Il concetto di “generazioni” è sopravvalutato

È una categoria priva di solide basi empiriche e poco utile a definire esperienze e valori condivisi, dice il New Yorker

The Who
Roger Daltrey e Pete Townshend durante un concerto degli Who a Sunrise, in Florida, il 1° novembre 2012 (Rick Diamond/Getty Images)
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Le tenniste americane e sorelle Venus e Serena Williams, due tra le sportive più famose e vincenti al mondo, sono nate rispettivamente nel 1980 e nel 1981. Secondo un linguaggio convenzionale diffuso da anni nei paesi occidentali, appartengono a due generazioni differenti: Venus alla cosiddetta “generazione X”, che comprende le persone nate tra il 1965 e il 1980, mentre Serena è una “millennial”, essendo nata tra il 1981 e il 1996. Appartengono invece alla stessa generazione, per esempio, l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nato nel 1946, e Michelle Obama, nata nel 1964: sono “baby boomer”, cioè nati tra la metà degli anni Quaranta e Sessanta, durante il boom economico seguito alla Seconda guerra mondiale.

L’utilizzo di queste espressioni, da tempo frequenti nel linguaggio comune, è largamente diffuso da ancora più tempo in aziende, istituti di ricerca e in altri contesti formali. Sono presenti in studi, sondaggi e molti articoli giornalistici, a volte anche con ampi e incomprensibili margini di libertà nell’interpretazione dei confini tra una generazione e un’altra.

A maggio scorso, un gruppo di circa 150 studiosi di scienze sociali e demografiche scrisse una lettera all’autorevole istituto americano di ricerche statistiche e sondaggi Pew Research Center, esortandolo a smettere di promuovere l’uso delle parole che circolano da decenni per definire le diverse generazioni. Parole come “generazione X” e “millennial”, affermano gli scienziati, non hanno alcun fondamento nella realtà sociale e rischiano di generare stereotipi, generalizzazioni inutili e inesattezze, deviando l’attenzione da attributi e fattori più significativi e influenti all’interno dei gruppi demografici.

Del modo in cui le persone utilizzano nei loro discorsi abituali la categoria di generazione, dei limiti di questa definizione e delle conclusioni fuorvianti a cui spesso conduce ha scritto recentemente sul New Yorker il critico e saggista americano Louis Menand, vincitore del premio Pulitzer nel 2002 per il miglior libro di storia (The Metaphysical Club, sulla corrente filosofica del pragmatismo e i movimenti culturali dell’America di fine Ottocento e inizio Novecento).

Menand collega il senso moderno del termine “generazione”, per come è largamente inteso oggi al di fuori degli studi di biologia, al concetto di “giovani”, diffuso fin dalla seconda metà degli anni Quaranta e ancora di più nei decenni successivi in molti paesi interessati dal baby boom. Erano fasi storiche in cui la percentuale di popolazione con meno di 25 anni era significativamente superiore rispetto a quella attuale e c’era un comprensibile interesse da parte delle aziende riguardo ai consumi di quel gruppo demografico. Nonostante la progressiva riduzione in percentuale, ancora oggi i giovani sono consumatori fondamentali di beni e servizi in diversi settori, dai social media alle piattaforme di streaming fino alla moda.

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Proprio per mantenere attivi quei mercati e dare al settore della consulenza qualcosa da poter vendere alle aziende che cercano di capire i giovani, afferma Menand, «abbiamo inventato un concetto che permette di ridefinire periodicamente la “cultura dei giovani”», e quel concetto è “generazione”. È un termine preso in prestito dalla biologia della riproduzione umana, dove per “vecchia generazione” si intendono i genitori e i loro fratelli, e per “generazione più giovane” la loro prole e i loro cugini. Per il moscerino della frutta occorrono in genere 10 giorni affinché la generazione più giovane diventi quella anziana. Per gli esseri umani, il tempo necessario è tradizionalmente di circa trent’anni.

Il passaggio del concetto di generazione in senso biologico dall’ambito familiare a quello sociale risale all’Ottocento, quando fu progressivamente introdotta la nuova idea per cui le persone nate in un certo lasso di tempo – generalmente trent’anni – appartengono a una stessa generazione. Non c’erano basi biologiche a sostegno di questa affermazione, scrive Menand, ma questa idea «diede agli scienziati e agli intellettuali europei un modo per dare un senso a qualcosa da cui erano ossessionati, il cambiamento sociale e culturale».

