Perché il governo italiano e Stellantis non riescono proprio ad andare d’accordo

Le loro posizioni inconciliabili vengono da lontano e rispondono a logiche aziendali, occupazionali e anche di propaganda politica

Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis, durante l'inaugurazione del nuovo impianto di produzione nello stabilimento torinese di Mirafiori, il 10 aprile 2024 (ALESSANDRO DI MARCO/ANSA)
Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis, durante l'inaugurazione del nuovo impianto di produzione nello stabilimento torinese di Mirafiori, il 10 aprile 2024 (ALESSANDRO DI MARCO/ANSA)
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I rapporti tra il gruppo Stellantis e il governo italiano sono stati tesi fin dall’insediamento di Giorgia Meloni come presidente del Consiglio, nell’ottobre del 2022, e hanno attraversato sia lunghe fasi di conflitto latente che scontri mediatici più puntuali ma plateali. L’ultimo di questi ha riguardato il nome dell’ultimo modello di Alfa Romeo, marchio del gruppo Stellantis: il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, di Fratelli d’Italia, giovedì 11 aprile ha criticato la scelta di chiamare “Milano” un modello che verrà prodotto in Polonia, evocando impropriamente la legge contro l’Italian Sounding, la contraffazione dei marchi tipici italiani. Lunedì il gruppo Stellantis ha diffuso un comunicato piccato nei confronti del governo in cui annunciava di aver cambiato il nome del modello, che non sarà più “Milano” ma “Junior”.

Alla base di questo rapporto conflittuale ci sono sia ragioni politiche sia altre legate all’occupazione e all’economia. Di base Meloni e il suo partito, Fratelli d’Italia, criticano il percorso industriale che Stellantis segue da anni e l’assetto societario che ha assunto. Nato dalla fusione del gruppo italo-statunitense Fiat Chrysler Automobiles (FCA) e del gruppo francese PSA meglio noto come Peugeot-Citroën, Stellantis è vista in Italia come l’erede diretta della Fiat, e anche per questo il governo la accusa in maniera più o meno esplicita di non tenere in debita considerazione “l’italianità” del marchio.

Come ha ricordato il ministro Urso in un suo intervento alla Camera il 28 febbraio scorso, nel settore automobilistico lavorano complessivamente 167mila addetti, che diventano 1,2 milioni se si considerano anche l’indotto diretto e indiretto, cioè tutta la rete di aziende e professionisti coinvolti. Tutto il comparto genera nel complesso 90 miliardi di euro di fatturato all’anno e incide sul PIL, il prodotto interno lordo, per il 5,2 per cento. Ha insomma un impatto enorme sull’economia del paese. Circa i tre quarti di queste imprese hanno a che vedere con Stellantis, in maniera più o meno diretta e più o meno esclusiva.

Questo spiega perché il governo stia insistendo molto per convincere Stellantis ad aumentare la sua produzione di auto in Italia, con un conseguente incremento delle persone occupate e del fatturato, di cui beneficerebbe tutto il sistema economico nazionale. Nel 2023, stando ai dati diffusi dall’azienda, Stellantis ha prodotto in Italia 752mila veicoli, con un aumento del 9,6 per cento rispetto al 2022. È una cifra ancora lontana dagli ambiziosi obiettivi indicati dal governo, visto che nel primo trimestre di quest’anno la produzione negli stabilimenti italiani ha avuto un forte calo, di quasi il 10 per cento rispetto allo stesso periodo del 2023. Urso da mesi ripete che Stellantis dovrebbe produrre in Italia almeno 1 milione di veicoli: una cifra irrealistica, per il momento.

Al tempo stesso Urso insiste perché Stellantis sviluppi la produzione e la ricerca sull’auto elettrica in vista della transizione ecologica. Come forma di pressione sull’azienda, minaccia di ridurre gli incentivi al settore: si tratta di circa 1 miliardo con cui, a partire dal febbraio scorso, il governo dà un contributo a chi vuole rottamare la sua auto inquinante sostituendola con una più ecologica. Gli incentivi sono destinati ai clienti, soprattutto a quelli con redditi più bassi, ma avvantaggiano anche i produttori di auto perché rendono più convenienti gli acquisti e li incentivano, appunto. Siccome Stellantis detiene il 33,8 per cento del mercato in Italia, un eventuale taglio agli incentivi colpirebbe soprattutto i suoi interessi.

