Un viaggio in Ucraina

«Anche se mancava poco al tramonto siamo andati a Podoly, un villaggio quasi completamente deserto al di là del fiume Oskil. Quando siamo arrivati, Alina stava spargendo mangime alle galline. È anziana, ci racconta che viveva dall’altro lato della strada in un palazzo distrutto da due missili: "Io e mio marito Viktor ci siamo trasferiti qui, nella nostra casa estiva, dove abbiamo una stalla e un pollaio. Ma tutti gli altri inquilini se ne sono andati, come quasi tutti gli abitanti di Podoly"»

Villaggio di Podoly, Ucraina, 2023 (foto Edoardo Marangon)
Villaggio di Podoly, Ucraina, 2023 (foto Edoardo Marangon)
Caricamento player

All’arrivo dell’autunno Artur ritornava sempre a Vinnycja, per passare l’inverno in Ucraina con il padre. Ci eravamo conosciuti nel 2018 a una cena a casa di amici a Vercelli, dove viveva sua madre e dove Artur aveva passato tutte le estati della sua adolescenza. In Italia, lavorando come apprendista, aveva imparato il mestiere di elettrauto e il suo obiettivo era aprire una sua attività nella sua città. Quando la guerra è scoppiata, il 24 febbraio 2022, è a lui che io e il mio collega Edoardo abbiamo pensato. Il nostro viaggio in Ucraina è cominciato proprio da Vinnycja, una città di quasi 400 mila abitanti a sud di Kyiv, dove Artur è venuto a prenderci alla stazione.

Oggi Artur ha 29 anni. Nonostante il conflitto si è sposato, è da poco diventato padre di una bambina ed è anche riuscito ad aprire la sua officina di elettrauto. Vinnycja è lontana dal fronte, ma i suoi abitanti sono abituati al suono delle sirene antiaeree e nel luglio 2022 hanno conosciuto la distruzione dei bombardamenti, quando tre missili russi hanno colpito il centro della città, danneggiando una decina di edifici e provocando la morte di almeno 28 persone e il ferimento di altre duecento. Per sostenere il suo paese, Artur si è unito ai volontari di Syla Ne’Ayduzhykh (“Il potere degli Indifferenti”) un gruppo nato nel 2014 per raccogliere fondi e portare rifornimenti alla popolazione e all’esercito. Syla Ne’Ayduzhykh conta una ventina di membri ed è stato fondato da Denys, un ragazzo che ha perso la vista a causa di una malattia degenerativa. Artur ci porta a incontrarlo alla periferia di Vinnycja, in uno stabilimento industriale messo a disposizione da Taras, un imprenditore del settore del cemento che fa parte del gruppo.

L’ultimo progetto di Syla Ne’Ayduzhykh è la costruzione e il montaggio di un sistema di artiglieria mobile per mezzi militari chiamato US Mini-SRV. Si tratta di un lanciarazzi multiplo leggero formato da un pod per quattro razzi dotato di stabilizzatori, che è ispirato all’HIMARS, un sistema di lanciarazzi per camion prodotto alla fine degli anni Novanta per l’esercito degli Stati Uniti. Il primo modello dell’US Mini-SRV era stato sviluppato da un soldato di artiglieria ucraino, ma il gruppo di volontari lo ha migliorato e ha iniziato a installarlo sui mezzi militari. «Impieghiamo circa due settimane a preparare un veicolo, tenendo conto solo dei materiali impiegati il costo è di circa 4.500 dollari», Artur spiega a me e a Edoardo.