In altre parole, la teoria generazionale rese verosimile o più accettabile la possibilità che a generare i cambiamenti fosse, banalmente, il “cambio generazionale”. Alcuni pensatori sostenevano che la ragione risiedesse nel fatto che le nuove generazioni apportano nuovi modi di pensare e di agire, rendendo possibile il superamento di credenze e pratiche obsolete. Altri, capovolgendo in parte la relazione di causa ed effetto tra generazione e cambiamento, ritenevano che a rendere le generazioni differenti le une dalle altre siano i diversi eventi storici vissuti (la Guerra in Vietnam, l’11 settembre o la pandemia, per esempio). Erano quindi più quegli eventi a “cambiare” le generazioni che viceversa.

Attualmente, seppure con varie approssimazioni e margini poco definiti, l’intervallo tra una generazione e un’altra è di solito intorno ai quindici anni. In genere, nei discorsi che fanno largo uso di definizioni come “generazione X” o “millennial”, si suppone che le persone nate in un certo periodo di tempo abbiano caratteristiche che le differenziano in qualche modo da quelle nate prima o dopo quell’intervallo. Ma «questa supposizione richiede un atto di fede», chiarisce Menand.

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Prima di tutto, non ci sono basi empiriche per sostenere che le differenze tra generazioni diverse siano maggiori di quelle all’interno di una stessa generazione. Dovremmo altrimenti ritenere di avere meno cose in comune con i nostri genitori di quante ne abbiamo con persone che non abbiamo mai incontrato e che sono nate qualche anno prima o dopo di noi. E poi c’è la questione sempre critica delle soglie, che riguarda l’esempio delle sorelle Williams: in quanto appartenenti a generazioni diverse, pur essendo nate nello stesso biennio, Venus e Serena dovrebbero avere valori, gusti ed esperienze di vita diversi.

Si potrebbe obiettare, aggiunge Menand, che lo stesso discorso vale anche per l’abitudine a utilizzare i decenni come unità significative. Un anno, come una generazione biologica, è qualcosa di misurabile: il tempo che impiega la Terra per orbitare attorno al Sole. Ma non c’è niente in natura che corrisponda a un decennio, a un secolo o a un millennio. Sono soltanto convenzioni, termini «di convenienza». Per quanto riguarda il decennio – che è alla base di un modo di pensare profondamente radicato, a differenza delle generazioni – è una convenzione determinata dal fatto che abbiamo dieci dita.

Ma la domanda da farsi non è se la suddivisione del tempo per generazioni sia più o meno arbitraria – molto probabilmente è comunque meno comoda – di quella per decenni e per secoli. Il punto è se ci dice qualcosa di significativo oppure no, se è o non è una categoria utile a comprendere meglio alcuni fenomeni.

Nel libro in uscita il prossimo 9 novembre The Generation Myth: Why When You’re Born Matters Less Than You Think, citato da Menand, il sociologo britannico Bobby Duffy, direttore del Policy Institute presso il King’s College, sostiene che la generazione sia soltanto uno dei tre fattori utili a spiegare i cambiamenti negli atteggiamenti e nei comportamenti delle persone. Gli altri sono gli eventi storici e quelli legati al ciclo della vita di ciascuno di noi, cioè al nostro invecchiamento. Attraverso grafici e statistiche, Duffy mostra come l’interazione tra questi tre fattori possa spiegare molte differenze per esempio nei comportamenti razzisti, nei tassi di suicidio, nelle convinzioni politiche e in altro.

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La sua conclusione è che le persone di diverse fasce di età siano molto più simili di quanto emerga solitamente dai discorsi sulle generazioni, e che in generale la lettura dei fenomeni attraverso quei tre fattori sia anche utile a smentire molti luoghi comuni. Non ci sono prove di un’“epidemia di solitudine” tra i giovani, per esempio, e altre tendenze comunemente estese a una determinata fascia d’età riguardano in realtà tutta la popolazione. In Europa l’inclinazione a riconoscere il cambiamento climatico non ha correlazioni significative con l’età delle persone. E negli Stati Uniti le opinioni riguardo ai discorsi sul genere sono correlate più strettamente con le opinioni politiche che con l’età.

