La Grande Moschea di Parigi nascose centinaia di ebrei durante la Seconda guerra mondiale?

È una storia molto raccontata in Francia per superare divisioni tra musulmani ed ebrei, ma per la ricerca storica le prove sono carenti

L'interno della Grande Moschea di Parigi durante una preghiera del venerdì
L'interno della Grande Moschea di Parigi durante una preghiera del venerdì, nel 2020 (Kiran Ridley/Getty Images)
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Ogni anno per la ricorrenza della Giornata della Memoria sono pubblicati nuovi libri sulla Shoah, il genocidio degli ebrei europei durante la Seconda guerra mondiale. Tra gli altri quest’anno è uscito La guerra di Safiyyah, un romanzo per ragazzi ispirato a una storia ignota fino a trent’anni fa e poco conosciuta in Italia: quella secondo cui, durante l’occupazione nazista del nord della Francia, alcune centinaia di persone di origine ebraica furono nascoste e aiutate nella Grande Moschea di Parigi.

È una storia che è stata raccontata più volte, anche in occasioni istituzionali, con l’intento di rappresentare un esempio positivo di convivenza tra musulmani ed ebrei, e anche l’autrice del romanzo, Hiba Noor Khan, ha detto di ritenerla «unificante». È però una vicenda ricostruita sulla base di poche testimonianze e che per questo, sia per gli storici che l’hanno studiata, sia per gli enti ebraici che si occupano di memoria della Shoah, non è certo che sia davvero accaduta come viene raccontata. Sappiamo che alcune persone di origine ebraica furono aiutate dalla moschea, ma non ci sono prove che siano state «tra 500 e 1700» come scrive Khan in fondo al suo libro, né che l’uomo che la dirigeva ai tempi non avesse in altri casi collaborato coi nazisti.

Ambientato tra il 1940 e il 1941, La guerra di Safiyyah racconta di una ragazzina che fa parte della comunità musulmana della Grande Moschea di Parigi e che contribuisce a nascondere e aiutare persone ebree insieme al padre e ai capi dell’istituzione religiosa. La trama prende ispirazione dalla vita di Kaddour Benghabrit, teologo algerino vissuto tra il 1868 e il 1954 e primo direttore della Grande Moschea, che fu costruita a partire dal 1922 nel quinto arrondissement della città.

Secondo alcune testimonianze, che emersero solo molti decenni dopo la fine della guerra, durante l’occupazione tedesca Benghabrit sostenne un gruppo dei Franchi tiratori e partigiani francesi (FTPF), l’organizzazione partigiana comunista francese, di etnia berbera, fece nascondere numerose persone ebree all’interno della moschea e le aiutò a spacciarsi per musulmane grazie a documenti falsi.

Fotografia di Kaddour Ben Ghabrit

Kaddour Benghabrit (Wikimedia Commons)

La prima menzione pubblica di queste vicende risale a un documentario del 1991, Une résistance oubliée: La Mosquée de Paris 1940/1944, “Una resistenza dimenticata: la Moschea di Parigi”, realizzato dal regista di origini algerine Derri Berkani – che potrebbe essere familiare a qualcuno in Italia per aver collaborato con il regista Roberto Rossellini, in particolare interpretando il protagonista della sua miniserie televisiva Agostino d’Ippona (1972). Figlio di partigiani comunisti, Berkani venne separato dai genitori durante la guerra, quando aveva pochi anni e in Une résistance oubliée racconta di essere stato portato via da Parigi insieme a un certo numero di bambini ebrei da una rete di persone legate alla Resistenza.

Nel film, ai ricordi infantili dello stesso regista, sono unite le testimonianze di alcune persone adulte ai tempi della guerra. Una è quella di Albert Assouline, un uomo ebreo nato in Algeria che fece parte dell’esercito francese e poi della Resistenza. Nel documentario di Berkani Assouline racconta che nel settembre del 1940 scappò da un campo di prigionia tedesca insieme a un commilitone musulmano, Yassa Rabah, e per qualche notte trovò rifugio nella Grande Moschea, prima di fuggire nel sud della Francia, allora amministrato da un governo collaborazionista dei tedeschi. Assouline dice anche che Mohamed Benzouaou, il primo imam della moschea, «si prese dei grossi rischi per dare a degli ebrei dei certificati che attestavano che erano musulmani» e che tra le altre cose accompagnò un rabbino da Metz, nel nord del paese, a Narbona, nel sud, dopo averlo travestito da musulmano.