Artur, Denys, Lyuda e Taras di fronte ad un HMMWV da loro equipaggiato con un sistema lanciarazzi multiplo “US Mini-SRV”. Vinnycja, Ucraina, 2023 (foto Edoardo Marangon)

«Il telaio è fatto principalmente in ferro. Dopo averlo costruito smontiamo la parte posteriore del veicolo e installiamo il sistema. Mentre si procede con la verniciatura, io mi occupo della parte elettrica». Il lanciarazzi è infatti comandato da una pulsantiera dotata di un cavo lungo circa venti metri che permette ai soldati di lanciare i razzi tenendosi a distanza di sicurezza, e di risalire sul veicolo e spostarsi prima di essere individuati. Guidandoci attraverso la lunga campata dell’edificio, Artur racconta nel dettaglio l’intero processo: «Taras ha messo a disposizione lo stabilimento e in più paga i suoi operai perché si fermino dopo il lavoro o nei giorni festivi per aiutare nella costruzione e nell’installazione. Se ci fossero più uomini come lui, avremmo già vinto la guerra». Taras ha acquistato e donato all’esercito anche molte auto su cui installare l’US Mini-SRV, ma il gruppo è finanziato soprattutto da donazioni e crowdfunding. I volontari si occupano anche di portare i mezzi finiti ai reparti sul fronte, lontani centinaia di chilometri.

Volontari civili durante l’installazione di un sistema lanciarazzi su un veicolo militare. Vinnycja, Ucraina, 2023 (foto Edoardo Marangon)

Pick-up equipaggiato con il sistema lanciarazzi multiplo “US Mini-SRV”. Vinnycja, Ucraina, 2023 (foto Edoardo Marangon)

Lasciata Vinnycja, ci siamo messi in viaggio verso Kharkiv, la seconda città dell’Ucraina, 700 chilometri più a est. La steppa ucraina era coperta da un sottile strato di neve bianca che spiccava contro il nero dei campi arati di fresco. I numerosi check-point dove veniamo fermati e il crescente numero di veicoli militari lungo la strada sono il segno inequivocabile che il fronte non è lontano. La città porta ancora i segni dei bombardamenti e dei combattimenti avvenuti un anno prima. Le finestre di molti edifici del centro sono ancora coperte da pannelli di legno, mentre su muri e facciate i danni provocati dai colpi dell’artiglieria russa sembrano ferite che faticano a rimarginarsi. La vita della città e dei suoi abitanti, però, appare tranquilla, come se la guerra fosse lontana. L’illusione si dissolve bruscamente al suono delle sirene. Attraversiamo le vie del centro costeggiando il fiume Kharkiv, per raggiungere il pub dove abbiamo appuntamento con Bogdan, un membro del reggimento Kraken, il gruppo militare fondato dagli ultras della squadra di calcio locale, il Metalist.

Bogdan è di media statura, ma di corporatura massiccia. Entra nel locale avvolto in un giaccone nero e un berretto di lana sulla testa rasata, ma sotto ha una maglietta nera con un teschio. Il braccio destro è coperto da un’enorme piovra tatuata – il mostro mitologico Kraken – i cui tentacoli si estendono fin sotto il gomito. Non vuole essere fotografato. A parte questo sembra un ragazzo normale, almeno fino quando non incrociamo il suo sguardo. I suoi occhi scuri sono gelidi e guizzano tutto intorno, quasi a tenere sotto controllo l’intera sala. Bogdan ha 29 anni, ma è come se avesse già vissuto almeno due vite: è un ex lottatore di MMA, le arti marziali miste, nel 2015 si è arruolato nell’esercito, ha combattuto nel Donbass e a Bakhmut con il battaglione Azov, poi è tornato a Kharkiv, la sua città, per rispondere alla chiamata di alcuni capi del tifo organizzato dei Metalist che avevano deciso di arruolare i tifosi nella battaglia che in quel momento si combatteva alla periferia della città.
«Eravamo nell’area intorno a Vylivka. Molti di noi non avevano nemmeno i giubbotti antiproiettile, ma abbiamo combattuto e respinto i russi», ricorda Bogdan.

