L’accordo sui migranti tra Italia e Albania è pieno di costi “nascosti”

Oltre a costruire le tre strutture previste bisogna anche pagare il personale italiano, le attrezzature, le stanze per le udienze telematiche e il noleggio delle navi

Il primo ministro albanese Edi Rama e la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, a Roma (ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
Il primo ministro albanese Edi Rama e la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, a Roma (ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
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Lo scorso 7 novembre la presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, e il suo omologo albanese, Edi Rama, firmarono un protocollo d’intesa per il “rafforzamento della collaborazione in materia migratoria”. Prevede che l’Italia costruisca e gestisca tre centri per l’accoglienza dei migranti in Albania, a proprie spese e sotto la propria giurisdizione. Il protocollo dura cinque anni, ed è rinnovabile tacitamente, quindi senza bisogno di alcuna comunicazione formale. L’accordo è stato molto criticato dagli attivisti che si occupano dei diritti delle persone migranti, e giudicato di difficile applicazione dagli esperti di diritto internazionale, ma un altro elemento molto discusso sono stati i costi che l’Italia dovrà sostenere per avviare e poi gestire l’intero progetto, stimabili nell’ordine delle centinaia di milioni di euro per i prossimi cinque anni.

Oltre alle spese per la vera e propria costruzione dei centri, già piuttosto ingenti, bisogna considerare una serie di costi che potrebbero essere evitati o perlomeno ridotti se le procedure di accoglienza fossero svolte in Italia: tra questi ci sono quelli per il noleggio delle navi che faranno la spola tra le acque internazionali, dove avverranno i soccorsi, l’Italia e l’Albania; le diarie e le assicurazioni sanitarie del personale italiano che lavorerà nei centri; l’attivazione dei collegamenti internet in Albania e la predisposizione di stanze per le udienze, che si terranno principalmente da remoto.

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Il costo complessivo dell’accordo non si sa, dato che il governo finora non ha fornito con chiarezza un dato totale. Sommando tutte le voci di spesa previste dalla relazione tecnica curata dalla Camera dei deputati e dal Servizio bilancio dello Stato si arriva a circa 610 milioni di euro tra il 2024 e il 2028, mentre un’indagine di Dataroom, del Corriere della Sera, ha calcolato costi complessivi per 653 milioni di euro nello stesso arco di tempo.

L’accordo prevede la costruzione di tre strutture. La prima è un hotspot, ossia un centro per lo sbarco e l’identificazione dei migranti, a Shengjin (nota in italiano come San Giovanni Medua), una città di mare a nord della capitale Tirana. A Gjader, nell’entroterra, dovrebbero essere costruiti un centro di prima accoglienza per i migranti che chiederanno asilo, da 880 posti, e un Centro di permanenza e rimpatrio (CPR) da 144 posti. A febbraio, con la legge di ratifica del protocollo, il governo aveva stanziato 31,2 milioni di euro per la realizzazione delle tre strutture. Ad aprile però la cifra fu aumentata a 65 milioni di euro, con un articolo inserito in modo un po’ anomalo nella conversione del decreto-legge sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).

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Secondo la relazione tecnica, la costruzione dei centri di Shengjin e Gjader dovrebbe costare poco meno di 50 milioni di euro, di cui 20 milioni per i due CPR e 3 milioni per l’hotspot. A questi vanno aggiunti più di 8 milioni di euro per allacciare le strutture alle reti idriche, elettriche e fognarie, e oltre un milione di euro per realizzare 22 aule per le udienze in via telematica.

Il processo di valutazione delle domande di asilo dei migranti trattenuti in Albania sarà piuttosto complicato, soprattutto dal punto di vista tecnico e logistico. Potranno essere portati nel paese solo i migranti maschi, maggiorenni, in buona salute e provenienti da paesi “sicuri”, ossia dove il governo italiano ritiene che siano rispettati i diritti fondamentali e l’ordinamento democratico (in realtà, la definizione viene spesso attribuita in modo arbitrario anche a paesi dove le violazioni di questi diritti sono sistematiche). Secondo il decreto “Cutro”, approvato dal governo Meloni lo scorso maggio, le domande di asilo presentate dai cittadini di paesi “sicuri” devono seguire una procedura accelerata che deve concludersi al massimo in 28 giorni.

In Italia le domande di asilo sono esaminate dalle cosiddette Commissioni territoriali. Dovrebbero essere valutate caso per caso, tenendo in considerazione la situazione specifica di ogni migrante e i rischi a cui potrebbe essere esposto in caso di diniego. È un lavoro complesso, per il quale spesso mancano le risorse e le figure professionali, come interpreti o mediatori culturali. Le procedure accelerate complicano ulteriormente il lavoro delle Commissioni: i funzionari devono organizzare un’udienza entro sette giorni dalla ricezione di una nuova domanda d’asilo, e prendere una decisione entro i due giorni successivi. In caso di esito negativo, il migrante ha due settimane di tempo per presentare un ricorso.

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Nel caso dei centri in Albania, tutto verrà svolto da remoto: i migranti rimarranno nei centri di Gjader, mentre avvocati, interpreti, commissari territoriali e giudici saranno in Italia. Per questo è necessario allestire delle stanze nei CPR per permettere lo svolgimento delle udienze, attrezzate con computer, webcam, microfoni e connessione internet. È una soluzione molto criticata dagli attivisti e dagli esperti di diritto internazionale, perché di fatto rende estremamente difficile per un migrante riuscire a spiegare la propria situazione e confrontarsi in modo efficace con un avvocato o con altre organizzazioni che potrebbero aiutarlo.