Di per sé è inusuale che un governo di un paese occidentale interferisca in maniera così diretta e polemica con la strategia aziendale di un’impresa privata. Ma è innegabile che Stellantis ha ancora molti elementi di continuità con la Fiat, la storica azienda automobilistica torinese della famiglia Agnelli, e questo rende le cose più complicate. Per decenni la Fiat ha agito in Italia in regime di monopolio quasi assoluto, ancora oggi è l’unica azienda di auto non di lusso che ha stabilimenti produttivi sul territorio italiano (poi ci sono Ferrari, sempre del gruppo Exor degli Elkann, e Maserati, che però si rivolgono a un mercato molto diverso e producono un numero di veicoli decisamente inferiore).

I tanti governi che dalla fine della Seconda guerra mondiale si sono succeduti hanno garantito in varie forme agevolazioni e incentivi a favore della Fiat, che aveva del resto un’enorme influenza sulla politica proprio in virtù del suo peso industriale ed economico. Per questo motivo le critiche a Stellantis vengono accompagnate spesso, nella retorica del governo, con accuse di avere “tradito” o “rinnegato” l’Italia.

Foto di Adolfo Urso e Giorgia Meloni

Giorgia Meloni e Adolfo Urso il 25 ottobre 2023 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

È una tesi che è un po’ strumentale alla propaganda, e che trova fondamento nell’analisi dell’operazione finanziaria che ha portato alla creazione di Stellantis. La fusione tra FCA e PSA, che ebbe una lunga fase di preparazione iniziata nell’autunno del 2019, si concretizzò all’inizio del 2021 definendo un assetto societario in cui la componente italiana è risultata minoritaria. Exor, la finanziaria del gruppo della famiglia Elkann, cioè gli eredi degli Agnelli, controlla poco più del 14 per cento del capitale sociale di Stellantis, e con John Elkann esprime il presidente del gruppo, che è la carica più prestigiosa ma anche la meno operativa. Invece l’amministratore delegato del gruppo è Carlos Tavares, un manager portoghese che era stato amministratore delegato di PSA, il gruppo francese guidato da Peugeot.

Ma soprattutto, all’interno della società c’è la presenza ingombrante dello Stato francese, che controlla oltre il 6 per cento del capitale sociale di Stellantis tramite la banca d’investimento nazionale, la BPI (più o meno l’equivalente della nostra Cassa depositi e prestiti, CDP).

Durante un suo intervento alla Camera del 24 gennaio scorso, Giorgia Meloni ha detto che quella tra FCA e PSA è stata una «presunta fusione», «che celava in realtà un’acquisizione francese dello storico gruppo italiano»: da qui deriva la sua accusa rivolta ai dirigenti del gruppo di tenere «in considerazione molto più le istanze francesi rispetto a quelle italiane». Inoltre il gruppo ha mantenuto come sede fiscale quella scelta da FCA, Amsterdam, per godere della tassazione più bassa che offre alle aziende il governo olandese.

In realtà i legami e gli interessi di Stellantis in Italia sono rimasti considerevoli. Degli 11 marchi che fanno capo al gruppo, quattro sono italiani (Fiat, Alfa Romeo, Lancia e Maserati) e Fiat è nettamente il marchio più solido rispetto a qualsiasi altro, con 1,35 milioni di auto vendute nel 2023 in tutto il mondo. Il 17 per cento dei 43mila dipendenti di tutto il gruppo è occupato in Italia, dove pure da anni gli occupati del gruppo sono in forte e costante calo. Alla Borsa di Milano Stellantis è il più importante gruppo quotato. Nonostante questo, è evidente come da tempo l’Italia non sia più il mercato di riferimento di Stellantis, che è ormai una multinazionale con attività industriali in oltre 30 paesi.

Alle accuse di mantenere una produzione in Italia troppo scarsa, Tavares risponde dicendo che in Italia non c’è domanda: la gente compra sempre meno auto e tende a cambiarle con sempre meno frequenza. È vero che la produzione italiana del gruppo (prima FCA, ora Stellantis) dal 2017 a oggi è scesa da circa 1 milione a poco più di 750 mila veicoli all’anno, ma è anche vero che il mercato italiano dell’auto si è contratto significativamente nello stesso periodo, passando da 2,1 a 1,7 milioni di auto comprate all’anno. E il 63 per cento delle auto prodotte negli stabilimenti italiani sono destinate all’esportazione all’estero.

