Cosa piace di Meloni alla stampa straniera

Che non sia più la Meloni che conoscevano, soprattutto in politica estera, mentre c'è meno entusiasmo sulle sue scelte economiche

Meloni, con Biden, Sunak e Zelensky al vertice Nato del luglio 2023 (FILIP SINGER/ANSA)
Meloni, con Biden, Sunak e Zelensky al vertice Nato del luglio 2023 (FILIP SINGER/ANSA)
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Mercoledì il New York Times ha dedicato un lungo articolo alla presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e al governo, firmato dal corrispondente a Roma Jason Horowitz. L’articolo è molto incentrato sul ruolo di mediatrice che Meloni ha saputo ritagliarsi in Europa, convincendo il primo ministro ungherese Viktor Orbán a rimuovere il veto da lui precedentemente messo sul rinnovo degli aiuti all’Ucraina.

Ma al di là degli eventi delle ultime settimane, l’articolo è anche l’occasione per fare una sorta di bilancio sull’operato di Meloni alla guida del governo: un bilancio da cui emerge che, secondo Horowitz, Meloni ha saputo smentire le previsioni fosche che c’erano in Italia e soprattutto all’estero sul suo arrivo al potere. «Per molti versi, Meloni ha rassicurato l’establishment europeo. Ha dimostrato di essere solidissima sulla questione ucraina, si è allineata agli Stati Uniti e alla NATO e ha ritirato l’Italia dal grande piano di espansione economica della Cina in Europa», scrive Horowitz, riferendosi in quest’ultimo caso al mancato rinnovo da parte del governo di Meloni del controverso accordo politico-commerciale della “Via della Seta”, in cui l’Italia era entrata nel 2019 con il governo di Giuseppe Conte.

L’analisi del New York Times è interessante anche perché conferma un giudizio, tutto sommato positivo, che larga parte della stampa straniera, specie quella anglosassone, ha espresso negli ultimi tempi su Meloni. E questa buona disposizione verso il governo italiano è motivata soprattutto dalla politica estera. In questo senso, l’articolo di Horowitz è in sintonia con quelli pubblicati su Politico.eu, l’edizione europea del giornale americano, e sul settimanale britannico Economist. Tutti e tre pongono una certa enfasi sul fatto che il principale merito di Meloni sia consistito nel non dare seguito a molte delle promesse elettorali fatte quando era leader dell’opposizione.

A fine novembre, come da tradizione, Politico pubblicò una classifica dei leader europei più influenti, suddivisi in varie categorie. Meloni fu la prima tra quelli che il giornale chiama doers, cioè i “costruttori”. E già questo fece notizia da noi, visto che nel 2021, da leader dell’opposizione, Meloni era stata inclusa tra i disrupters, cioè i “distruttori”: «L’ascesa di Giorgia Meloni alla premiership italiana lo scorso anno ha fatto correre un brivido lungo la schiena dei centristi di tutto il continente e non solo, Bruxelles si è preparata a vedere un membro di un partito post-fascista sedersi (e votare) ai suoi tavoli più alti, rafforzando il gruppo dei bambini problematici dell’Unione».

Invece, a dispetto delle aspettative, Meloni «sembra aver subito una trasformazione nel corso dell’ultimo anno al potere. Mentre prima chiedeva che l’Italia abbandonasse l’euro e prendeva ripetutamente di mira “i burocrati di Bruxelles”, la Meloni di oggi sembra essere in buoni rapporti con la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen». Di qui il soprannome dato da Politico a Meloni, “camaleonte”, una leader in grado di “cambiare pelle” e approcci a seconda delle convenienze del momento.

Un ragionamento simile sostanzia anche buona parte di un articolo dedicato a Meloni dall’Economist a metà gennaio: «Tutto sommato, Meloni ha fornito un dato incoraggiante: la cosiddetta estrema destra in Europa può rivelarsi come una normale destra conservatrice una volta arrivata al potere». Anche qui si parla molto della trasformazione politica di Meloni: «A 15 mesi dall’insediamento, Meloni sembra essere una leader convenzionale piuttosto che una distruttrice». Un percorso che dunque può diventare d’ispirazione anche per altri leader di estrema destra. Su questo l’analisi del New York Times è simile a quella dell’Economist: «Marine Le Pen, leader della destra francese, ha già attenuato il suo sostegno al presidente russo Vladimir Putin e il suo linguaggio euroscettico in vista delle nuove elezioni del 2027» in Francia.

Nel testimoniare questa transizione, il New York Times parla del rapporto di Meloni con von der Leyen, come aveva notato anche Politico. «Nonostante un background ideologico che detesta la globalizzazione, Meloni ha prestato attenzione ai mercati internazionali. Dopo aver attaccato per anni la leadership dell’Unione Europea, sta lavorando a stretto contatto con la presidente della Commissione Europea».

Meloni insieme alla presidente della Commissione Europea von der Leyen durante la Conferenza Italia-Africa a Roma, il 29 gennaio 2024 (RICCARDO ANTIMIANI/ANSA)

In queste riflessioni principalmente incentrate sull’analisi della rassicurante politica estera di Meloni, sono più marginali appunto le scelte di politica interna, in cui si esprime l’approccio più identitario di Fratelli d’Italia e che sono poi spesso quelle che in Italia suscitano maggiore clamore. Politico ha notato come proprio la politica interna sia l’ambito in cui «Meloni continua a offrire argomenti per compiacere la sua base elettorale di estrema destra». Ma è come se all’estero tutto ciò apparisse più chiaramente come un qualcosa legato alla propaganda passeggera, e meno alla sostanza delle cose.

«La politica sociale è rimasta inalterata, nonostante l’ostilità di Fratelli d’Italia verso il diritto all’aborto e il matrimonio omosessuale», scrive l’Economist. «È vero che non ci sono stati progressi verso il matrimonio omosessuale o l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso; ma non ci sono stati nemmeno arretramenti, nonostante questo sia il governo italiano più di destra dal Secondo dopoguerra».

Più che sui diritti civili, la critica a Meloni riguarda semmai l’approccio economico del suo governo. Sia il New York Times sia l’Economist si concentrano ad esempio sulla tassa sugli extraprofitti bancari, prima approvata dal Consiglio dei ministri e poi di fatto ritirata e resa inefficace. «Il nuovo governo», scrive l’Economist, ­«ha mostrato scarso interesse nel promuovere la concorrenza, ha giocato con l’idea di una grande tassa sulle banche prima di abbandonarla e sta cercando di ridurre il ruolo degli investitori stranieri nei consigli di amministrazione italiani». Qui il riferimento è soprattutto a un provvedimento promosso dal governo e appena approvato dal parlamento, il disegno di legge “Capitali”. Sia questo disegno di legge che la tassa sugli extraprofitti erano stati giudicati assai negativamente dall’autorevole quotidiano finanziario Financial Times, che a settembre aveva definito la tassa alle banche «un disastro».

Alle politiche economiche di Meloni, l’Economist ha dedicato un’analisi a parte, sempre a metà gennaio. In questo caso il giudizio è molto meno positivo di quello espresso sulla politica estera, e incentrato sulla scarsa concretezza dei piani del governo per favorire la crescita e la competitività dell’Italia. «Anche la liberalizzazione dell’economia è problematica. Non è una novità. Ogni governo conservatore italiano degli ultimi 30 anni ha esitato a sfidare gli interessi acquisiti che avrebbero sofferto della deregolamentazione. […] Ma nel caso del governo di Meloni c’è un elemento nuovo: il suo stesso partito si ispira a una filosofia economica protezionista, corporativa, statalista e critica nei confronti del libero mercato».