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  • Giovedì 18 gennaio 2024

L’“Affaire Théo”, il processo di cui si parla in Francia

Si sta tenendo a nord di Parigi per un fatto di cronaca di quasi sette anni fa, quando durante un arresto tre poliziotti causarono un'invalidità permanente a un ragazzo nero di 22 anni delle banlieue

Una protesta per Théo Luhaka, Parigi, 18 febbraio 2017 (AP Photo/Francois Mori)
Una protesta per Théo Luhaka, Parigi, 18 febbraio 2017 (AP Photo/Francois Mori)

Martedì 9 gennaio è iniziato a Bobigny, nel nord di Parigi, un processo che in Francia sta attirando grandi attenzioni e provocando parecchio dibattito. Riguarda un fatto di cronaca risalente a quasi sette anni fa, che coinvolse un ragazzo nero allora 22enne, Théodore (Théo) Luhaka, e tre agenti della polizia francese che lo picchiarono, lo colpirono nella zona anale con la punta del manganello e gli provocarono un’invalidità che è stata giudicata permanente da diversi medici. L’ultima perizia psicologica fatta su Luhaka parlava di «una depressione particolarmente preoccupante», di «perdita di interesse per le attività quotidiane», di «rifiuto delle relazioni sociali e familiari», di «senso di vergogna». I tre agenti sono accusati di violenza volontaria aggravata.

La storia di Théo Luhaka è stata seguita con costanza dai giornali francesi: come ha scritto Le Monde, è considerata il simbolo dei rapporti tra la polizia e i giovani residenti nei quartieri più marginali della Francia, «un simbolo rivelatore dei metodi di alcuni poliziotti sui quali la giustizia dovrà pronunciarsi: giustizia che raramente è a proprio agio quando gli accusati sono esattamente coloro di cui la giustizia stessa ha bisogno per le proprie indagini».

Il processo non si svolge davanti a un semplice tribunale penale, ma davanti a una Corte d’Assise composta da tre giudici e da una giuria, perché il reato al centro del processo è punibile con una pena superiore ai dieci anni.

I fatti al centro del processo avvennero il 2 febbraio del 2017 verso le cinque del pomeriggio ad Aulnay-sous-Bois, nel dipartimento della Seine-Saint-Denis, a nord di Parigi, e furono ripresi in gran parte dalle telecamere di sorveglianza della città.

Nel video principale, che dura otto minuti, si vede Luhaka (22 anni, incensurato, e avviato verso una carriera di calciatore professionista) salire una scala e raggiungere altri quattro ragazzi. Si vedono poi quattro poliziotti che avvicinano il gruppo e che portano i ragazzi dietro l’angolo di un muro per la perquisizione e il controllo di identità. Qui le telecamere non arrivano, ma la situazione è ancora calma. Uno dei poliziotti, quello che poco dopo colpirà in modo definitivo Luhaka, ha però già in mano il manganello telescopico.

Un minuto dopo la situazione sembra precipitare. Da dietro l’angolo si vedono ricomparire gli agenti di polizia che prima spintonano i ragazzi e che poi si concentrano su un’unica persona, Luhaka, che nella mischia perde la giacca, si ritrova in maglietta e con i pantaloni della tuta calati lungo le gambe. Nel frattempo gli altri ragazzi, nella confusione, si disperdono e vengono tenuti a distanza da uno degli agenti con del gas lacrimogeno. Uno dei poliziotti addosso a Luhaka, che oppone resistenza agli agenti, inciampa e cade trascinando Luhaka sopra di sé. Si vede il poliziotto a terra tirare fuori una bomboletta e sparare del gas lacrimogeno a Luhaka, a pochi centimetri dal suo viso, mentre gli altri agenti rimasti in piedi picchiano il ragazzo con il manganello dandogli tra l’altro un colpo dietro la nuca. Dopodiché i poliziotti lo alzano a forza e lo bloccano contro un muretto, continuando a colpirlo, per ammanettarlo.

È a quel punto che l’agente Marc-Antoine Castelain, che si trova dietro a Luhaka, lo colpisce con violenza nella zona anale con la punta in acciaio del manganello. Luhaka si accascia immediatamente a terra, dove rimane sostanzialmente immobile. A quel punto il video si interrompe, ma ce ne sono altri che mostrano, almeno parzialmente, cosa accadde dopo. Gli agenti prelevano Luhaka, lo fanno alzare e lo portano di nuovo dietro al muro, fuori dalla vista delle telecamere. Un passante filmò però per nove secondi cosa accadde: i poliziotti prendono per le gambe Luhaka, lo fanno cadere sulla schiena e lo trascinano per terra per farlo mettere seduto contro il muro dove continuano a colpirlo e a spruzzargli addosso il gas lacrimogeno.

