove il lavoro da casa è ancora diffuso cinque anni dopo il primo grande esperimento di massa, cioè quello che avvenne con la pandemia da coronavirus: non per tutti e non allo stesso modo però, e nemmeno come all’inizio della pandemia.
In cinque anni le cose sono molto cambiate. Quando nel 2020 la maggior parte delle persone dovette cominciare a lavorare da casa, si dubitava che l’esperimento potesse riuscire: era una decisione dovuta alle restrizioni introdotte per limitare i contagi da coronavirus, e molte imprese non avevano mai provato il lavoro da remoto prima. Eppure funzionò, con tutte le difficoltà del caso e in alcuni posti meglio di altri. Si pensò quindi a un certo punto che lo smart working fosse un’abitudine destinata a restare, che gli uffici si sarebbero svuotati e che i tavoli del soggiorno sarebbero diventati le nuove scrivanie.
Non è andata proprio così: con la fine della fase più critica dell’emergenza molte aziende hanno deciso di riportare i propri dipendenti in presenza, come si può vedere anche dal grafico qui sotto con i dati elaborati dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. Del “ritorno in ufficio” si è continuato a parlare negli ultimi mesi anche in seguito al fatto che alcune grosse aziende come Amazon e Unipol hanno chiesto la presenza dei propri dipendenti cinque giorni alla settimana (mercoledì ha fatto un annuncio in questo senso anche John Elkann, presidente del gruppo Stellantis).
Secondo alcuni osservatori esperti sentiti del Post, quindi, più che rivoluzionare completamente i posti di lavoro lo smart working ha introdotto dei cambiamenti ormai difficilmente ignorabili.
Cominciamo dai numeri. Nel 2020 in Italia lavorarono da remoto oltre 6 milioni e 500mila persone, sui circa 22 milioni di dipendenti del settore pubblico e privato. L’anno dopo i lavoratori in smart working erano diminuiti di oltre un terzo: dal 2022 il numero è rimasto sostanzialmente costante, ma nasconde tendenze molto diverse a seconda della dimensione delle imprese considerate. Nel 2024 il ricorso allo smart working è aumentato nelle grandi imprese, dove ha coinvolto quasi 2 milioni di lavoratori e lavoratrici. La situazione è ben diversa nelle piccole e medie imprese: i lavoratori da remoto sono stati 520mila rispetto ai 570mila del 2023, anche se il calo maggiore è stato comprensibilmente nel 2021, quando si dimezzarono rispetto al primo anno della pandemia.
Complessivamente però il numero di persone che ha lavorato da remoto nel 2024 è stato di molto superiore rispetto a quello del 2019: tre milioni e 750mila contro appena 570mila. E secondo le stime dell’Osservatorio del Politecnico i lavoratori da remoto dovrebbero aumentare ancora nel 2025 in tutte le tipologie di imprese e nella pubblica amministrazione.
Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico, dice che rispetto allo smart working l’esperienza della pandemia può essere considerata «positiva». Quantomeno, spiega, ha fatto vedere che si poteva lavorare in un posto diverso dalla sede aziendale anche a quelle imprese prima molto restie al lavoro da remoto. Per Crespi tuttavia è più corretto parlare di lavoro a distanza perché all’epoca, nella stragrande maggioranza dei casi, non si lavorò in modo flessibile né per obiettivi come invece prevede il concetto di smart working. «Si doveva lavorare da casa e basta, e quindi si passò da un eccesso all’altro, dalla presenza costante al remoto totale. Mancò quell’elemento di equilibrio, fondamentale per lo smart working», dice.
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Oggi si sta verificando un riassestamento del lavoro da casa, dice Crespi, sia per come viene applicato sia per il numero e la tipologia di lavoratori e lavoratrici che possono farlo. Negli ultimi due anni in Italia è cresciuto un modello di smart working “ibrido strutturato”, nel senso che permette di lavorare da casa ma spesso solo in giorni definiti con il datore di lavoro. «È una forma di irrigidimento per chi si era abituato a lavorare sempre da casa, ma è un tentativo di bilanciare tra la presenza e la distanza senza tornare completamente al passato», dice Crespi. Il modello ibrido è ancora più utile quando è flessibile, perché permette alle persone di scegliere il luogo migliore in cui lavorare un determinato giorno in base alle cose da fare. E quindi per esempio se un giorno è da dedicare a un’attività che richiede molta concentrazione si può lavorare da casa, mentre se ci sono compiti per cui bisogna confrontarsi o comunicare molto con altre persone sarà più efficace trovarsi con i colleghi in ufficio.