Da quel primo gruppo di volontari sarebbe nato il nucleo che avrebbe preso il nome di Kraken e che in seguito sarebbe stato inquadrato come reggimento. «Siamo una grande famiglia dove nessuno viene abbandonato e ognuno si prende cura dell’altro», spiega. «Il Kraken comprende diversi reparti, tra cui intelligence, artiglieria, squadre droni e incursori. Sappiamo di dover combattere per ogni centimetro di terreno perché in futuro ogni posizione conquistata o difesa può rivelarsi fondamentale per il lancio di un’altra offensiva». I soldati che chiedono di entrare a far parte del reggimento devono superare una serie di test fisici, mentali e psicologici della durata di due settimane, incentrati sul concetto di «pronti a combattere, a uccidere, a morire». Il Kraken è infatti un reparto di assalto schierato in prima linea sul fronte ucraino e specializzato nella conquista delle posizioni nemiche, sabotaggio e distruzione di obiettivi specifici.

Bogdan fa parte di una squadra di incursori. Ognuno dei suoi compagni è stato preparato da un duro e continuo addestramento, ma è possibile subire un crollo mentale. «Mi è capitato di assistere direttamente a una situazione come questa», dice Bogdan, «e ho visto che l’esitazione del singolo può mettere in pericolo l’intero gruppo. Ma non bisogna provare vergogna. Chi non è pronto viene trasferito in un altro reparto, dove può comunque dare il suo contributo». Bogdan racconta del suo impegno politico, della sua partecipazione alle proteste filoeuropee di piazza Maidan nel 2014, della sua determinazione a combattere per difendere l’indipendenza del suo paese e del suo sogno di vedere, un giorno, l’Ucraina in pace, ma pronta a fronteggiare qualsiasi minaccia esterna senza dover chiedere aiuto all’Occidente. «Il nostro governo fa tutto il possibile per fornirci il materiale di cui abbiamo bisogno, ma spesso si tratta di equipaggiamenti e armi datate o di scarsa qualità. Dobbiamo chiedere aiuto attraverso crowdfunding e donazioni. Grazie ai social media e al nostro sito web possiamo raccogliere i soldi per le armi e gli equipaggiamenti di ultimo modello che ci servono per combattere i russi».

Quando Bogdan parla di uccidere, non tradisce alcuna emozione, chiama i soldati russi «carne». La sua espressione cambia solamente quando affrontiamo l’accusa di nazismo che i russi rivolgono agli ucraini, soprattutto a quelli che combattono in reggimenti come il Kraken. «La propaganda è l’arma più potente in una guerra. I russi ci definiscono nazisti, ma siamo solo persone che sono disposte a tutto per difendere l’Ucraina. Molti dei soldati russi contro cui combattiamo sono qui per la paga, non seguono nessun ideale». Prima di andare via chiediamo a Bogdan che cosa si provi a combattere sapendo che ogni momento può essere l’ultimo. «Mi sono rassegnato al mio destino. Non ho paura», risponde. «Ho una moglie e una figlia di tre anni, sanno che potrei non tornare più, ma combatto per dare al mio paese e soprattutto alla mia bambina un futuro migliore, così che possa conoscere la pace».

Veduta di Kharkiv, Ucraina, primavera 2023 (foto Edoardo Marangon)

In albergo il sonno è interrotto dalle sirene antiaeree, ma in poco tempo anche noi ci siamo quasi abituati. Al mattino partiamo verso est, in direzione di Kupyansk, una città di 30 mila abitanti al centro di violenti combattimenti all’inizio della guerra perché rappresenta un nodo ferroviario di fondamentale importanza sia per i russi che per gli ucraini. Ad accompagnarci c’è Denys, un ragazzo che conosce molto bene la zona, essendoci nato e cresciuto. Occupata nel febbraio 2022 dalle truppe russe, Kupyansk è stata riconquistata dall’esercito ucraino nel settembre dello stesso anno.

