Le persone che rinunciano alle cure sono in aumento

Secondo l'ISTAT nel 2023 sono state 4,5 milioni a causa dei tempi di attesa troppo lunghi e dei costi elevati di esami e visite

Un reparto del policlinico universitario di Roma
Un reparto del policlinico universitario di Roma (ANSA/FABIO FRUSTACI)
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In Italia sono in aumento le persone che rinunciano a curarsi, perché i tempi di attesa per esami e visite sono troppo lunghi oppure perché fare controlli costa troppo. La rinuncia alle cure è un fenomeno di cui medici ed esperti di sanità discutono da anni, soprattutto da dopo la pandemia di Covid, perché è un buon indicatore per valutare la qualità dei servizi sanitari e le conseguenze sulla salute generale della popolazione. Tuttavia da sempre il principale limite delle discussioni è la carenza di dati affidabili: una delle poche indagini complete e continuative su questo tema viene diffusa dall’ISTAT. L’indagine si chiama “Benessere equo e sostenibile” (BES) e consiste in sondaggi fatti tra una parte rappresentativa della popolazione. All’interno si trovano tra gli altri dati relativi al lavoro, all’istruzione, alla sicurezza e anche alla sanità.

I dati aggiornati al 2023 diffusi mercoledì dicono che in Italia 4,5 milioni di persone hanno rinunciato alle cure per problemi economici, per la lunghezza delle liste di attesa o per difficoltà di accesso alle strutture sanitarie, troppo lontane da casa. Si stima che siano 372mila in più rispetto al 2022. Si è passati dal 7 al 7,6 per cento della popolazione. Il 4,5 per cento della popolazione ha dichiarato di rinunciare alle cure pur avendone bisogno a causa delle lunghe liste di attesa, il 4,2 per cento per motivi economici. La rinuncia dovuta alla lunghezza delle liste di attesa è raddoppiata rispetto al 2019.

La quota di rinuncia alle cure cresce all’aumentare dell’età. Fino ai 13 anni è all’1,3 per cento, mentre il picco è nella fascia tra 55 e 59 anni (rinuncia l’11,1 per cento) e la quota rimane elevata tra le persone con più di 75 anni (9,8 per cento). L’ISTAT ha rilevato anche un divario di genere: la quota di rinuncia è al 9 per cento tra le donne e al 6,2 per cento tra gli uomini.

Nell’infografica viene mostrata la quota di persone che rinunciano alle cure in tutte le regioni italiane.

Ci sono diversi fattori che influiscono sulle liste e sui tempi di attesa: l’offerta sanitaria disomogenea, gestita a livello regionale e poco connessa, la diversa organizzazione degli ospedali, il ruolo delle strutture private e della libera professione nelle strutture pubbliche, il diverso impatto delle prestazioni a seconda del paziente. A tutto questo si aggiungono i piccoli imprevisti e le grosse emergenze: basta poco a bloccare o rallentare il sistema. Insomma, è un fenomeno difficile da osservare e da governare.

I tempi di attesa si allungano quando c’è uno squilibrio tra la domanda e l’offerta, cioè quando il numero di richieste di esami e visite è più alto rispetto alle prestazioni disponibili. Semplificando molto: per incidere sui tempi di attesa bisogna intervenire sulla domanda, quindi sulle prescrizioni di esami e visite fatte dai medici di famiglia o dai medici ospedalieri, oppure sull’offerta, garantendo più prestazioni.

In molti casi c’è un evidente squilibrio tra le liste di attesa nelle strutture pubbliche e in quelle private accreditate, cioè quelle che forniscono servizi sanitari per conto del Servizio sanitario nazionale, che successivamente rimborsa la differenza tra il ticket pagato dal paziente e il costo della visita sulla base di criteri e limiti di spesa decisi dalle regioni. Negli ospedali pubblici le liste sono decisamente più lunghe. I privati hanno tempi di attesa più brevi perché spesso hanno organizzazioni più flessibili, e a differenza degli ospedali pubblici possono concentrarsi sulle prestazioni più remunerative.

C’è poi la possibilità di accedere all’attività “libero-professionale intramuraria” conosciuta anche come “intramoenia”, una locuzione latina che significa “tra le mura”. L’intramoenia consente ai medici di esercitare la libera professione nelle strutture sanitarie pubbliche al termine dei loro turni di lavoro, per il Servizio sanitario nazionale. La sanità pubblica mette a disposizione il sistema di prenotazione dei CUP, gli ambulatori e i macchinari. Il costo della visita o degli esami, più alto rispetto a una visita prenotata con il Servizio sanitario nazionale, viene ripartito solitamente dando l’80% ai medici e il 20% all’ospedale, ma è l’ospedale a decidere quanto lasciare ai medici. Le visite in intramoenia furono introdotte nel 1999 anche per evitare che le persone si affidassero alle cliniche private, in realtà con il passare degli anni la quota di visite intramoenia è aumentata molto e in molti ospedali ha superato quella delle visite garantite dal servizio sanitario nazionale.

Nonostante l’emergenza coronavirus sia finita da almeno due anni, l’ISTAT attribuisce l’aumento delle persone che rinunciano alle cure alle conseguenze dirette e indirette della pandemia: c’è ancora un ritardo nel recupero delle prestazioni sanitarie saltate a causa dell’emergenza e molti ospedali non sono riusciti a riorganizzare l’offerta di esami e visite a causa della mancanza di medici. Per quanto riguarda i costi, invece, incide soprattutto l’inflazione che continua a crescere più degli stipendi.