Cosa è stato fatto finora per contrastare la siccità

Soprattutto un’estesa ricognizione per capire cosa non funziona, per esempio le tante dighe bloccate da fango e ghiaia

Il ponte della Becca, a Pavia, in secca nell'estate del 2016
Il ponte della Becca, a Pavia, in secca nell'estate del 2016 (AP Photo/Antonio Calanni)
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Nell’ultimo anno, cioè da quando è stato nominato commissario contro la siccità, Nicola Dell’Acqua si è occupato soprattutto di capire cosa non sta funzionando. Infatti la gestione idrica in Italia è da sempre molto frammentata, divisa tra enti pubblici e consorzi di bonifica, e per questo è difficile capire chi si occupi di cosa e quali interventi siano stati fatti negli ultimi decenni. «Le crisi idriche, anche in assenza di siccità, sono causate da una gestione dell’acqua che non è organizzata», disse poche settimane dopo la nomina. La sua struttura commissariale ha chiesto a centinaia di istituzioni di avere tutti i dati: il risultato di questo lavoro è stato diffuso nella seconda relazione della “cabina di regia” pubblicata la scorsa settimana.

Rispetto agli ultimi due anni, quando la siccità aveva interessato soprattutto le regioni del Nord Italia, dallo scorso autunno la situazione si è ribaltata: la crisi idrica ha riguardato le regioni del Sud – in particolare la Sicilia, dove non piove da mesi – mentre al Nord le piogge e le nevicate invernali hanno assicurato una buona scorta in vista dell’estate. Questa scorta, tuttavia, è solo teorica, perché se l’acqua non verrà mantenuta e gestita bene andrà persa e non potrà soddisfare la domanda nei mesi estivi, quelli più critici per l’agricoltura.

La gestione dell’acqua è affidata ai consorzi di bonifica e irrigazione, associazioni di privati che utilizzano l’acqua di un determinato territorio. Sono lo Stato e le regioni che finanziano le opere pubbliche indispensabili per la distribuzione dell’acqua, ma sono i privati attraverso i consorzi che si occupano della manutenzione e dell’esercizio. In Italia i consorzi di bonifica e irrigazione sono più di 150 e ognuno ha un proprio territorio di competenza individuato con diversi criteri, in parte amministrativi e in parte geografici. Alcuni consorzi, per esempio, si occupano dell’acqua in più regioni.

Le Autorità di bacino, invece, sono enti pubblici costituiti tra lo Stato e le regioni che hanno il compito di programmare la gestione dell’acqua a livello di bacini idrografici, cioè su aree geografiche in cui le acque che scorrono sul suolo confluiscono verso un unico fiume o lago. Dal 2006 il territorio nazionale è diviso in sette distretti idrografici, ognuno dei quali ha un’Autorità di bacino distrettuale.

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Nell’ultimo anno la struttura commissariale si è rivolta proprio alle Autorità di bacino e ai consorzi per capire innanzitutto quante sono le dighe e gli impianti, poi cosa non funziona, quali progetti andrebbero fatti e finanziati per gestire meglio l’acqua e ridurre gli effetti della siccità.

Uno degli interventi più urgenti riguarda le cosiddette opere di sghiaiamento e sfangamento, cioè la manutenzione delle dighe e dei laghi artificiali. Potrebbe sembrare un’operazione di routine, invece sono lavori impegnativi e piuttosto costosi. In totale andrebbero rimossi 58 milioni di metri cubi di sedimenti accumulati in anni o addirittura decenni di scarsa manutenzione: 31,9 milioni nelle Alpi orientali, 1,3 milioni nell’Appennino centrale, 8,3 milioni nell’Appennino meridionale, 12,4 nell’Appennino settentrionale, 3,3 milioni negli impianti del fiume Po, poco meno di 1 milione in Sicilia.

Si stima che questi interventi costeranno 508 milioni di euro, ma consentiranno di recuperare buona parte della portata limitata proprio da fango e ghiaia: nella relazione si legge che su un totale di 468 grandi invasi strategici il volume di acqua è di 8,4 milioni di metri cubi a fronte di 10,3 milioni previsti, circa l’80 per cento. Anche in questo caso la gestione dell’acqua affidata a molti enti non aiuta a custodirla al meglio. «La frammentarietà che caratterizza la gestione del settore idrico del nostro paese è confermata anche nel settore delle grandi dighe, caratterizzato dalla presenza di una pluralità di concessionari, fra cui alcuni di modesta capacità tecnico-gestionale-finanziaria», dice la relazione del commissario.

La struttura commissariale ha chiesto alle Autorità di bacino quali sono i progetti considerati strategici nel piano complessivo che non è possibile portare avanti, proprio per via dei costi. Il piano comprende 562 opere e richiede una spesa di 13,5 miliardi di euro. Le Autorità hanno risposto con un elenco dei progetti «di preminente interesse nazionale» per cui la struttura commissariale può chiedere una semplificazione normativa. I progetti selezionati sono 127 per un totale di 3,67 miliardi di euro. L’Autorità di bacino del fiume Po ha chiesto 886 milioni di euro per 22 interventi, come il completamento degli impianti irrigui del consorzio Bealera Maestra, in provincia di Cuneo, e il rifacimento dei canali di irrigazione in provincia di Novara. La Sicilia ha chiesto 829 milioni di euro per 27 opere di cui 294 milioni soltanto per il consolidamento e la messa in sicurezza della diga Disueri, in provincia di Caltanissetta.

L’Autorità dell’Appennino meridionale ha chiesto quasi 200 milioni di euro per la rete a pressione della piana del Fucino, in Abruzzo, mentre nell’Appennino centrale si punta a ridurre le perdite idriche nei comuni in provincia di Viterbo. Nelle Alpi orientali una delle priorità è lo sghiaiamento dei serbatoi di Barcis e Ravedis, in Friuli Venezia Giulia. In Sardegna l’obiettivo è sistemare gli acquedotti Coghinas, in provincia di Sassari, con 72,7 milioni di euro.

Molti di questi progetti sono finanziati con i fondi del PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza con cui il governo italiano intende spendere i finanziamenti europei del Recovery Fund. Poco meno di un miliardo di euro servirà in particolare a sistemare gli acquedotti e limitare le perdite idriche che sono ancora molto alte: secondo i dati più recenti diffusi dall’ISTAT, in Italia viene disperso il 42,4 per cento dell’acqua immessa nella rete. Secondo Dell’Acqua la scarsa manutenzione è anche conseguenza di canoni di utilizzo troppo bassi. «I canoni demaniali, che sono sostanzialmente l’unico reddito che ha il sistema di approvvigionamento idrico primario, non sono assolutamente sufficienti a fare la manutenzione del sistema», ha detto il commissario. «Gli invasi in Italia sono da rivedere e sistemare. È da 70 anni che non facciamo le giuste manutenzioni».