Un’altra grossa operazione societaria tra Italia e Francia
Quella tra Generali e la banca BPCE, per creare una grande società di investimento tra alcune perplessità e lotte di potere dei soci

Dopo il discusso acquisto di azioni del Banco BPM da parte della banca francese Crédit Agricole, avvenuto a dicembre, c’è una nuova grossa operazione che coinvolge una società italiana e una francese. Generali, grande società italiana di assicurazioni con sede a Trieste, e BPCE, banca francese proprietaria della società di investimento Natixis, hanno firmato un’intesa per unire le loro divisioni investimenti e creare una grande società di investimento, che arriverebbe a gestire quasi 1.900 miliardi di euro per conto dei clienti. La nuova società diventerebbe così la nona al mondo per patrimonio gestito.
È una vicenda interessante non solo per la sua indubbia portata finanziaria, ma anche per i risvolti politici, societari ed economici che riguarderebbero Generali, uno dei poli assicurativi e finanziari più importanti in Italia.
Dal punto di vista politico è l’ennesima operazione con partner francese degli ultimi anni, portata avanti con un governo di impronta nazionalista che potrebbe peraltro decidere di bloccarla. Sul piano societario poi si intreccia con le recenti vicende del cosiddetto “risiko bancario”, cioè tutte le operazioni di fusione e acquisizione del mondo bancario. La più recente è il tentativo di MPS di acquistare Mediobanca, una delle più importanti banche d’investimento italiane.
Sia in quest’ultima operazione che in quella che riguarda Generali e Natixis, hanno un ruolo due società importanti, i cui affari e lotte di potere sono legate a molti settori dell’economia italiana: sono il gruppo Delfin – sotto cui ricadono gli affari della famiglia Del Vecchio, quella del gruppo EssilorLuxottica – e il noto imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone, attivo tra le altre cose nel settore finanziario, immobiliare e nell’editoria. Entrambi sono contrari all’intesa con Natixis.
Dal punto di vista economico la fusione potrebbe generare un nuovo leader di mercato a livello europeo, con tutte le conseguenze del caso. Tecnicamente coinvolge da una parte Generali Investments Holding, la divisione investimenti di Generali, che proprio nei giorni scorsi si era ingrandita rilevando la società di investimento statunitense MGG; dall’altra Natixis Investment Managers, società di BPCE. Generali Investments Holding porterebbe con sé 650 miliardi di euro di patrimoni gestiti; Natixis 1.200, quasi il doppio.
Per compensare il divario nel conferimento dei patrimoni gestiti dai due soci, Generali si è impegnata a mettere più soldi per avviare la società, e a rinunciare a un po’ di utili per i primi due anni di attività. Secondo quanto si legge nel comunicato stampa, l’obiettivo è generare oltre 4 miliardi di euro di ricavi e 210 milioni di cosiddette sinergie, cioè risparmi derivanti dalla condivisione del personale, delle infrastrutture e dei processi.
La nuova società avrebbe sede legale ad Amsterdam, con sedi operative in Francia, Italia e Stati Uniti per gestire localmente gli affari. Sarebbe poi divisa in parti uguali tra Generali e Natixis, ciascuna dunque con una quota del 50 per cento. Anche le cariche dirigenziali sarebbero divise equamente a rappresentare i due soci, e il consiglio di amministrazione sarebbe composto da uguali membri in rappresentanza, più tre consiglieri indipendenti per ciascuno.
Dal punto di vista industriale la fusione ha una sua logica. Generali e Natixis offrono servizi ancora molto tradizionali del cosiddetto asset management, cioè l’investimento di patrimoni privati o aziendali per conto dei clienti: è un modello che sta facendo fatica a reggere la concorrenza di altri tipi di fondi, come quelli indicizzati e quelli di private equity, poiché ha costi di gestione alti rispetto ai guadagni che garantisce ai clienti. La fusione consentirebbe di creare un gestore più grande e probabilmente dalla struttura più efficiente sul fronte dei costi, che potrebbe dunque offrire un servizio più competitivo di quelli attuali. La società diventerebbe il più grande gestore europeo, comunque ancora relativamente piccolo rispetto alle grandi banche d’affari statunitensi.
