Ragionare per decenni ha senso?

È una categoria pratica, diventata molto popolare dopo i “ruggenti anni Venti”, ma anche un modo pigro di osservare la realtà storica trascurandone gli elementi di continuità

Una foto degli anni Venti che mostra tre donne con cappotti con collo in pelliccia vicino a un'auto cabriolet guidata da un uomo
(Hulton Archive/Getty Images)
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Tra le diverse unità di misura del tempo passato il decennio è una delle più pratiche e comuni, e di gran lunga la più utilizzata in riferimento agli anni del Novecento. Dagli anni Duemila in poi, a fronte della prospettiva di un riavvio del conteggio dei decenni, espressioni familiari come “gli anni Dieci” e “gli anni Venti” hanno cominciato a suonare ambigue e a richiedere l’esplicitazione del secolo a cui si riferiscono: se quello attuale o quello scorso. Ma è probabile che i decenni continueranno a essere largamente utilizzati come categoria di riferimento, con tutte le comodità che questo implica, ma anche le distorsioni e le semplificazioni.

In una riflessione sull’abuso della categoria di generazione, che ha alcuni aspetti in comune con quella dei decenni, il critico e saggista statunitense Louis Menand scrisse che alcune unità di misura scientifica del tempo hanno il loro fondamento nei fenomeni che misurano: un anno è il tempo che impiega la Terra per orbitare attorno al Sole. Ma non c’è niente in natura che corrisponda a un decennio, a un secolo o a un millennio, che sono termini convenzionali probabilmente derivati in origine dal fatto che abbiamo dieci dita per contare (quelle di una sola mano bastano invece per un lustro, cioè cinque anni).

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Una comune obiezione all’utilizzo del decennio come categoria descrittiva del tempo storico non riguarda tanto l’arbitrarietà della suddivisione: tutte implicano un certo grado, anche minimo, di arbitrarietà. La discussione ruota piuttosto intorno al dubbio se i decenni – il cui largo utilizzo nel linguaggio comune ha cominciato a diffondersi soprattutto nel Novecento, quindi in tempi relativamente recenti – siano unità significative o no. Il dubbio, in altre parole, è se ragionare per decenni sia utile a comprendere meglio alcuni fenomeni, o se al contrario favorisca osservazioni della realtà che trascurano le reali dinamiche alla base dello sviluppo della storia politica, sociale e culturale delle popolazioni.

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La suddivisione del tempo in periodi storici è indispensabile per dare un senso al passato, ma anche necessariamente arbitraria e fuorviante. Come scrisse l’influente storico e sociologo statunitense Christopher Lasch, per quanto sia comodo per gli storici fare riferimento all’«età di Napoleone», per esempio, «coloro che vissero all’inizio del diciannovesimo secolo sarebbero rimasti sorpresi ad apprendere che ogni fase della loro vita poteva essere in qualche modo compresa come un’emanazione sottile e pervasiva dello spirito napoleonico».

Come qualsiasi altro periodo, anche il decennio è un modo preliminare di organizzare una grande quantità di informazioni in una forma gestibile. È quindi inevitabilmente anche uno strumento interpretativo del passato e in una certa misura una limitazione dell’immaginazione storica, secondo Lasch. Tutto ciò che nel caso di espressioni come l’età di Napoleone o l’età del Barocco viene ridotto alla personalità di un sovrano o a uno stile artistico distintivo, nel caso del decennio viene di solito ridotto a un certo evento o fenomeno eletto a posteriori come principio unificante di un’intera epoca, ritenendolo più significativo o influente rispetto ad altri fenomeni coevi.

A parte il rischio di ridurre la complessità degli eventi, il decennio presenta poi il problema specifico delle soglie troppo nette. Utilizzarlo come unità sensata significa isolare ciascun periodo di dieci anni dai periodi quantitativamente equivalenti che lo hanno preceduto e che lo hanno seguito, dando priorità nell’interpretazione dei fenomeni ai cambiamenti improvvisi piuttosto che alla continuità. E non è un caso, secondo Lasch, che la storia relativamente breve degli Stati Uniti si presti molto alla categorizzazione per decenni, da lui ritenuta «l’unità di misura più insoddisfacente e arbitraria di tutte: troppo breve per avere un reale valore interpretativo, appena sufficiente a mantenere una certa plausibilità interpretativa».

L’uso dei decenni come unità significative diventò in particolare una tendenza anglosassone nel Novecento. A renderla popolare non furono gli storici ma scrittori e giornalisti statunitensi che, soprattutto nella seconda metà del secolo, riferendosi al passato attraverso espressioni come “ruggenti anni Venti” o “favolosi anni Sessanta” rafforzarono la convinzione che ci si potesse aspettare una nuova serie di valori politici e culturali ogni dieci anni. Nel libro La cultura del narcisismo Lasch associò questa convinzione a una tendenza generale della società a vedere il passato come un insieme di modelli, mode e atteggiamenti puntualmente superati, e ad assecondare un’inclinazione alla nostalgia intesa non come condizione medica contraddistinta da sintomi fisici riconoscibili, ma come «un prodotto commerciale del mercato culturale».

