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  • Venerdì 18 febbraio 2022

Tangentopoli trent’anni dopo

Le interpretazioni storiche che cominciano a formarsi individuano nelle inchieste di Mani Pulite l'illusione di una soluzione semplice per problemi vecchi e radicati

di Mario Macchioni

Antonio Di Pietro nel 1992 (ANSA)
Antonio Di Pietro nel 1992 (ANSA)

Sono passati trent’anni dalla data a cui convenzionalmente si fa risalire l’inizio di Tangentopoli, un periodo che viene spesso indicato come il minimo per poter avviare una riflessione storica sugli eventi del passato, oltre il quale comincia a esserci una sufficiente distanza tra questi e chi li osserva e analizza (è peraltro anche il tempo dopo il quale certi documenti negli archivi vengono resi consultabili). Tuttavia al momento l’analisi storica di Tangentopoli è ancora fatta in larga parte dai politologi e soprattutto dai giornalisti, che furono narratori ma per molti versi anche protagonisti di quel periodo.

Con Tangentopoli ci si riferisce al biennio di inchieste giudiziarie, note con il nome di Mani Pulite, iniziate nel 1992 dalla procura di Milano. Dopo l’arresto del socialista Mario Chiesa, considerato quello che diede inizio a tutto, la procura mise insieme tre sostituti procuratori – Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo – per indagare sull’esteso e ramificato sistema di corruzione e concussione non soltanto a Milano, ma in tutta Italia. Il sistema era alimentato da un giro di tangenti che andava avanti da tempo e che finanziava i partiti politici, in cambio di appalti e accordi commerciali per le imprese che le versavano.

La macchina giudiziaria costruita dai tre magistrati del cosiddetto “pool” di Mani Pulite era imponente. Colombo, Di Pietro e Davigo si divisero i compiti, chi metteva in ordine i dati raccolti con l’ausilio dei primi computer, chi si occupava di mandare le richieste di autorizzazione a procedere contro i politici inquisiti (era necessario che il Parlamento votasse a favore per indagare un deputato o un senatore). Nel frattempo l’attenzione di giornali e televisioni era cresciuta enormemente. La sfiducia per la classe politica c’era stata sempre nella cosiddetta società civile, ma in quel periodo si acuì e si generalizzò.

Ci furono manifestazioni molto partecipate durante le quali i magistrati venivano osannati e ricevevano cori di incoraggiamento. Anche gran parte dei mezzi di informazione si schierò apertamente a sostegno delle inchieste. Quando quattro delle sei autorizzazioni a procedere contro Bettino Craxi furono respinte dal Parlamento, Repubblica titolò a grandi caratteri: «Vergogna, assolto Craxi».

Ma per capire cosa fu Tangentopoli, e che conseguenze ebbe, bisogna inquadrarla in un contesto che era già complicato per l’Italia, soprattutto dal punto di vista economico. Tangentopoli fu infatti possibile anche per via di una serie di circostanze che si sono verificate tutte più o meno allo stesso momento.

Il contesto internazionale di riferimento durante tutta la cosiddetta Prima Repubblica era stata la Guerra fredda. Dalla Seconda guerra mondiale in poi il sistema politico si era retto sulla contrapposizione tra Democrazia cristiana e Partito comunista, e sull’esclusione di quest’ultimo dal governo, condizione necessaria per rimanere all’interno del blocco occidentale e per mantenere buoni rapporti con gli Stati Uniti. Una parte del consenso stesso in Italia si reggeva su questa esclusione: i milioni di voti che prendevano la Dc e gli altri partiti minori di destra erano voti sostanzialmente anticomunisti.

Nel 1992 però la situazione internazionale stava cambiando in fretta. L’Unione sovietica si era disgregata solo l’anno prima, mentre il muro di Berlino era crollato da tre anni.

Un altro pezzo consistente del consenso verso i partiti della Prima Repubblica si reggeva invece sulla spesa pubblica. Il grande sviluppo economico dell’Italia nel Secondo dopoguerra permise ai governi di spendere senza troppi riguardi. In un’epoca in cui il PIL italiano cresceva a ritmi sostenuti, una spesa pubblica generosa non costituiva un problema. Col tempo però, soprattutto dalla fine degli anni Ottanta, la crescita economica cominciò a ridursi e gli squilibri si resero più evidenti, in particolare il debito pubblico, che era cresciuto enormemente per finanziare la spesa, ma che non era più sostenuto da una crescita alta come ai tempi del “boom economico” e del benessere degli anni precedenti.