La linea del fronte si trova a pochi chilometri e il fiume Oskil, che attraversa la regione, è uno dei capisaldi della linea difensiva ucraina che i russi tentano in ogni modo di sfondare. La battaglia dura ormai da mesi, quasi tutti gli edifici sono danneggiati o distrutti, le strade sono coperte di fango e continuamente attraversate da soldati e mezzi militari. I ponti per i villaggi che si trovano al di là del fiume sono stati tutti distrutti, ne è rimasto intatto solo uno, recentemente costruito dalle truppe ucraine. Nei villaggi dall’altra parte dell’Oskil molti vivono ancora nelle loro case, senza assistenza medica e senza elettricità né riscaldamento, a causa dei danni provocati dal continuo bombardamento. Sulle poche strade rimaste, coperte da uno spesso strato di fango e ghiaccio, ci si muove con difficoltà.

Nel villaggio di Kurylivka molte case sono state riconvertite in alloggiamenti per i soldati. I civili che hanno scelto di restare vivono nella paura che un missile possa colpirli. Intorno si sentono i continui boati dell’artiglieria che spara senza tregua in lontananza. La rete elettrica è fuori uso e tutte le attività commerciali sono chiuse, fatta eccezione per una fattoria che offre lavoro alla maggior parte degli abitanti e un piccolo negozio di alimentari. Qui abbiamo incontrato Helena: «Sono rimasta durante l’occupazione russa», racconta, «ho vissuto senza elettricità per mesi e non me ne vado certo adesso. Io e mio figlio abbiamo preparato un piccolo rifugio in cantina, dove abbiamo anche un generatore e una stufa a legna. Non ho più paura dei bombardamenti, ci sono abituata».

La casa di Jura a Kurilivka, Ucraina, 2023 (foto Edoardo Marangon)

Qualche giorno prima la casa di Jura, un uomo sulla cinquantina che abbiamo incontrato un centinaio di metri più in là, era stata investita dalle schegge di un missile, caduto a pochi metri dal cancello. Le finestre erano state distrutte, così come la sua piccola vigna e il giardino. «Quando è successo mi trovavo nel magazzino sul retro» spiega Jura in lacrime, «sono vivo per miracolo. Ho riparato le finestre come potevo, ma fa freddo, soprattutto di notte, e senza elettricità non sappiamo come scaldarci. Gli aiuti non bastano». Valentina, sua madre, è nata nel 1942 a Stalingrado durante l’assedio tedesco: «Sono già sopravvissuta a una guerra», dice, «e speravo davvero di non viverne un’altra, né lo auguravo ai miei figli».

Valentina, 82 anni, nata a Stalingrado durante l’assedio, nel giardino della sua casa danneggiata dalle schegge di un missile. Kurilivka, Ucraina, 2023 (foto Edoardo Marangon)

Julia è un’anziana signora che lavora alla fattoria, come tutti. Dopo averci chiesto di aiutarla a trasportare le sue pesanti borse della spesa, ci racconta di aver chiesto al suo datore di lavoro una piccola vacanza per allontanarsi da Kurylivka e provare, almeno per qualche giorno, la sensazione di sentirsi al sicuro. «Ho paura a restare qui, ma se me ne vado per troppo tempo, la mia casa verrà occupata e tutto ciò che possiedo sarà preso dai ladri e dai soldati». Le famiglie con figli minorenni sono state costrette a evacuare su ordine delle autorità locali, i civili rimasti preferiscono restare per non abbandonare tutto ciò per cui hanno lavorato durante la loro vita.

A Kindrashivka, un altro piccolo villaggio a pochi chilometri dal fronte, Nina ci accoglie nella sua casa per mostrarci il suo rifugio antiaereo, un piccolo magazzino sotterraneo scavato in giardino, colmo di barattoli di sottaceti e casse di patate. «Quando il bombardamento si fa troppo intenso, io e mio marito veniamo qui, per sicurezza. In casa abbiamo un generatore, ma il prezzo della benzina continua a salire. Non vogliamo andarcene, tutto quello che avevamo lo abbiamo investito per costruire la nostra casa». Ogni mese Nina riceve scatole di cibo e altri beni di prima necessità dall’ONU e dalle associazioni di volontari locali. «Ma anche quando i soldati russi hanno preso il villaggio», racconta Nina, «abbiamo ricevuto aiuti e supporto. Il governo russo ha anche donato 20.000 rubli ai pensionati». Mentre parliamo i colpi dell’artiglieria si fanno più intensi. Nina sorride, poi ci guarda negli occhi e dice: «Di solito è molto peggio».