Questo vale però soprattutto nelle grandi aziende e nei settori in cui è possibile farlo, cioè prevalentemente nei servizi, nelle banche e nelle assicurazioni. Organizzare il lavoro da remoto in alcuni settori, come quello manifatturiero, è chiaramente quasi impossibile. Non c’entra solo il settore, però: anche molte medie e piccole imprese che avrebbero potuto mantenere lo smart working in qualche modo hanno smesso di concederlo dopo la pandemia. Questa regressione si deve, dice Crespi, soprattutto a una cultura manageriale più improntata sul controllo a vista del lavoro delle persone, e a una minore innovazione tecnologica (entrambi gli aspetti possono caratterizzare anche le imprese più grandi, certo).
Secondo Crespi per ampliare il numero di aziende che adottano un approccio flessibile, smart, al lavoro si potrebbe ragionare in futuro su un orario più elastico, più che sul luogo di lavoro in sé, e su un’organizzazione del lavoro per obiettivi, apprezzata da molti lavoratori che così si sentono più motivati e responsabilizzati a fare quello che fanno.
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Tutto questo sta succedendo all’interno di una legislazione diversa rispetto al 2020. In Italia il lavoro agile è stato regolato nel 2017, con la legge n. 81. Durante la pandemia diversi provvedimenti hanno promosso procedure di accesso semplificato allo smart working, per cui un’azienda poteva decidere per esempio di far lavorare da remoto tutti i suoi dipendenti anche senza accordi preventivi. Nelle pubbliche amministrazioni le regole previste dalla legge del 2017 sono tornate in vigore a ottobre del 2021, con proroghe fino al 31 dicembre del 2023 per chi aveva almeno un figlio con meno di 14 anni, e per le persone considerate “fragili”. L’accesso semplificato allo smart working per le grandi aziende è finito invece il 31 dicembre del 2022, tranne che per chi aveva figli con meno di 14 anni e per i lavoratori cosiddetti fragili, i quali hanno avuto diritto allo smart working fino al 31 marzo del 2024.
Con la fine delle agevolazioni tutti i lavoratori sono dovuti tornare in ufficio, con l’eccezione di chi ha stipulato accordi individuali con il datore di lavoro. Molte grandi imprese hanno fatto anche accordi collettivi aziendali insieme ai sindacati per regolare internamente il lavoro da remoto. Aldo Bottini, avvocato giuslavorista e partner dello studio legale Toffoletto De Luca Tamajo e Soci, specifica che comunque l’unico requisito imprescindibile per legge è l’accordo individuale tra una persona e l’azienda, che va comunicato entro cinque giorni agli enti previdenziali per garantire la copertura in caso di infortuni anche da remoto.
Secondo Bottini, tuttavia, gli accordi migliori oggi sono quelli che lasciano ai gruppi di lavoro la gestione dell’alternanza tra il lavoro da remoto e quello in presenza. «I manager sono così responsabilizzati, perché devono capire quando stare in ufficio serve davvero e quando no», dice. Anche per Crespi questa possibilità di differenziare è positiva: se comunicata in modo trasparente, nella sua esperienza è compresa e accettata dalla maggior parte delle persone.
Al di là degli aspetti contrattuali però c’è poi tutta una questione legata alla socialità, per niente banale. Come ha scritto di recente in un articolo della sezione Storie/Idee del Post la giornalista Valeria Cecilia, l’ufficio «non è mai stato solo il posto dove si va a lavorare». È il luogo dove ci si confronta, si stringono legami personali e si costruisce un senso di collettività che per molti lavoratori e lavoratrici italiane è fondamentale anche per lavorare meglio: un fatto avvalorato da una ricerca dell’agenzia per il lavoro Randstad pubblicata a inizio febbraio. A questo proposito sia Bottini che Crespi pensano che negli ultimi anni ci sia stata una tendenza a valorizzare la presenza non solo come desiderio di stare fisicamente insieme agli altri, ma perché ci si è accorti che la socialità può aiutare le persone a essere più intraprendenti e a sentirsi più coinvolte nei progetti.
Ciononostante sono pochi quelli che oggi rinuncerebbero alla possibilità di un lavoro flessibile, che permetta di combinare la presenza in ufficio e il lavoro da casa. Crespi dice che per molti è diventato un requisito di partenza per accettare un nuovo impiego, anche se magari poi scelgono di lavorare prevalentemente in presenza. La possibilità di fare smart working consente alle persone di organizzare meglio i propri impegni e interessi al di fuori del lavoro e fa sentire tendenzialmente anche più motivati verso quello che si fa. È un aspetto registrato anche nell’indagine di Randstad, secondo cui la mancanza di flessibilità è la terza ragione per cui il 45 per cento degli intervistati rifiuterebbe un impiego, dopo l’assenza di benefit e di possibilità di carriera.
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