Nel caso in cui non sia possibile organizzare le udienze o gli incontri da remoto, gli avvocati e gli interpreti potranno andare in Albania «a spese dello Stato», usufruendo di un rimborso spese di massimo 500 euro. La relazione tecnica prevede che queste trasferte costeranno 3,2 milioni di euro nel 2024 e 6,5 milioni di euro per ogni anno dal 2025 al 2028. Inoltre, per agevolare l’esame delle domande di asilo presentate dall’Albania verrà ampliato l’organico della Commissione territoriale di Roma, con l’istituzione di un massimo di cinque nuove sezioni. Questo costerà 2,6 milioni di euro nel 2024, e quasi 4 milioni per ognuno dei quattro anni successivi.

L’accordo prevede inoltre che all’interno dei centri lavorino solo persone assunte in Italia, trasferite temporaneamente in Albania: oltre allo stipendio riceveranno anche una diaria, come previsto in caso di partecipazione a missioni internazionali, e verranno coperti tutti i costi di viaggio, vitto e alloggio, per un investimento complessivo da più di 250 milioni di euro in cinque anni. Si aggiungono poi i costi delle assicurazioni sanitarie per i dipendenti che lavorano in Albania, che costeranno 900mila euro nel 2024 e poi 1,7 milioni di euro all’anno.

All’interno dei CPR di Gjader sarà anche costruito un vero e proprio carcere, con una capienza massima di 20 detenuti, nel caso in cui alcuni migranti trattenuti nei centri dovessero essere messi in custodia cautelare. La realizzazione della struttura costerà 8 milioni, ma uno dei punti più discussi riguarda l’invio in Albania di 46 agenti di polizia penitenziaria: più di due per detenuto, quattro volte la media italiana, che è di un agente ogni 1,96 detenuti.

Gennarino De Fazio, segretario generale dell’associazione sindacale UIL per la polizia penitenziaria, dice c’è una «sproporzione enorme» tra il numero di agenti che saranno inviati in Albania e quelli normalmente in servizio nelle carceri italiane. Come gli altri dipendenti dei centri, gli agenti non verranno formalmente trasferiti in Albania, ma «inviati in servizio di missione, con un’indennità abbastanza importante, vitto e alloggi pagati e viaggi a carico dell’amministrazione». La loro sede ufficiale però rimarrà in Italia, ed è prevista una rotazione del personale ogni sei mesi.

Formalmente gli agenti che verranno inviati in Albania non sono ancora stati nominati, ma secondo De Fazio è già pronto un elenco di persone: «È stato fatto un bando a cui hanno aderito più di mille agenti, proprio perché le condizioni di lavoro in Italia sono assolutamente sfavorevoli» rispetto a quelle offerte dall’accordo tra Italia e Albania, dice. Un altro costo legato alla delocalizzazione dell’accoglienza è quello del noleggio di navi aggiuntive che facciano la spola tra le acque internazionali, dove dovrebbero avvenire i soccorsi, l’Italia e l’Albania. La relazione tecnica prevede spese per 15 milioni di euro nel 2024 e altri 80 milioni fino al 2028.

Secondo quanto prevede l’accordo, i migranti devono rimanere in Albania solo per il periodo strettamente necessario a esaminare le domande di asilo, e quindi per un massimo di 28 giorni. Lo scorso 15 gennaio, durante una seduta alla Camera, il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli (Fratelli d’Italia) ha confermato che i migranti le cui domande di asilo non saranno valutate entro 28 giorni dovranno essere portati in Italia.

Altri viaggi via mare tra i due paesi dipenderanno dalle modalità con cui saranno selezionati i migranti che hanno i requisiti per andare in Albania, e quelli che invece dovranno essere portati in Italia e sottoposti alle normali procedure di accoglienza. Cirielli ha detto che è possibile che la divisione avvenga direttamente a bordo della nave che effettua il soccorso: dopo un primo screening, i migranti più vulnerabili rimarranno a bordo della nave, che andrà in Italia, mentre gli altri saranno trasferiti su un’altra nave, diretta in Albania. Sarebbe un meccanismo laborioso, che pone alcuni problemi giuridici e rischia di non garantire un trattamento equo a tutte le persone soccorse.

«Non è possibile fare una selezione sulle navi, dato che le operazioni di soccorso devono essere svolte in modo non discriminatorio e concludersi nel minor tempo possibile», dice Gianfranco Schiavone, esperto di diritto dell’immigrazione e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI). Oltre alla selezione, secondo Schiavone non sarebbe possibile nemmeno far presentare le domande di asilo sulla nave: questa procedura può avvenire esclusivamente «sul territorio di uno Stato o alla frontiera», ma non in mare aperto, dove invece è possibile solo «concludere le operazioni di soccorso». 

Inoltre secondo il Consiglio italiano rifugiati (CIR), che si occupa di tutela dei diritti dei richiedenti asilo, un’eventuale selezione tra i migranti fatta a bordo della nave subito dopo un soccorso sarebbe necessariamente superficiale, e rischierebbe quindi di non individuare correttamente le persone vulnerabili. «Il rischio più che concreto è che queste persone verrebbero portate in Albania, con la possibilità di tornare in Italia solo una volta dimostrato il proprio status di “vulnerabile”, sempre che nei centri di detenzione amministrativa in Albania ci siano le professionalità adeguate per condurre una tale valutazione», ha scritto il CIR in un articolo di fine gennaio.