A quel punto Luhaka fu portato al commissariato dove ebbe una forte emorragia: fu ricoverato in ospedale e venne operato d’urgenza una prima volta per gravi ferite nel tratto finale dell’intestino. Il colpo di manganello gli aveva rotto internamente lo sfintere provocandogli una lesione di circa dieci centimetri nel canale anale e nel retto.

Quel che Luhaka ha raccontato corrisponde a quanto si vede nel video: «Ero girato di tre quarti e ho visto quello che stava facendo dietro di me. Mi sono piegato sulla pancia, non avevo più la forza, sentivo come se il mio corpo mi avesse abbandonato». Il ragazzo ha poi aggiunto che gli agenti gli avevano scattato delle foto («come se fossi un trofeo») e che avevano continuato a colpirlo anche dopo averlo caricato in macchina, chiamandolo “negro”, sputandogli addosso, spruzzandogli gas lacrimogeno in faccia e rivolgendogli altri insulti razzisti.

Un murale per Théo Luhaka di Black Lines
Bobigny, 11 febbraio 2017 (AP Photo/Aurelien Morissard)

Nel tempo sono emerse le testimonianze e i video anche di quello che stava accadendo intorno al pestaggio da parte della polizia, per esempio l’allontanamento con una granata di gas lacrimogeno di un piccolo gruppo di sette persone che tentava di avvicinarsi alla scena.

Sul posto arrivò anche una squadra della Brigata Anticrimine (BAC) per aiutare i colleghi. I nuovi agenti, che contrariamente alle regole non portavano alcun segno distintivo, si fecero carico a modo loro di tenere lontano chi era rimasto ad assistere al violento arresto o che intanto si era avvicinato. Si trattava in realtà di tre singole persone: a una fu lanciata una “grenade de désencerclement”, una granata che esplode pallettoni di gomma il cui uso è regolato in modo molto rigido, in caso cioè di grave minaccia e accerchiamento; un altro uomo venne allontanato a calci da un poliziotto e contro un terzo, che si era già voltato con le mani alzate per allontanarsi, furono prima sparati dei proiettili di gomma (flash-ball) e poi una granata di gas lacrimogeno.

In seguito, nella loro relazione questi agenti mentirono nel raccontare i fatti: il nome del poliziotto che aveva usato il fucile di flash-ball senza averne l’autorizzazione fu sostituito con il nome di un poliziotto che invece poteva usarlo, e tutti scrissero che erano minacciati da trenta persone che impedivano loro di raggiungere l’auto. Questa versione dei fatti fu totalmente contraddetta dai video di sorveglianza.

Nel 2020 l’ente che in Francia si occupa di controllare l’operato della polizia, il Défenseur des droits (Difensore dei diritti), pubblicò i risultati di un’inchiesta durata più di tre anni con l’obiettivo di valutare se durante l’arresto di Luhaka fosse stato rispettato il codice deontologico che regola l’azione delle forze dell’ordine. Concluse che no, non fu rispettato: c’erano stati molti comportamenti in totale contraddizione con il codice, a partire dall’inizio dell’intervento effettuato su basi giuridiche vaghe, fino alla gestione del caso in commissario con l’introduzione di dati falsi negli archivi, passando per i numerosi colpi inferti a Luhaka mentre era fermo, ammanettato a terra e poi sulla volante, per l’umiliazione delle foto che gli erano state scattate, per l’uso illegittimo di armi cosiddette intermedie come granate e flash-ball.

Tutte queste mancanze furono ampiamente documentate, ma gli agenti non furono comunque sanzionati come richiesto dal Difensore dei diritti per il loro comportamento.

Nei giorni subito successivi all’aggressione di Luhaka centinaia di persone manifestarono vicino a Parigi e ci furono scontri con la polizia. Luhaka fece un appello pubblico ai giovani del suo quartiere di non «fare la guerra» e di «rimanere uniti». L’allora presidente della Repubblica, François Hollande, andò in ospedale a trovare Luhaka che inizialmente aveva scelto come proprio avvocato Eric Dupond-Moretti prima che quest’ultimo, divenuto ministro della Giustizia, cedesse il posto a un suo collega, Antoine Vey.

Dopo la prima denuncia di Luhaka, un poliziotto fu formalmente accusato di stupro e altri tre di violenza aggravata. Nelle settimane successive, uno degli agenti fu però escluso dall’indagine: per questo oggi a processo ci sono solo tre dei quattro poliziotti presenti inizialmente sulla scena: Marc-Antoine Castelain, che oggi ha 34 anni, Tony Hochart, 31 anni, e Jérémie Dulin, 42 anni.

Quello di cui da una decina di giorni si sta discutendo in tribunale sono due specifiche fasi dell’arresto: il colpo di manganello che provocò la grave ferita a Luhaka e le violenze commesse subito dopo, mentre il giovane, caduto a terra, non si muoveva più. Sulla seconda questione, dicono i giornali francesi, non ci sono molti dubbi: «Poiché la parte civile era a terra e immobile, gli atti di violenza erano indiscutibilmente sproporzionati», ha scritto il giudice per le indagini preliminari nella sua ordinanza di rinvio a giudizio.