Nina nel rifugio dove accumula barattoli di sottaceti e patate. Kindrashivka, Ucraina, 2023 (foto Edoardo Marangon)

Anche se mancava poco al tramonto siamo andati a Podoly, un villaggio quasi completamente deserto al di là del fiume Oskil. Quando siamo arrivati, Alina stava spargendo mangime alle galline in una piccola aia. È anziana, ci racconta che viveva dall’altro lato della strada in un palazzo ora distrutto da due missili: «Io e mio marito Viktor ci siamo trasferiti qui, nella nostra casa estiva, dove abbiamo una stalla e un pollaio. Ma tutti gli altri inquilini se ne sono andati, come quasi tutti gli abitanti di Podoly».

La struttura del palazzo dove Alina ed il marito Victor vivevano e dove ora si rifugiano durante la notte. Podoly, Ucraina, 2023 (foto Edoardo Marangon)

Oltre il cortile della sua vecchia casa bombardata, dopo essersi fatta strada tra macerie sparse ovunque, Alina ha aperto una porta arrugginita che dava accesso alle cantine. Sotto c’era una minuscola stanza con due letti, un tavolino, due sedie e una stufa a legna. «Veniamo a dormire qui ogni notte. È piccolo e fa freddo, ma almeno è più sicuro». Alina ha indicato, qualche centinaio di metri più in là, un’altra abitazione colpita dove poche settimane due persone erano state uccise. Viktor e Alina hanno una pensione misera che non gli permette di trovare alloggio in un luogo più sicuro, da mesi non ricevono aiuti umanitari e non hanno un mezzo di trasporto così, quando hanno bisogno di comprare cibo, Viktor chiede un passaggio ai soldati fino al paese più vicino.

La dacia dove Alina e Victor si sono trasferiti allevando galline e le due mucche rimaste. Podoly, Ucraina, 2023 (foto Edoardo Marangon)

Abbiamo continuato a piedi sulla strada che porta fuori dal villaggio. Le case si diradavano lasciando spazio ai pascoli che salivano su una collinetta coperta dagli alberi. Viktor era lì con le sue mucche, ci ha salutato con la mano aperta mentre ci avvicinavamo. A pochi metri da lui c’era il cratere lasciato da un missile. Ci ha raccontato di aver vissuto a Podoly per tutta la vita e di aver sempre portato le sue mucche a pascolare in quei prati. «E continuo nonostante la guerra», ha detto indicando la linea degli alberi distante poche centinaia di metri. «I nostri soldati sono laggiù, ormai mi conoscono e mi lasciano stare qui». Non ci è sembrato che avesse paura. «Posso accorgermi dei missili da qui. Quando li vedo in cielo mi butto a terra e aspetto che sia di nuovo sicuro. Ho 67 anni ormai, ho già vissuto la mia vita, che altro posso fare?».

Victor con una delle sue mucche. Podoly, Ucraina, 2023 (foto Edoardo Marangon)

Emanuele Bussa
Emanuele Bussa

È nato a Vercelli, lavora a un progetto di ricerca sull'evoluzione del giornalismo di guerra nel contesto della guerra civile siriana, per un dottorato in media e comunicazioni alla Bournemouth University. Questo è il suo primo reportage. Da settembre 2023 collabora con Edoardo Marangon, fotoreporter vincitore del premio Eyeshot Open Call 2023, alla sua terza esperienza sul fronte ucraino.

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su