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  • Mercoledì 14 febbraio 2024

Per la televisione polacca è arrivato il momento delle scuse alla comunità LGBTQ+

Per «anni di parole vergognose», come ha detto un presentatore in onda: è un segno del cambio di linea dopo la fine del governo semi-autoritario di estrema destra

Una manifestazione LGBTQ+ a Varsavia nel 2019 (AP Photo/Czarek Sokolowski)
Una manifestazione LGBTQ+ a Varsavia nel 2019 (AP Photo/Czarek Sokolowski)
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Domenica sera un presentatore della televisione pubblica polacca si è scusato in onda per otto anni «di parole vergognose» nei confronti delle persone LGTBQ+. Wojciech Szeląg, presentatore e giornalista assunto a gennaio dopo un contestato e radicale cambio dell’assetto dirigenziale della televisione pubblica, stava conducendo una trasmissione sul canale di news TVP Info, e prima di iniziare l’intervista a due attivisti dei movimenti LGTBQ+ si è rivolto direttamente alla telecamera, dicendo: «Per molti anni in Polonia tante persone sono state fatte oggetto di parole vergognose perché volevano scegliere da sole chi erano e chi amavano. Le persone LGBT+ non sono un’ideologia, ma persone reali: hanno nomi, facce, parenti e amici. Tutte queste persone devono sentire la parola “scusa”, prima o poi. Qui è dove io mi scuso».

Il suo intervento è stato uno dei segni più evidenti del cambio di linea editoriale delle reti pubbliche della Polonia dopo la vittoria alle elezioni dello scorso ottobre della coalizione guidata dal centrista Donald Tusk e la fine del governo semi-autoritario del partito di estrema destra Diritto e Giustizia.

Le scuse di Szelag sono state interpretate come un cambio di direzione importante per la televisione pubblica polacca, che negli anni di governo del partito Diritto e Giustizia (PiS) si era trasformata in uno dei principali strumenti di propaganda e diffusione di idee della destra radicale, insieme alla radio e all’agenzia di stampa. In particolare aveva riproposto con costanza le tesi repressive sui temi legati all’omosessualità e l’identità di genere. Le persone LGBTQ+ erano state rappresentate come una minaccia per la nazione, i principali attivisti erano stati attaccati ed esclusi dalle trasmissioni, i telegiornali riproponevano la retorica aggressiva degli esponenti del PiS.

Alcune città si erano dichiarate «zone libere dal movimento LGBT», mentre il leader del partito Diritto e Giustizia, Jaroslaw Kaczynski, aveva parlato di «follia di chi si dichiara gay o vuole cambiare sesso» e aveva accusato l’Occidente di esportare in Polonia idee contrarie alla sua tradizione. Durante la campagna per la rielezione nel 2020, l’attuale presidente Andrzej Duda, che in passato ha militato per Diritto e Giustizia, aveva detto che esisteva una «ideologia LGBT, ma non persone LGBT». L’intervento di Wojciech Szeląg è stato interpretato come un messaggio diretto a Duda, che nonostante l’insediamento del nuovo governo è rimasto il principale ostacolo al rinnovamento del paese.

I temi dei diritti della comunità LGBTQ+ sono al centro di un ampio dibattito all’interno della Polonia.

Attivisti e movimenti stanno discutendo con il nuovo governo i termini di una proposta di legge che dovrebbe introdurre il reato di “incitamento all’odio” per questioni di genere. C’è poi il fatto che la Polonia non riconosca ancora in alcun modo i legami fra persone dello stesso sesso, nonostante una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo abbia invitato il governo polacco a farlo.

Bart Staszewski, attivista LGBTQ+, con un cartello che indica le zone “libere dall’ideologia LGBT” (AP Photo/Monika Bryk)

La televisione pubblica della Polonia, e in generale tutto il suo sistema mediatico, sono stati al centro dello scontro più duro fra il nuovo governo di Tusk, che comprende tutte le forze che si opponevano all’ex partito di governo, e le istituzioni che ancora si riconoscono in Diritto e Giustizia. Pochi giorni dopo essere entrato in carica, a metà dicembre, il governo di Tusk aveva licenziato i vecchi dirigenti dei media pubblici, nominandone di nuovi: erano seguite grandi polemiche e anche una protesta di attivisti di destra e di parte dei dipendenti, con un tentativo di bloccare le trasmissioni.

Lo scontro ha coinvolto il presidente Duda, che ha posto il veto a una legge che finanziava il radicale rinnovamento dei media, e anche la Corte costituzionale, tribunale che il governo di estrema destra negli anni scorsi aveva riformato, collocandovi una serie di giudici vicini alle proprie posizioni. A metà gennaio la Corte aveva emesso una sentenza che definiva incostituzionale il processo attraverso il quale erano stati nominati i nuovi dirigenti, ma il governo di Tusk ha annunciato che la ignorerà. Secondo il ministro della Cultura, Bartłomiej Sienkiewicz, la sentenza non ha alcun valore legale perché i giudici della Corte non sono indipendenti ma legati al partito precedentemente al governo.

– Leggi anche: Andrzej Duda vs Donald Tusk