Il principale rischio della categorizzazione per decenni è rendere i periodi troppo compatti, minimizzando sia gli elementi di continuità tra un periodo e un altro, sia le tendenze contraddittorie all’interno di uno stesso periodo. In questo il concetto di decennio ha molto in comune con quello di generazione anche secondo Lasch, che insieme ad altri storici considera significativo che entrambe le categorie siano diventate di uso comune nel periodo immediatamente successivo alla Prima guerra mondiale: un evento che ebbe una profonda influenza sulla sensibilità delle persone e sulla loro percezione del tempo storico.

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Come scrisse lo storico statunitense Robert Wohl nel libro The generation of 1914 (edito anche in Italia con il titolo 1914. Storia di una generazione, ma da tempo fuori catalogo), le persone che erano giovani in quegli anni – le moltissime che in Europa furono coinvolte nella guerra, ma anche altre – si identificarono consapevolmente come una generazione, formata dall’esperienza condivisa di quell’evento catastrofico. Fu una condizione necessaria affinché, dopo la guerra, si affermassero e diventassero popolari le immagini e l’idea stessa di una rivoluzione generazionale dei costumi e della morale.

Il principale portavoce statunitense di quella rivoluzione fu lo scrittore statunitense Francis Scott Fitzgerald, che più di tutti contribuì alla diffusione di stereotipi sui ruggenti anni Venti: il progenitore di tutti i decenni, in un certo senso. I racconti e gli articoli di Fitzgerald sull’età del jazz, scrisse Lasch, diffusero nella cultura popolare «una specie di visione organica della storia» basata sull’espediente letterario di leggere quella del XX secolo come la storia della vita della generazione nata intorno alla fine del secolo precedente.

Con le descrizioni di scrittori come Fitzgerald, ma anche Ernest Hemingway e Thomas Wolfe (tutti più o meno coetanei), la categoria di decennio acquisì sfumature normative, come quella di generazione. Cominciò cioè a implicare un’idea della storia come successione di valori culturali e tendenze – nell’abbigliamento, nella musica, nel cinema – in cui le audaci conquiste di una generazione, scrisse Lasch, diventavano le norme accettate da quella successiva, per poi essere superate a loro volta in favore di nuovi stili individuati e promossi dall’industria culturale.

L’America degli anni Venti fu vista a posteriori come una società attraversata da una sorta di adolescenza prolungata e poi bruscamente interrotta dalla Grande Depressione del 1929, la più grande crisi economica dell’epoca moderna. Ma l’evento più significativo e influente per l’inizio di quell’adolescenza era stata appunto la Prima guerra mondiale: che finì nel 1918, non nel 1920. La diffusione del decennio come categoria interpretativa richiese cioè fin da subito un esercizio di approssimazione, necessario per accettare l’inevitabile sfasamento tra l’estensione delle tendenze e degli eventi associati a ciascun decennio e la durata del periodo decennale che comincia con l’anno 0 e finisce con l’anno 9 di ciascun decennio.

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Lo sfasamento porta ad altre stranezze e distorsioni nell’immaginazione e nell’interpretazione storica degli eventi. Sostanze psichedeliche, hippie e pantaloni a zampa sono associati perlopiù agli anni Sessanta, per esempio, ma sarebbe stato più probabile vederli circolare insieme nel 1972 anziché nel 1962, scrisse nel 2021 Kathryn Ostrofsky, storica della University of Richmond e condirettrice del sito Bunkhistory.org.

L’inadeguatezza della categoria di decennio come contenitore di fenomeni complessi emerge peraltro dalla frequenza con cui espressioni come «coda lunga» si rendono necessarie per intendere che i temi di un certo periodo, teoricamente concluso, si estendono oltre i suoi presunti limiti temporali. Vale soprattutto per i temi politici, dai movimenti per i diritti civili alla Guerra Fredda, la cui estensione travalica i confini dei decenni. Ma vale anche per le tendenze culturali. La storia stessa del jazz, per esempio, suggerisce come quel genere musicale sia il risultato di contaminazioni di generi emersi molto prima degli anni Venti e mostri una certa continuità con stili diffusi addirittura negli ultimi due decenni del secolo precedente.

Le distorsioni provocate dalle interpretazioni basate sul concetto di decennio tendono a diventare ancora più evidenti man mano che il tempo passa, scrisse Ostrofsky. Perché le epoche che utilizziamo normalmente per rendere il passato più comprensibile tendono ad allungarsi quanto più il passato si allontana dal presente. Con il passare del tempo il decennio diventa quindi un periodo ancora più anomalo e difficile da contestualizzare, considerando appunto che gli archi di tempo storico che troviamo significativi diventano più ampi man mano che si allontanano da noi. Che non significa però che il decennio sia una categorizzazione inutile.

Immaginando l’esercizio dello storico come una telecamera, il decennio e le generazioni possono essere interpretate secondo Ostrofsky come una specie di tecnica dello zoom in: possono servire a rendere più comprensibile e familiare anche l’esperienza di persone vissute in un passato molto remoto. Ma per una comprensione della storia più ampia è necessario soprattutto fare zoom out e considerare gli elementi di continuità tra i decenni.

Un problema comune dei libri di testo di storia, scrisse Ostrofsky, è proprio il modo in cui tendono a impantanarsi in una storia del Novecento fatta di decenni tutti diversi gli uni dagli altri. A ogni nuova edizione gli autori si limitano a inserire capitoli sugli anni più recenti, senza modificare le parti già scritte. E il risultato sono lunghi libri di testo «che rafforzano la periodizzazione decennale e offuscano le continuità e i cambiamenti che hanno plasmato il secolo».