Va detto che sull’operazione c’è solo un’intesa di massima, non ancora vincolante, e dovrà essere soggetta a tutte le verifiche di legge per il rispetto della concorrenza, sia nazionali che europee. L’obiettivo, se tutto andrà bene, sarebbe di chiuderla entro il 2026.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella con Andrea Sironi, presidente di Generali, a destra, e Philippe Donnet, amministratore delegato di Generali, a sinistra, a Venezia a novembre del 2023 (Ammendola/Ufficio Stampa Quirinale/LaPresse)
Alla fusione si sono opposti due tra i soci più importanti di Generali, cioè il gruppo Delfin e il gruppo Caltagirone, che detengono rispettivamente il 9,9 e il 7 per cento della società, una quota che insieme è più alta di quella del principale azionista, cioè Mediobanca, che invece è a favore dell’operazione. I due soci da tempo sono legati da partecipazioni comuni in molte società italiane, che li rendono interlocutori impossibili da ignorare nel continuo movimento di fusioni e acquisizioni del settore finanziario. La loro posizione si rafforzerebbe ulteriormente con il successo dell’operazione di MPS per comprare Mediobanca, poiché entrambi sono soci rilevanti di tutte e due le società. Tra la loro quota nella nuova banca che ne risulterebbe, che sarebbe socia a sua volta di Generali, e quelle dirette in Generali avrebbero un’influenza ancora maggiore sul futuro della compagnia assicurativa.
Sono del resto legati da tempo da una visione comune per la società, tanto che negli ultimi anni si sono sempre mossi insieme in opposizione al resto dei soci e alla dirigenza. Alla base del disaccordo su questa operazione ci sarebbero sia plausibili ragioni di carattere operativo che altre invece più strategiche sul futuro di Generali e sul settore del risparmio gestito in Italia nel suo complesso: finora non ci sono state dichiarazioni o comunicati espliciti dei due, dunque dello scontro tra soci si sa per quanto ricostruito dai principali osservatori.
Le ragioni operative dietro all’opposizione di Delfin e gruppo Caltagirone sarebbero legate perlopiù al fatto che l’accordo lascia scoperti molti dettagli sulla gestione della nuova società. Anzitutto la sua durata: l’intesa prevede una durata di 15 anni, rinnovabili per altrettanti 15, senza però che ci sia una cosiddetta “exit strategy”, come si chiama in gergo finanziario il percorso da seguire qualora le cose non vadano bene e le parti decidano di sciogliere l’accordo.
Allo stesso modo non sono previsti i cosiddetti patti parasociali, diversamente da quanto avviene di solito nelle operazioni di questo tipo: sono accordi tra soci che regolano alcune vicende societarie – per esempio come votare in assemblea o come reagire di fronte a certe scelte della dirigenza – e che servono talvolta a definire in anticipo come regolarsi in caso di conflittualità.
Rony Hamaui, docente di economia monetaria all’università Cattolica di Milano ed esperto del settore bancario, vede poi nella struttura paritetica un problema di fondo: «Purtroppo, che ci piaccia o non ci piaccia, qualcuno deve comandare. In questo caso devono decidere dove mettere i gestori, dove mettere gli analisti, dove tagliare. L’economia si basa su delle scelte, che di solito accontentano qualcuno e scontentano qualcun altro». Secondo Hamaui è possibile che decisioni abbastanza incomprensibili di questo tipo – come la struttura al 50 e 50 per cento e gli altri aspetti lasciati scoperti – siano il preludio di qualche operazione successiva in cui i rapporti di forza saranno per forza di cose più definiti.

La torre Generali a Milano (LaPresse)
Tra le perplessità di Delfin e Caltagirone ci sarebbero poi alcune questioni più strategiche, soprattutto il fatto che l’unione avverrebbe con un partner straniero che si ritroverebbe a gestire una parte consistente del risparmio investito dai residenti in Italia. Nel 2023 questo risparmio superava complessivamente i 3.500 miliardi di euro. Generali gestisce in totale 650 miliardi: non tutti di residenti in Italia essendo un’azienda internazionale, ma sicuramente buona parte. Su questo l’azienda ha precisato che i fondi restano di responsabilità di Generali, e che la nuova società si occuperà solo di gestirli sulla base delle strategie individuate da Generali stessa. Non ci sono però molti dettagli su come questo sarà garantito, soprattutto alla luce del fatto che la nuova società è controllata alla pari col partner francese, che avrà dunque voce in capitolo sulle scelte.