Assouline disse anche a Berkani che durante la guerra dei paracadutisti britannici vennero nascosti temporaneamente nella moschea e, a partire dal 1942, anche dei bambini ebrei. Il complesso religioso era usato come nascondiglio temporaneo, in cui erano ospitati nell’attesa che fosse organizzata una via di fuga fuori dalla Francia occupata. Stando ad Assouline, Benzouaou e Benghabrit ottennero delle tessere annonarie in più per procurarsi provviste alimentari aggiuntive con cui sfamare le persone nascoste. Secondo un conteggio di queste tessere fatto alla fine della guerra, Assouline stimò che «non meno di 1.732 partigiani trovarono rifugio nei sotterranei della moschea: musulmani ma anche cristiani ed ebrei».

L’altra testimonianza diretta presente nel film di Berkani è quella di Salim Hallali, un cantante ebreo algerino che negli anni Trenta faceva musica insieme a musicisti musulmani sia in Algeria che in Francia. Anche Hallali raccontò di essere stato aiutato da Benghabrit: il direttore della moschea gli diede dei documenti che certificavano che era musulmano e fece iscrivere il nome di suo nonno su una tomba del cimitero franco-musulmano di Parigi, come ulteriore garanzia.

Une résistance oubliée non ebbe grande risonanza negli anni Novanta. Berkani però si impegnò per fare conoscere la storia di Benghabrit anche in seguito, e dal 2004 cominciò a ricevere maggiori attenzioni. In quell’anno in Francia ci fu un numero particolarmente alto di atti antisemiti, e su 209 denunce 104 vennero ricondotte a «contesti arabo-musulmani». Berkani criticò gli attacchi antisemiti mettendoli a confronto col comportamento di Benghabrit e il suo intervento fece sì che la storia del primo direttore della Grande Moschea di Parigi fosse raccontata sui giornali e che Une résistance oubliée venisse proiettato nelle scuole con l’idea di promuovere la conciliazione tra ebrei e musulmani.

 

Poi nel 2011 la vicenda ottenne ancora maggiore notorietà grazie al film Les hommes libres di Ismaël Ferroukhi, che venne proiettato anche al Festival di Cannes.

In seguito al film, la storia di Benghabrit fu citata in molti contesti giornalistici e, come accade spesso quando una vicenda complessa viene sintetizzata, trasformando la stima di Assouline legata alle «1.732» tessere annonarie in un dato definitivo. Nel 2022 lo stesso presidente francese Emmanuel Macron, nel discorso tenuto durante le celebrazioni per il centenario della Grande Moschea, ricordò Benghabrit dicendo che salvò «centinaia, migliaia» di ebrei.

Ma per gli storici che hanno approfondito la questione, non ci sono prove definitive che Benghabrit abbia davvero aiutato così tante persone: la stima di Assouline, morto qualche anno dopo l’uscita di Une résistance oubliée, non può essere verificata. Nonostante gli sforzi dell’associazione Fils et Filles de Déportés Juifs de France (FFDJF) e di altre organizzazioni francesi che si occupano della memoria della Shoah non sono state trovate altre prove che sostengano senza dubbi la testimonianza di Assouline. Negli archivi della Grande Moschea non sono stati trovati documenti in merito e le poche testimonianze indirette raccolte tra i discendenti degli ebrei francesi che vissero in quegli anni non sono sufficienti.

In un podcast di Radio France prodotto nel 2021 Serge Klarsfeld, “cacciatore di nazisti” sopravvissuto alla Shoah da bambino e presidente di FFDJF, ha detto di non aver mai conosciuto ebrei aiutati dalla Grande Moschea: «Penso che se fosse avvenuto sarebbe stato reso noto tra la fine della guerra e gli anni Ottanta e ne sarei stato al corrente».

Ethan Katz, storico ebreo statunitense dell’Università di Berkeley che ha studiato le relazioni tra la comunità ebraica e quella musulmana nordafricana nella Francia di inizio Novecento, è la persona che ha studiato più in profondità la questione. Secondo una sua analisi del 2013 ci sono prove sufficienti per dire che Benghabrit aiutò alcuni ebrei di origine nordafricana – e quindi con fattezze simili a quelle della comunità musulmana che guidava – a nascondere le proprie origini etniche, ma i documenti a nostra disposizione dicono anche che il direttore della moschea collaborò con il governo alleato dei tedeschi della Francia meridionale.

