Perché è quasi impossibile sfiduciare un ministro in parlamento

Le mozioni come quelle contro Matteo Salvini e Daniela Santanchè, che verranno votate nei prossimi giorni, hanno sempre avuto scarsa probabilità di successo: è soprattutto una questione di numeri

La ministra Santanchè e il ministro Salvini nell'aula del Senato, il 5 luglio 2023 (Roberto Monaldo/LaPresse)
La ministra Santanchè e il ministro Salvini nell'aula del Senato, il 5 luglio 2023 (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Nei prossimi giorni la Camera dovrà votare due mozioni di sfiducia: una nei confronti del vicepresidente del Consiglio e ministro dei Trasporti Matteo Salvini, l’altra nei confronti della ministra del Turismo Daniela Santanchè. Se venissero approvate, le mozioni comporterebbero le dimissioni di Salvini e Santanchè dai loro incarichi di governo.

La mozione su Salvini è stata presentata il 23 febbraio scorso dai capigruppo di quasi tutti i partiti di opposizione. Il primo a promuovere l’iniziativa era stato il capogruppo di Azione, Matteo Richetti, al quale si erano poi associati i capigruppo di Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, impegnando dunque tutto il centrosinistra a eccezione di Italia Viva e + Europa. La mozione contesta a Salvini i rapporti tra la Lega e il partito di Vladimir Putin, Russia Unita, e alcune sue reiterate manifestazioni di vicinanza al regime di Putin, che secondo i proponenti getterebbero discredito sul governo italiano.

La mozione contro Santanchè, che presuppone le sue dimissioni sulla base delle diverse vicende giudiziarie che la vedono coinvolta e che riguardano la sua attività di imprenditrice svolta prima di entrare al governo, ha avuto una gestazione più lunga. Fu depositata alla Camera il 6 luglio del 2023 dal Movimento 5 Stelle, che contestualmente ne depositò una analoga al Senato. Quest’ultima fu discussa, votata e respinta dall’aula del Senato il 26 luglio. La settimana scorsa, dopo che si era saputo che Santanchè era indagata dalla procura di Milano anche per truffa aggravata, il capogruppo del M5S alla Camera Francesco Silvestri ha recuperato la mozione rimasta sospesa, l’ha aggiornata e l’ha ripresentata.

È molto improbabile che le mozioni vengano approvate. A rendere scontato l’esito della votazione ci sono innanzitutto le statistiche. Delle 82 mozioni di sfiducia individuali contro un singolo componente del governo presentate in parlamento nella storia repubblicana, e delle 39 che sono state effettivamente discusse dalle aule di Camera e Senato e su cui si è votato, una sola ha avuto esito positivo, comportando dunque le dimissioni del ministro oggetto della mozione. E questo dato si spiega alla luce di una verità banale: e cioè che a presentare le mozioni di sfiducia contro i ministri sono sempre i partiti di opposizione, che però nelle aule parlamentari sono in minoranza, per cui è ovvio che non abbiano la forza e i numeri per far approvare la loro richiesta di dimissioni.

Giulio Andreotti in un’immagine d’archivio di ANSA

La prima volta che in parlamento si votò una mozione di sfiducia individuale nei confronti di un ministro fu nel 1984: fu una novità di un certo rilievo. La Costituzione infatti non prevede questa procedura, ma solo una mozione di sfiducia all’intero governo che, se approvata, ne determinerebbe la caduta. Il 4 ottobre di quell’anno, a seguito di nuovi sviluppi e nuove inchieste giornalistiche su alcuni scandali bancari italiani, il Partito radicale di Marco Pannella presentò alla Camera una mozione contro il ministro degli Esteri Giulio Andreotti, denunciando connessioni tra il leader democristiano e il banchiere e criminale Michele Sindona. Alla base di questa richiesta c’era soprattutto la relazione finale della commissione parlamentare d’inchiesta sul “caso Sindona”, pubblicata in realtà due anni e mezzo prima. Non essendo contemplata dalla Costituzione l’ipotesi di una sfiducia contro il singolo ministro, la mozione dei radicali impegnava il governo, guidato all’epoca da Bettino Craxi, a rimuovere Andreotti. La mozione fu tuttavia respinta, anche per la decisiva astensione del gruppo parlamentare del Partito comunista italiano (PCI), guidato da Giorgio Napolitano.

Ne seguì un’accesa polemica politica, in cui i radicali accusarono i comunisti, che spinse il PCI a promuovere a sua volta una analoga mozione di sfiducia nei confronti di Andreotti al Senato. In vista della discussione, però, il presidente del Senato Francesco Cossiga avviò un aggiornamento del regolamento per disciplinare questa procedura. La giunta per il regolamento, l’organismo che si occupa di queste faccende, dopo un’articolata discussione stabilì che le votazioni sarebbero avvenute con appello nominale e scrutinio palese, cioè come succede nei casi di fiducia o sfiducia per l’intero governo, coi senatori che sfilano uno per uno sotto il banco della presidenza dell’aula e dicono “Sì” o “No” a seconda che vogliano sostenere o respingere la mozione.