Hamaui ritiene che, se l’operazione effettivamente andrà avanti, il governo dovrebbe perciò chiedere conto a Generali di come intende tutelare questi risparmi sul piano operativo: non tanto per bloccare ideologicamente il trasferimento del “risparmio degli italiani” a un gestore straniero – cosa che peraltro alcuni esponenti dei partiti di destra hanno già iniziato a sostenere – quanto per evitare fin dal principio incertezze e ambiguità.
L’amministratore delegato di Generali Philippe Donnet ha detto di aver preventivamente avvisato il governo dell’operazione, che per ora non l’ha commentata: non si è espresso cioè sull’eventualità di voler attivare il cosiddetto golden power, lo strumento con cui la presidenza del Consiglio può di fatto condizionare o addirittura vietare un’operazione di mercato nel caso in cui questa riguardi beni o strutture che si considerano strategici per gli interessi nazionali, come potrebbe essere il risparmio.
È la seconda volta nel giro di pochi mesi in cui l’attuale governo, di impronta dichiaratamente nazionalista, si rivela più discreto delle aspettative su un’importante operazione di mercato con un partner francese. Una discrezione che non ci fu invece quando disse di voler valutare se bloccare il tentativo di acquisto di Banco BPM da parte di Unicredit, per esempio.

L’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone nel 2017 (ANSA/ ALESSANDRO DI MEO)
Sulla necessità di un intervento governativo si è creato anche un discreto caso sui giornali di proprietà di Caltagirone. Caltagirone è fondatore e maggiore azionista dell’omonima holding, che ha la partecipazione in Generali ma anche in un mucchio di altre società del settore finanziario, edile, delle infrastrutture e immobiliare. È uno degli uomini più ricchi d’Italia, ed è considerato tra gli imprenditori più potenti del paese, proprietario tra le altre cose del quotidiano romano il Messaggero, di quello napoletano il Mattino e di quello veneziano il Gazzettino.
La scorsa settimana sia il Messaggero che il Mattino hanno pubblicato articoli molto critici sull’operazione, tra cui un editoriale congiunto del direttore del Mattino Roberto Napoletano, che definiva Natixis «un gestore dal passato chiacchierato» e che allertava sul rischio di perdere «sovranità finanziaria»: non è mai stato menzionato il conflitto di interessi con gli affari dell’editore, ed è apparso quantomeno curioso che la loro posizione fosse allineata e coerente alla contrarietà di Caltagirone stesso. Lunedì è stata poi pubblicata sul Messaggero una lettera di rettifica di Generali, che ha evidenziato il conflitto e che ha tenuto a precisare alcune questioni ritenute scorrette sul racconto che era stato fatto della vicenda.

La prima pagina del Messaggero di sabato 18 gennaio, con l’editoriale su Generali in prima pagina
Caltagirone potrebbe avere infine anche un ulteriore motivo per voler ostacolare l’operazione tra Generali e la francese Natixis: possiede, tra le altre cose, una partecipazione che ha recentemente aumentato in Anima, società italiana di investimento paragonabile a Natixis. La creazione di una nuova società concorrente di Anima potrebbe rovinare gli affari, ed è possibile che Caltagirone auspicasse un accordo tra Anima stessa e Generali: in tal caso si sarebbe creata una società tutta italiana. La situazione è peraltro complicata dal fatto che Anima è a sua volta al centro del cosiddetto “risiko bancario”, cioè le intricate vicende societarie tra banche, perché è oggetto di un tentativo di acquisto da parte di Banco BPM.
A prescindere comunque da cosa sia guidata, la forte opposizione di Delfin e Caltagirone mette molti dubbi sull’effettiva realizzabilità della fusione col partner francese: per quanto insieme rappresentino solo il 17 per cento di Generali, Delfin e Caltagirone sono due soci forti e scomodi da avere contro. Tutta questa storia è poi complicata dal fatto che tra qualche mese scade l’attuale consiglio di amministrazione di Generali, la cui composizione deve essere dunque riproposta e rivotata dai soci: l’opposizione di Caltagirone e Delfin sul caso Natixis potrebbe portare a una grossa impasse nella creazione del nuovo consiglio, cioè l’organo societario più importante per la gestione di tutta l’azienda.