Il 1992 non fu solamente l’anno di Tangentopoli, ma anche l’anno in cui l’Italia aderì al trattato di Maastricht, con cui si avviò il lungo processo che avrebbe portato alla moneta unica in Europa. Per aderire al trattato, l’Italia accettò di rispettare una serie di vincoli di bilancio, tra cui il contenimento del debito pubblico. Per ridurre il debito, l’unica via era quella di tagliare la spesa, rischiando di mandare il paese verso una crisi economica.

La politica corse consapevolmente quel rischio, alla ricerca di quello che viene definito un «vincolo esterno» per risolvere i problemi economici. Come scrive Antonio Varsori, uno dei maggiori esperti italiani di storia dell’integrazione europea, il ministro del Tesoro Guido Carli e il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi intendevano «sfruttare un impegno di carattere internazionale per indurre una classe politica debole e timorosa a far accettare all’opinione pubblica interna politiche economiche di austerità, di contenimento della spesa pubblica e di radicali riforme».

L’austerità però ha un costo e il vincolo esterno non bastò. Sempre nel 1992, a luglio, quando al governo c’era Giuliano Amato, ci fu una grave crisi finanziaria. Il debito pubblico era alto ma la spesa doveva restare contenuta, e nel frattempo la lira italiana era debolissima per via di una serie di fattori, tra cui il progressivo trasferimento all’estero di molti capitali italiani e stranieri, e gli alti tassi di interesse internazionali che rendevano difficile il finanziamento delle imprese. In questo contesto complicato, Amato si vide costretto a fare una «manovra correttiva» da 30mila miliardi di lire, finanziandola con una misura che divenne famigerata: il prelievo forzoso dai conti correnti del 6 per mille.

Le difficoltà economiche di quel periodo, culminate poi negli attacchi speculativi contro la lira a settembre del 1992, furono un altro fattore che contribuì a erodere il consenso nei confronti dei partiti. Mentre questi venivano di fatto demoliti dalle inchieste giudiziarie, accusati di aver rubato e intascato tangenti, l’Italia attraversava la peggiore crisi economica dall’inizio degli anni Settanta.

In pratica, nel 1992 alcuni problemi strutturali del paese, che erano stati accantonati negli anni precedenti, acquisirono una dimensione tale da non poter più essere ignorati: la corruzione di cui si alimentava il sistema dei partiti e un pezzo dell’economia italiana; gli squilibri di bilancio, peraltro “ingabbiati” nei parametri di Maastricht; il sistema politico bloccato e logorato da decenni di governo democristiano, senza una vera alternanza.

Tangentopoli fu in qualche modo un tentativo di risposta a tutti questi problemi, tramite via giudiziaria. Ma l’opinione di molti è che non fosse affatto la soluzione giusta per risolverli.

Uno striscione davanti a palazzo Marino, a Milano, l’11 maggio 1992 (ANSA/OLDPIX)

Secondo Paolo Mattera, docente di Storia contemporanea all’Università Roma Tre, Tangentopoli fu il momento in cui culminò un sentimento di rigetto nei confronti della classe politica che però aveva radici ben più lontane. «Già alla fine degli anni Settanta cominciava a diffondersi l’idea che per risolvere i problemi della società non bisognava rinnovare la classe politica, bensì eliminarla» dice Mattera. «Era un’idea verso la quale anche Aldo Moro aveva cercato di mettere in guardia con il suo celebre discorso del 1977». Quell’anno la Democrazia cristiana era nel pieno di un altro caso di tangenti, più circoscritto, il cosiddetto scandalo Lockheed. Un deputato aveva ammonito gli esponenti della Dc che sarebbero stati «processati nelle piazze», e Moro gli rispose così: «Onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo nelle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare».

Moro, dice Mattera, «colse il distacco fra dirigenti politici e società civile, notando la diffusione di una voglia di vendetta catartica piuttosto che di rinnovamento e giustizia». Erano i primi segnali di una visione autoassolutoria che separava la società civile dalla classe politica. Ma negli anni Settanta e Ottanta il potenziale dissenso non si innescò per via del contesto internazionale della Guerra fredda, e perché il benessere economico non era ancora compromesso dai vincoli di bilancio.

In quel periodo ci sarebbe stato margine per riformare il sistema dall’interno. Dopo le elezioni del 1983, i gruppi parlamentari istituirono una commissione bicamerale per le riforme istituzionali, per ripensare il sistema parlamentare e «restituire ai cittadini la facoltà di scegliere, anche indirettamente, gli indirizzi di governo». Tuttavia, nonostante la consapevolezza diffusa, «i partiti politici si bloccarono reciprocamente in una rete di veti incrociati, non arrivando a una soluzione condivisa. In sostanza, il sistema politico da oltre quarant’anni funzionava male, ma proprio perché funzionava male non riusciva a trovare una soluzione», dice Mattera. E quindi prevalse la soluzione più immediata, quella di prendersela con il sistema dei partiti e della classe politica.