Il colpo di manganello definitivo dato da Marc-Antoine Castelain, invece, è al centro della discussione. La qualificazione di “stupro” inizialmente riconosciuta è stata messa da parte, sebbene corrisponda a ciò che Luhaka, ancora oggi, dice di aver subito. La sua ferita, secondo gli esperti, è stata causata «da un colpo al margine dell’ano e non direttamente da una penetrazione dell’ano». E se questo colpo «è stato effettivamente sferrato volontariamente», la zona colpita lo è stata involontariamente: nessuna penetrazione, nessuna intenzionalità, dunque nessuno stupro. Ciò che il processo deve stabilire è però se quell’atto sia stato legittimo e proporzionato alla situazione oppure no.

In aula Marc-Antoine Castelain, che rischia 15 anni di carcere per «violenza intenzionale con conseguente invalidità permanente», ha definito il proprio colpo come una «spinta», un «gesto imparato all’accademia di polizia». Ha sostenuto di non essere riuscito a usare il manganello in modo classico perché altrimenti avrebbe colpito i colleghi che stavano tenendo Luhaka. Dice dunque di aver «spinto» il manganello mirando alla coscia per far piegare Luhaka e facilitarne l’ammanettamento.

Il gip, nella propria ordinanza, ha sottolineato come dal video risulti che, nei dieci secondi precedenti il ​​colpo, Luhaka avesse «smesso di dimenarsi» e che, «anche se resisteva ancora (…) era bloccato contro un muretto basso, non gesticolava più e non stava attentando all’integrità fisica degli agenti di polizia». Questi dieci secondi di «relativa calma (…) avrebbero permesso a Marc-Antoine Castelain di analizzare la situazione e di rinunciare alla propria azione».

Durante le udienze sono state lette alcune lettere di encomio ai poliziotti scritte dai loro superiori: secondo Le Monde è stata presentata «l’immagine idilliaca di una polizia senza razzismo e senza violenza». È stata raccontata la scelta dei tre poliziotti di esercitare a Seine-Saint-Denis, un territorio «di formazione», e esaltata la nobiltà dell’impegno di tutti coloro che sono diventati agenti di polizia per «lottare per un mondo migliore» (come ha detto Jérémie Dulin), per «migliorare servendo gli altri» (Marc-Antoine Castelain), per «garantire la pace pubblica e la sicurezza» (Tony Hochart).

Gli imputati hanno giustificato i loro gesti dicendo che i colpi dati a man rovescio, non conformi al regolamento, furono istintivi e causati dalla pericolosità della situazione, che il gas lacrimogeno spruzzato a pochi centimetri dalla faccia di Luhaka mentre era ammanettato fu il risultato di uno «spasmo» e di un gesto «involontario», che il calcio brutale dato a Luhaka in manette per farlo sedere era in realtà per allontanare un oggetto non identificato nelle vicinanze e non farci cadere il giovane sopra.

Una protesta a Bobigny, la scritta dice: “La polizia uccide, stupra. ACAB”, 11 febbraio 2017 ​(AP Photo/Aurelien Morissard)

La linea della difesa è insomma che gli agenti non avrebbero «nulla da rimproverarsi» e che anche loro avrebbero sofferto: «Noi agenti di polizia siamo vittime a modo nostro», ha detto Marc-Antoine Castelain che ha poi raccontato il dolore della sospensione, il sentimento di abbandono che ha provato, l’impossibilità di guardare al futuro nell’attesa di una possibile condanna.

L’indagine giudiziaria che ha portato al processo era stata affidata all’Ispettorato Generale della Polizia Nazionale (IGPN) e le conclusioni erano state decisamente a favore degli imputati. Le conclusioni però sono state messe in dubbio anche dalla giudice presidente del tribunale, Caroline Jadis-Pomeau, che ha citato la clemenza che avrebbe potuto guidare i poliziotti ad indagare su altri poliziotti. Durante il processo sono comunque emerse posizioni discordanti anche dall’interno dell’IGPN che hanno sottolineato come effettivamente ci fu un uso sproporzionato della forza da parte di Castelain e che le pratiche apprese in accademia devono comunque essere applicate secondo le regole e il contesto.

– Leggi anche: Chi controlla la polizia?

La sentenza è attesa per venerdì 19 gennaio. Durante le udienze che si sono svolte finora, in aula erano presenti dalla parte di Théodore Luhaka, la sua famiglia e molti sostenitori e sostenitrici tra cui la madre di Nahel M., diciassettenne ucciso lo scorso giugno da un poliziotto a Nanterre. Sui banchi di destra, per i poliziotti a processo, tanti colleghi in borghese.