In sintesi, le posizioni del governo e quelle di Stellantis sono piuttosto inconciliabili. Per questo motivo nelle ultime settimane i confronti sono stati altalenanti, a volte durissimi e altre apparentemente distesi.

A fine gennaio, Meloni disse alla Camera:«Se si vuole vendere un’auto sul mercato mondiale pubblicizzandola come gioiello italiano, allora quell’auto deve essere prodotta in Italia». Pochi giorni dopo, il primo febbraio, Tavares diede un’intervista a Bloomberg in cui replicò con irritazione: «Tutto questo è un capro espiatorio per cercare di evitare di assumersi la responsabilità del fatto che, se non si danno sussidi per l’acquisto di auto elettriche, si mettono a rischio gli impianti italiani». I dirigenti di Fratelli d’Italia si dissero risentiti per questa risposta e arrivarono a sostenere che quell’intervista neanche esistesse.

Sergio Mattarella insieme a John Elkann nel box della Ferrari durante il Gran Premio di Formula 1 a Monza, l’11 settembre 2022 (MATTEO BAZZI/ANSA)

Il 6 febbraio John Elkann andò a Roma per una serie di visite istituzionali: incontrò il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, il comandante dei carabinieri Teo Luzi e l’ambasciatore statunitense Jack Markell (il 21 per cento del capitale di Stellantis è detenuto da investitori statunitensi). Era uno di quei viaggi che spesso faceva suo nonno, lo storico presidente del gruppo Fiat Gianni Agnelli, per avere colloqui diretti coi massimi rappresentanti delle istituzioni. Sembrò un segnale di distensione importante, visto che a Elkann era stato più volte rimproverato da analisti e commentatori di non occuparsi abbastanza delle relazioni con la politica romana.

Il 18 marzo Tavares diede due interviste, al Sole 24 Ore e alla Nazione, in cui da un lato rinnovò la richiesta di maggiori incentivi per sostenere la produzione di auto elettriche; e dall’altra disse che l’Italia aveva ancora un ruolo fondamentale nella strategia aziendale di Stellantis, promettendo nuovi investimenti per lo stabilimento torinese di Mirafiori.

La reazione del governo non fu entusiasta, dopodiché si è arrivati alle recenti evoluzioni del confronto tra Urso e i dirigenti di Stellantis sul nome della nuova Alfa Romeo. E a un nuovo motivo di scontro.

Urso sta ventilando da settimane l’ipotesi di una maggiore apertura del mercato italiano a produttori stranieri, e ha avviato alcuni negoziati con un gruppo di aziende di varie parti del mondo. A seconda delle versioni che vengono date da diversi funzionari del ministero, le aziende che si sarebbe dette interessate in via preliminare ad aprire nuovi impianti di produzione in Italia sarebbero 6 o 8. Urso ha anche specificato che il governo è in contatto con tre aziende cinesi. In questo modo si vorrebbe raggiungere l’obiettivo di produrre in tutto 1,4 milioni di auto all’anno in Italia.

Martedì è arrivata un’ulteriore conferma in questo senso: Bloomberg ha scritto che sono stati avviati colloqui preliminari tra Urso e Dongfeng, marchio cinese che peraltro possiede una piccola parte del capitale sociale di Stellantis. Uno dei capi europei di Donfeng ha detto a Bloomberg che l’obiettivo sarebbe produrre almeno 100mila auto all’anno in Italia.

Le indiscrezioni hanno spinto giorni fa Tavares a commentare in maniera polemica l’eventuale ingresso in Italia di un’azienda cinese, un «competitor molto aggressivo sui prezzi». Ma agevolare l’ingresso in Italia di un produttore cinese, in un settore così importante, costituisce una scelta delicata sul piano diplomatico, in controtendenza rispetto al riavvicinamento del governo di Meloni agli Stati Uniti. L’Italia infatti è stata per anni considerata troppo incline agli interessi cinesi, dopo che nel 2019 il primo governo di Giuseppe Conte aveva firmato l’accordo commerciale e politico noto come “Via della Seta”, unico paese del G7 a farlo. Meloni, assecondando le richieste statunitensi, nel dicembre scorso aveva deciso di non rinnovare questa intesa.

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