Mattera non è l’unico storico a dare questa interpretazione di Tangentopoli. Secondo Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea all’Università LUISS, la crisi che iniziò nel 1992 fu una «crisi sacrificale»: «Di fronte a un’immensa transizione storica quale fu Tangentopoli, la magistratura diventò lo strumento attraverso il quale si sperava di ottenere un risanamento totale del paese, una sorta di soluzione finale, un modo per farsi rimettere tutti i peccati. Perché è vero che gli italiani avevano votato i partiti malvolentieri, “turandosi il naso”, però li avevano votati, perciò in un certo senso erano stati corresponsabili».

In sostanza, dice Orsina, l’eliminazione della classe dirigente venne vista quasi come una «formula magica», un modo per uscire puliti dalla crisi e allinearsi con il resto d’Europa. C’era insomma l’idea che anche soltanto rimuovendo i politici che avevano avuto il potere in quegli anni le cose sarebbero cambiate. «Ovviamente le conseguenze furono enormi. La speranza di trovare una soluzione rapida era irrealistica, e quindi puntualmente non si realizzò. Ma nonostante la delusione questa speranza si riaccese di volta in volta negli anni successivi, prima con Berlusconi, poi con l’ingresso nell’euro, poi con il Movimento 5 Stelle e così via».

Secondo Orsina, per gli italiani non era solo la politica di quel momento storico a essere un problema, ma la politica nel suo complesso. «Da lì infatti parte una lunga fase di antipolitica. La Seconda Repubblica fu anche uno scontro tra due forme di antipolitica, quella di Berlusconi fondata sui manager e sul settore economico privato, e quella, più forte a sinistra, della magistratura, ossia l’idea che la soluzione fosse nelle mani della purezza e della moralità garantite dal potere giudiziario».

Che il rapido rinnovamento morale del paese fosse un’illusione lo sostengono anche altri studiosi. Goffredo Buccini, che all’epoca di Tangentopoli era un giovane cronista di giudiziaria del Corriere della Sera, ne ha scritto nel libro intitolato Il tempo delle Mani Pulite, in cui fa un bilancio anche del ruolo che ebbe il giornalismo in quella fase. «Ci fu l’illusione della palingenesi, della fine – mi viene da ridere – della corruzione» ha detto Buccini in un’intervista. «Si pensava che questo paese potesse rigenerarsi moralmente, che l’opera dei giudici incidesse sul modo di vivere la vita pubblica, e mi verrebbe da dire persino quella privata. Naturalmente non è così, perché ci si “salva” politicamente, non per via giudiziaria».

«E anche perché nel frattempo, gli stessi italiani che facevano i cortei sotto al palazzo di Giustizia inneggiando a Di Pietro, decidono di eleggere Silvio Berlusconi» ha aggiunto Buccini. «Che è oggettivamente stato un imprenditore molto assistito dalla Prima Repubblica, con una contraddizione piuttosto vistosa rispetto a quei cortei».

Persino Gherardo Colombo, uno dei magistrati del pool che seguì le indagini, concorda sul fatto che la sola via giudiziaria non basta a trovare le soluzioni di cui un paese ha bisogno, soprattutto se si parla di problemi complessi e radicati. Colombo ha lasciato la magistratura nel 2007, oggi fa lo scrittore e si occupa prevalentemente di fare divulgazione su temi relativi alla legalità e alla situazione nelle carceri italiane. Periodicamente è tornato a parlare pubblicamente di Tangentopoli, elaborandone le cause, condividendo memorie e analizzando come sia cambiata la corruzione dopo le inchieste dell’epoca. In una intervista in occasione dell’anniversario dell’arresto di Mario Chiesa ha detto:

A me [Mani Pulite] ha lasciato la consapevolezza assoluta che fenomeni così diffusi di trasgressività possano essere affrontati soltanto a un livello diverso del processo penale. È impossibile riuscire a marginalizzare la corruzione attraverso un processo penale. Non è lo strumento giusto e ne abbiamo la prova. Dopo trent’anni di indagini e processi siamo ancora qui a parlare di corruzione e a farci la domanda “com’è la corruzione oggi rispetto ad allora”. E intanto sono passati trent’anni.