Ciò rese la mozione di sfiducia più inoffensiva: trattandosi di una votazione palese, in cui la preferenza di ogni singolo senatore è espressa pubblicamente, l’intervento dei cosiddetti “franchi tiratori”, cioè di coloro che votano contro le indicazioni del proprio partito, diventava meno plausibile. Il 30 ottobre il Senato votò la mozione del PCI e le altre due, analoghe, presentate dal Movimento Sociale Italiano, di estrema destra, e dai senatori indipendenti di sinistra: furono respinte tutte e tre. Ma da quel momento la pratica della sfiducia ai ministri venne sdoganata e disciplinata.

La Camera decise di lì a poco di introdurre una modifica specifica al suo regolamento; al Senato si è lasciato che fosse la prassi a determinare il funzionamento della procedura. In entrambe le camere, in ogni caso, si è stabilito che per la mozione di sfiducia al singolo ministro si debbano seguire le stesse regole valide per la sfiducia al governo: deve essere sottoscritta da almeno un decimo degli eletti, non può essere discussa prima di tre giorni dalla data della sua presentazione, va votata per appello nominale. Ancora oggi è così.

Il ministro della Giustizia Filippo Mancuso nell’aula del Senato mentre si discuteva la mozione di sfiducia nei suoi confronti, il 18 ottobre 1995 (ANSA)

Ci vollero comunque undici anni, da quel 1984, prima che una mozione di sfiducia a un ministro avesse buon esito. Ma fu un caso molto particolare. Dal gennaio del 1995 era infatti in carica un governo tecnico guidato dall’economista Lamberto Dini, sostenuto da una maggioranza eterogenea di centrosinistra, di centro e con dentro anche la Lega Nord. Il ministro della Giustizia, il giurista siciliano Filippo Mancuso, entrò in polemica con il “pool” di Mani Pulite, cioè il gruppo di magistrati milanesi che indagavano da anni sui casi di corruzione nella politica e nella grande imprenditoria italiana noti come Tangentopoli. Mancuso inviò gli ispettori alla procura di Milano, convinto che i magistrati del pool utilizzassero metodi poco in linea coi limiti del codice di procedura penale e della Costituzione per ottenere dagli indagati confessioni e ammissioni di colpa. Con le sue posizioni radicali e i suoi modi scenografici, Mancuso finì a litigare anche con il presidente della Repubblica dell’epoca, Oscar Luigi Scalfaro, mettendo in imbarazzo lo stesso presidente del Consiglio Dini.

La mozione di sfiducia nei confronti di Mancuso fu presentata dai partiti di centrosinistra di maggioranza, e il governo fece ben poco per difenderlo. Anche Dini fece trapelare alla stampa che avrebbe auspicato le dimissioni di Mancuso. La mozione fu votata il 19 ottobre: fu approvata coi voti favorevoli di quasi tutti i senatori di maggioranza e di alcuni dell’opposizione, mentre la gran parte dei senatori contrari decise di non partecipare al voto. Mancuso si dimise, ma rinnovando le polemiche. Alla vigilia del voto aveva peraltro annunciato un ricorso alla Corte Costituzionale, per contestare la legittimità della procedura. Nel gennaio del 1996 la Corte Costituzionale dichiarò che la sfiducia ai suoi danni era valida e rispettava la legge e i regolamenti parlamentari.

La mozione contro Mancuso resta tuttora l’unica individuale approvata. Anche per questa evidenza statistica, nel corso degli anni i partiti hanno utilizzato con una certa parsimonia questo strumento, che solo apparentemente è efficace per mettere in difficoltà un ministro. Spesso, infatti, il voto sulla mozione viene considerato come il momento culminante e risolutivo delle polemiche su un ministro finito al centro delle contestazioni delle opposizioni: tuttavia, dato che l’esito è di fatto scontato, la bocciatura della sfiducia vale anche a rafforzare la posizione di quel ministro o di quella ministra, che da quel momento in poi può dire, non a torto, che il parlamento gli ha rinnovato la fiducia e il caso è chiuso, come si dice.

La XVII legislatura, tra il 2013 e il 2018, fa un po’ caso a sé, perché coincise con l’esordio in parlamento del Movimento 5 Stelle, che allora aveva l’abitudine a fare un’opposizione molto vistosa e teatrale. In quel periodo ci fu la più alta frequenza di mozioni di sfiducia presentate: 34 in tutto, di cui ben 30 proposte dal solo M5S (alcune vennero poi accorpate perché erano quasi uguali). Il Movimento usava le mozioni di sfiducia in modo inedito, allo scopo di chiedere più volte, anche a distanza di mesi, le dimissioni di ministri non per le attività svolte durante il mandato, ma per vicende giudiziarie a loro carico ancora in fase del tutto preliminare, o persino per questioni legate ai loro famigliari.

Il 15 marzo del 2017, per esempio, il Senato votò, respingendola, la mozione di sfiducia contro il ministro dello Sport Luca Lotti presentata dal M5S. Alla base della mozione c’era il fatto che Lotti era indagato in un’inchiesta sul caso Consip, che riguardava presunti comportamenti illeciti nella gestione di alcuni appalti pubblici. L’11 marzo scorso del 2024 Lotti è stato assolto dal tribunale di Roma, e l’intera indagine si è rivelata piuttosto inconsistente.