Infatti sappiamo che nel 1944 un funzionario del Commissariato generale per le questioni ebraiche del governo di Vichy (dal nome della località termale dove aveva sede l’autorità collaborazionista) scrisse a Benghabrit per avere un riscontro sulla dichiarazione di una donna tunisina, Germaine Marzouk, che sosteneva di essere musulmana ma era sospettata di essere ebrea. Nella lettera il funzionario fa riferimento a occasioni precedenti in cui Benghabrit venne interpellato per la stessa ragione e negli archivi del Commissariato sono stati trovati riferimenti a quattro altri casi in cui gli fu chiesto un parere dirimente. Marzouk venne arrestata in quanto ebrea e portata nel campo di internamento di Drancy e anche le altre persone su cui fu interpellato Benghabrit vennero considerate ebree: non sono rimaste tracce scritte delle risposte di Benghabrit ma a giudicare dall’esito delle vicende sembra che non coprì le persone interessate.

Sulla base di queste e delle altre scarne informazioni disponibili, Katz ritiene che Benghabrit abbia «compiuto una serie di scelte che inglobano quelli che i ricercatori classificano come atti di resistenza, di collaborazione e di compromesso»: in alcuni casi, quando pensava di poterlo fare senza compromettere la sicurezza della propria comunità, avrebbe aiutato persone ebree, in altri no, mantenendo buoni rapporti di comodo con il governo collaborazionista e con le autorità tedesche. Per questo secondo lo storico la versione semplificata della storia di Benghabrit e della Grande Moschea è «seducente ma incompleta». Katz ha detto di ritenere che «un’analisi più complessa aiuterà in modo migliore la ricostruzione storica e la comprensione vicendevole tra ebrei e musulmani».

La copertina di "La guerra di Safiyyah" di Hiba Noor Khan

La copertina di La guerra di Safiyyah di Hiba Noor Khan, pubblicato in italiano da La Nuova Frontiera nella traduzione di Clara Serretta

Nella decina d’anni trascorsa dallo studio di Katz non sono emerse nuove prove sulle azioni di Benghabrit e sulla storia della Grande Moschea, tanto che lo stesso sito del luogo di culto, nella pagina dedicata alla sua storia, dice che tra il 1940 e il 1944 «fece da rifugio a partigiani, famiglie e bambini ebrei, il cui numero resta ancora da determinare con precisione per la Storia».

Da anni le prove a sostegno dell’aiuto fornito da Benghabrit agli ebrei sono state raccolte e sottoposte allo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele, quello che assegna lo status di “Giusti tra le nazioni” alle persone non ebree che durante la Seconda guerra mondiale rischiarono la propria vita per salvare anche un solo ebreo dallo sterminio nazista. Finora non sono bastate a far ottenere tale riconoscimento alla memoria di Benghabrit: se succedesse, il primo direttore della Grande Moschea di Parigi sarebbe la prima persona musulmana e di etnia araba a essere considerato un “Giusto”. Il significato simbolico che avrebbe questo primato è una delle ragioni per cui molte persone, e da ultima Khan, si sono impegnate per far conoscere la storia di Benghabrit.

Katz ha riconosciuto le buone intenzioni di questo impegno ma, dato che in passato è successo più volte che certe interpretazioni degli eventi storici fossero strumentalizzate per sostenere posizioni d’odio, ritiene che gli storici debbano astenersi dall’intervenire nelle politiche che riguardano la memoria.

Per il podcast di Radio France era stato intervistato anche l’attuale rettore della Grande Moschea di Parigi, Chems-eddine Hafiz, che ha detto: «Mi stupisce che non ci siano maggiori documenti storici sulla moschea e vorrei fare ricerche più approfondite, ma non vorrei fare errori perché la questione è delicata, qualcuno potrebbe accusarci di voler manipolare la storia, e quindi preferisco essere prudente. La Storia si deve scrivere sulle prove». Hafiz però ritiene anche che non ci sia stato un sufficiente interesse da parte degli studiosi sulla vicenda e sui contributi della comunità musulmana.