Inoltre sono in genere molto deboli le correlazioni tra certe convinzioni etiche e l’appartenenza alla cosiddetta “generazione Z”, quella delle persone nate tra il 1997 e il 2012, ossia gran parte degli studenti universitari di oggi. Ai giovani vengono erroneamente associati molti fenomeni nuovi, come per esempio la “cancel culture”, le cui espressioni non sono però necessariamente concentrate in quella fascia d’età.

Sulla base delle analisi di Duffy, Menand contesta l’idea abbastanza comune che la generazione Z sia il gruppo demografico principalmente responsabile di un cambiamento culturale profondo e di una trasformazione della società. E contesta molti altri stereotipi associati a quel gruppo, come per esempio l’idea che le persone di quella generazione siano dipendenti dalla tecnologia e “vittime” di essa, un pregiudizio diffuso in genere tra persone più anziane di loro. «Siamo tutti nelle nostre bocce dei pesci rossi. Dovremmo esitare prima di esprimere un giudizio su come sia la vita nelle bocce degli altri», scrive Menand.

Attribuire alla generazione più giovane – o a una generazione in particolare – una maggiore sensibilità rispetto a valori come la diversità o l’inclusione, per esempio, ignora il più delle volte il fatto che quei valori siano condivisi e trasversali a diverse generazioni. E ignora che quei valori esistano da molto prima che la generazione Z frequentasse le scuole superiori. Il termine “intersezionalità”, utilizzato per affinare le categorie tradizionali di identità sociale e porre l’attenzione sulle discriminazioni e le oppressioni, esiste da oltre trent’anni. Fu proposto nel 1989 dall’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw, nata nel 1959: una boomer, tecnicamente.

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Secondo Menand, utilizzare la categoria delle generazioni come lente di osservazione della realtà comporta il rischio di trascurare le reali dinamiche alla base dello sviluppo del tessuto sociale e di distorcere la storia sociale di una popolazione. Un esempio tipico è la cosiddetta “generazione silenziosa”, che secondo le attuali convenzioni è quella delle persone nate tra il 1928 e il 1945. L’espressione deriva da una definizione presente in un articolo della rivista Time, pubblicato nel 1951, e fu inizialmente utilizzata per descrivere le persone che avevano frequentato le scuole superiori negli anni Cinquanta.

Ma la principale ragione per cui quella generazione fu definita “silenziosa”, nota Menand, è per creare un netto contrasto con la successiva generazione del baby boom, il fenomeno dell’epoca, una generazione che si presupponeva essere anticonformista e tutt’altro che silenziosa. «E chi erano, invece, quei silenziosi conformisti?», si chiede Menand: persone come Muhammad Ali, Martin Luther King, Nina Simone, Bob Dylan, Noam Chomsky, Philip Roth, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Andy Warhol.

Moltissime persone della generazione silenziosa e anche di quella precedente (la Greatest Generation, quella dei nati tra il 1901 e il 1927) furono concretamente le più attive nella cultura e nella politica degli anni Sessanta, molto più dei boomer. Boomer che all’epoca erano in gran parte troppo giovani per sapere anche soltanto cosa stesse succedendo intorno a loro, e ai quali è spesso attribuita invece la responsabilità delle trasformazioni culturali di quel decennio.

L’analisi generazionale, conclude Menand, rischia soprattutto di trascurare la classe sociale, l’appartenenza etnica, il genere, lo status giuridico o altre precondizioni, come fattori determinanti per i comportamenti, le esperienze di vita e la formazione delle opinioni. Una donna nata nel 1947 da una famiglia di immigrati a San Antonio, in Texas, aveva possibilità evidentemente molto diverse da quelle di un suo coetaneo di San Francisco. Eppure il prototipo del boomer americano è uno studente universitario bianco con i pantaloni a zampa e il simbolo della pace. Come il prototipo della generazione Z è una studentessa delle superiori con soldi da spendere e un account Instagram.