Lo scialpinismo è ancora scialpinismo se lo si fa su una pista?
Nell'ambiente è in corso un dibattito sulle modalità con cui sarà proposta alle Olimpiadi una disciplina da sempre più vicina all'alpinismo che allo sci da discesa

Alle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina del 2026 ci sarà per la prima volta lo scialpinismo, uno sport nel quale, attraverso l’utilizzo di particolari strisce di tessuto da applicare agli sci oppure a piedi e con gli sci in spalla, ci si muove anche in salita, oltre che in discesa. È una disciplina avventurosa e piuttosto faticosa, che si pratica normalmente lontani dai complessi sciistici, con uno spirito simile a quello con cui si fa alpinismo: e in cui quindi la componente di esplorazione è più importante rispetto a quella competitiva. Intuire e decidere il percorso migliore per salire su una cima, così come quello per scendere i pendii sulla cosiddetta “neve fresca”, cioè fuori dalle piste battute, è parte integrante dello sport.
Da tempo però si svolgono anche gare e campionati, in cui prevale l’aspetto atletico e sportivo, e che negli ultimi anni si svolgono sempre di più su percorsi prestabiliti, sia per la salita sia per la discesa. Alle Olimpiadi lo scialpinismo sarà proposto in questa versione, su una pista su cui è passato un gatto delle nevi a sistemare la neve (anche se le piste saranno più accidentate rispetto a quelle dei comprensori sciistici). Questo non sta piacendo a diverse atlete e atleti, in particolare quelli meno giovani e più legati alle origini dello sport. Secondo i più tradizionalisti, in sostanza, quello che si farà l’anno prossimo a Bormio (la sede prevista per la gara) non sarà vero scialpinismo, ma una versione edulcorata pericolosamente simile allo sci da discesa.
Tra loro c’è Katia Tomatis, quarantatreenne scialpinista che ha gareggiato fino a un paio di anni fa, secondo la quale una parte cruciale è proprio quella di «andarsi a cercare il percorso», cioè capire dove sia più veloce e sicuro salire e scendere, e tutto questo si perde nelle gare di scialpinismo in pista.
Le discussioni sono nate in particolare dopo il weekend di Coppa del Mondo (il principale circuito di gare di scialpinismo) di Andorra dello scorso 25 e 26 gennaio, quando a causa dell’assenza di neve sulle montagne gli organizzatori hanno dovuto cambiare percorso e far disputare le gare sulla neve sparata artificialmente e battuta dai gatti delle nevi, a fianco e lungo le piste da sci alpino (la disciplina che si vede normalmente alle Olimpiadi). Nel percorso previsto per la salita erano stati scavati addirittura dei gradini nella neve.
Alla partenza, il quarantunenne scialpinista francese William Bon Mardion ha incrociato le braccia sulla testa e si è rifiutato di gareggiare, rimanendo fermo; da quel momento diversi scialpinisti e scialpiniste sui social hanno sostenuto la sua protesta, utilizzando l’hashtag #SaveSkimo, «salvate lo ski mountaineering», come viene chiamata in inglese la disciplina.
Nello scialpinismo «certi atleti fanno cose che molti non pensano possibili. Alcuni sciano velocissimo a prescindere dalle condizioni della neve e dagli ostacoli che incontrano. Ora questi atleti vengono rallentati dalle porte su una pista perfettamente battuta. Perché non possono essere messi alla prova in condizioni più naturali?» ha scritto la scialpinista Martina Valmassoi
Secondo alcuni atleti e atlete, però, ad Andorra le condizioni erano piuttosto complicate: «O si faceva la gara così, o non si faceva proprio, perché non c’era neve fuoripista», dice lo scialpinista italiano Nicolò Canclini, 28 anni. Secondo Giulia Murada, 26 anni, bisognava esser lì per capire che «non c’erano alternative», e anzi gli organizzatori hanno dimostrato una certa prontezza nello spostare la gara e trovare un percorso alternativo su cui farla. È una condizione, questa, nella quale lo scialpinismo si trova con sempre maggior frequenza, perché c’è sempre meno neve in quota a causa della crisi climatica, e quando c’è si scioglie più rapidamente e rende quindi ancora più insicuri i percorsi fuoripista, dove c’è sempre il pericolo di valanghe. «La situazione della neve è critica, e dovremmo piuttosto ringraziare chi riesce ancora a farci gareggiare», dice Murada.
Non è comunque solo la possibile (e sempre più probabile) assenza di neve ad aver spinto il Comitato olimpico internazionale a proporre alle Olimpiadi solamente le tre prove dello scialpinismo più veloci e meno estreme, e cioè le sprint maschile e femminile e la staffetta sprint mista, che durano pochi minuti e si fanno di solito su tracciati meno remoti e accidentati. Ci sono anche e soprattutto ragioni televisive, perché è più complesso e costoso riprendere gli atleti su percorsi fuoripista potenzialmente molto vasti e imprevedibili. Secondo Tomatis però la cosa non regge: «Oggi con i droni riprendono gli sciatori alpini che vanno a cento all’ora, vuoi che non riescano a riprendere una persona che scende su una cresta, a velocità molto più limitata?», dice, sostenendo che esistano vari luoghi in cui le telecamere possono arrivare a riprendere «mantenendo l’essenza dello scialpinismo».
Sta di fatto che, almeno ai Giochi di Milano-Cortina, non ci sarà l’individuale, considerata la prova più vicina alla tradizione dello scialpinismo tra quelle della Coppa del Mondo perché più lunga e faticosa e svolta quasi tutta fuoripista. Bisogna però capire cosa si intenda per “tradizione”. «Sessant’anni fa mio nonno faceva gare in cui non c’era il cronometro, ma prove come il trasporto del ferito e la costruzione della truna [un bivacco di emergenza], e i punti si prendevano in base a come sapevi stare in montagna», racconta Canclini, evidenziando come la discussione nata in questi giorni sia anche generazionale, con gli atleti più esperti opposti al cambiamento in difesa di uno scialpinismo che, però, è a sua volta diverso da quello che facevano le generazioni precedenti.
«Se proprio dobbiamo dirlo, lo scialpinismo con un pettorale [cioè un numero per chi gareggia] non esiste», spiega anche Murada. I due atleti italiani sostengono insomma che lo scialpinismo si è evoluto continuamente e lo sta facendo anche oggi per far fronte alle esigenze climatiche, organizzative e pratiche. «Non è detto che queste gare ai giovani non piacciano, perché danno la possibilità a più persone di competere», dice ancora Murada, visto che altrimenti per fare scialpinismo fuoripista bisogna andare molto in quota e spingersi fino a luoghi difficili da raggiungere.

Giulia Murada in una gara del 2021 sull’Adamello (Davide Mombelli – Corbis via Getty Images)
In sostanza lo scialpinismo competitivo sta prendendo due direzioni diverse. Da un lato c’è quella più televisiva e per certi versi artificiale che si disputa alle Olimpiadi e con sempre maggiore frequenza in Coppa del Mondo, non apprezzata soprattutto da atleti e atlete più esperte. Dall’altro invece rimane la versione più temeraria e legata alla tradizione alpinistica, ancora presente nelle competizioni classiche come la Pierra Menta e la Patrouille des Glaciers, o semplicemente praticata dagli appassionati che prendono gli sci e vanno alla scoperta della montagna.
– Leggi anche: Sulle piste può mancare la neve, ma non l’après-ski



